LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Mafai (2002)

«Mi chiedi qualcosa sull'inizio... L'inizio fu molto bello, per me. Ho 'incontrato' il Partito comunista a Roma, nel settembre 1943, alla Biblioteca Nazionale che allora stava nell'antico palazzo che ospita oggi il ministero dei Beni Culturali. Ne ricordo i saloni in eterna penombra, il silenzio, i lunghi tavoli con le lampade dai paralumi verdi. Frequentavo la biblioteca assieme a mia sorella Simona: io avevo diciassette anni e lei quindici. Lì abbiamo conosciuto alcuni studenti universitari già collegati con il Pci. Così è cominciata una storia che ci ha segnato per tutta la vita.»

(Miriam Mafai, Miriam Mafai a Vittorio Foa, p. 20).

Mafai (2012a)

«Roma era allora per noi un villaggio che potevamo attraversare a piedi, dai prati brulli di Castro Pretorio, dove non era raro veder brucare le pecore e si andava costruendo la nuova università, fino a via Montebello dov'era la nostra scuola elementare intitolata a Enrico Pestalozzi e, lì all'angolo, una cartoleria ricca di colori Giotto e di quaderni a righe. Sempre accompagnate, potevamo arrivare fino a via Volturno per comperare, all'edicola, il «Corrierino dei piccoli», e fare una breve passeggiata davanti alla stazione, luogo misterioso e affascinante, sul cui frontone spiccava un gigantesco orologio. Alle volte, con mio padre, arrivavamo fino alla piazza dove le Naiadi oscenamente abbracciate ai cigni lanciavano in alto spruzzi d'acqua, poi ci inoltravamo lungo via Nazionale, con un paio di grandi alberghi, bar eleganti e belle vetrine di tappeti, vestiti, profumi. All'altezza del Traforo, subito dopo l'imponente Palazzo delle Esposizioni, la nostra passeggiata finiva.
Da lì mio padre proseguiva da solo per raggiungere, a Palazzo Venezia, un suo vecchio amico, Nino Santangelo, che, lo sguardo affettuoso dietro i grandi occhiali da miope, gli metteva a disposizione i volumi e le riviste della Biblioteca di Storia dell'Arte che dirigeva.
«Chi di noi allora sapeva di Goya, Bruegel e Piero se non attraverso qualche riproduzione?» annotava mio padre. «E poi la pittura moderna: un vero giardino di delizie. È qui che trovammo Chagall e Kokoschka, è qui che entrammo in contatto con la pittura di Parigi...».
Ma noi non eravamo autorizzate ad arrivare fin là, tanto meno a entrare in biblioteca. All'altezza del Traforo noi sorelle tornavamo indietro seguendo svogliate la cameriera di nonna che ci aveva accompagnate.»

(Miriam Mafai, Una vita, quasi due, p. 30-32).

Mafai (2012b)

«Per affrontare un esame di riparazione di greco, in mancanza di un testo che avevo lasciato a Genova, avevo deciso di frequentare, con mia sorella Simona, la Biblioteca Nazionale che aveva sede allora nel palazzo del Collegio Romano che, istituito a suo tempo da Ignazio di Loyola come luogo di formazione dei gesuiti, ospitava ormai, da quasi cento anni, il liceo Visconti, che divideva allora, con il Tasso, il titolo di migliore liceo classico della città. Mia sorella ed io decidemmo dunque di passare le nostre giornate in biblioteca, io per recuperare il mio ritardo di greco, lei per leggere e studiare un libro di Labriola che pare avesse, in appendice, il Manifesto dei comunisti. (Lo aveva, effettivamente, e mia sorella lo studiò con diligenza).
La Biblioteca Nazionale era, ed è rimasta per me indimenticabile, un luogo straordinario, di silenzio e di studio. Ne ricordo l'ingresso con il banco per le richieste dei libri, e subito dopo le sale riservate alla lettura con i lunghi tavoli di legno scuro, le lampade con l'abat-jour verde, tante giovani teste chinate sui libri. Per fumare si usciva sul pianerottolo, davanti a un finestrone che affacciava sul cortile interno del liceo.
E fu lì che incontrammo il primo comunista della nostra vita: un giovane colto elegante e presuntuoso che amava i libri (scoprimmo che stava leggendo Malraux) e ancor più il cinema. “Sapete chi è Luchino Visconti?” ci chiese con una punta di ironia e di arroganza, Noi rispondemmo di sì. Incoraggiato dalla nostra evidente simpatia e curiosità, ci confidò di essere un suo collaboratore. Noi non gli credemmo. Ma era vero, quel giovane biondo, che si chiamava Rinaldo Ricci, aveva anche le chiavi della casa di Visconti, un villino sulla Salaria, dove poteva ricevere talvolta i suoi amici e le sue amiche. Ci rivedemmo nei giorni successivi sempre davanti al finestrone del secondo piano dalla Biblioteca Nazionale. Era comunista, ci confidò, ma non era autorizzato a farci entrare nell'organizzazione. Tuttavia conosceva qualcuno che avrebbe potuto farlo, se volevamo. Fu così che entrammo in contatto con Rodolfo Coari. Mia sorella Simona ed io lo incontrammo da Giolitti, via degli Uffici del Vicario, esattamente dove sta ancora adesso, davanti a una tazza di finta cioccolata fumante. Non ricordo cosa ci chiese, né cosa gli dicemmo, né cosa ci disse lui, ma da allora sia io che mia sorella fummo considerate iscritte al Pci.»

(Miriam Mafai, Una vita, quasi due, p. 63-64)

Magris (2016)

«La prima volta in cui ho visto una vera Biblioteca è stata un’impressione inappellabile. La Biblioteca Classense di Ravenna, nel 1948. Avevo nove anni e con i miei genitori eravamo andati a trovare mio zio Virgilio, fratello di mio padre e allora Prefetto di Ravenna (che non aveva autorizzato un comizio elettorale di mio padre, repubblicano, perché non voleva che lo stesso cognome accomunasse il rappresentante dello Stato a un uomo di parte).
A farci da guida nella Biblioteca Classense era Manara Valgimigli, il grande filologo, traduttore e studioso della grecità che aveva coperto cattedre prestigiose ma la cui passione più profonda erano i libri, la Biblioteca. Illustrati dalla sua sanguigna e bonaria sapienza di romagnolo – cui la familiarità con Persefone e le tragedie greche da lui mirabilmente tradotte non toglieva il gusto di vivere e l’amabilità, consapevole ma non succube del nulla – quei libri, quegli scaffali, quei meandri non mi sembrarono un’inquietante ossessiva muraglia ma piuttosto una foresta grande e, anche nella sua ombra, protettrice. Forse già allora intuii sia pur vagamente che si potevano amare i libri senza diventarne, come Raskol’nikov in Delitto e castigo, vittima. I libri potevano essere fratelli, sebbene maggiori e tanto più ricchi d’esperienza e d’intelligenza, e non necessariamente padri o profeti tirannici.
[...] Il suo umanesimo è esperto di tragedia, ma non sopraffatto da essa; lo sguardo pietrificante della Medusa non spegne il sorriso affettuosamente canzonatorio col quale Valgimigli, leggendo le lettere di Byron alla sua amante Teresa Guiccioli conservate alla Classense, prende garbatamente in giro quello e tanti altri famosi epistolari d’amore, che gli sembrano ricopiati da un segretario galante, e depreca che non siano finiti nel fuoco, rogo antico o termosifone moderno.»

(Claudio Magris, I libri sono fratelli maggiori, «Corriere della sera», 141, n. 289 (4 dic. 2016), p. 35).

Manganelli (1977)

«Umberto Eco ha scritto un libro estremamente gradevole, divertente, lucido; un po’ manageriale, da manager giovane e aggressivo, cui piacciono le cose ben fatte. Il libro insegna come si fa una tesi di laurea; ed è talmente cattivante, da far venir gola di laurearsi da capo. [...] L’avessi incontrato, un libro così fatto, nella mia giovinezza, avrei imparato a fare cose che non saprò mai fare. Ad esempio, le note a piè di pagina. Troppo tardi: incapace di frequentare metodicamente le biblioteche nostrane, di compilare schede, di catalogare argomenti, di redigere note, ho dovuto ridurmi a fare il genio. Miserabile fine, per chi era nato per gli studi. [...]
Il pensiero che ogni anno, migliaia e migliaia di volumi parte inutili, parte truffaldini, vengano ammucchiati negli archivi universitari mi riempie di orrore, empia biblioteca che, come ha scritto Cases, chiama Omar l’incendiario. [...] Sia chiaro: considero dissennata la pratica della tesi di laurea a conclusione obbligatoria degli anni di corso; poiché, come scrive Eco, «questo criterio non è seguito nella maggioranza delle università straniere» (pagine 11-12), non capisco perché debba prevalere in Italia, che vanta le peggiori strutture universitarie, le biblioteche più caotiche e isteriche (quelle che svengono se gli attaccano le tendine alla veneziana), i bilanci più inadeguati. Resista la laurea come dottorato di ricerca, affinché chi sospetta di avere inclinazione a fare libri, impari a farne facendone uno.
[...]
Nell’università non c’è tragedia, non ci deve essere: dunque, deve sopravvivere almeno una omogeneità tecnica, una regola apparentemente obiettiva di convivenza intellettuale. E poiché questa è una prevaricazione infondata – proprio come il Paradiso, si noti bene, Terrestre – l’università è stata ed è il luogo privilegiato del conflitto, dell’inferno ignaro contro il silentium della sala cataloghi; che la tragedia cominci con la cacciata – per eccesso di cognizioni – dall’eden, mi piace, mi piace molto.»

(Giorgio ManganelliBasta con la tesi di laurea, «Corriere della sera», 102, n. 209 (10 set. 1977), p. 3. L'articolo è stato ripubblicato, col titolo, Tesi di laurea II, in Giorgio Manganelli, Mammifero italiano, a cura di Marco Belpoliti, Milano, Adelphi, 2007, p. 106-109).

Manganelli (1986)

«[Almansi] Che significa la grande biblioteca, il British Museum o la Library of Congress? La polizia celeste potrebbe trovarvi la documentazione di tutti gli errori dell'uomo.
[...]
[Manganelli] Lei intende il male in modo macroscopico; appunto, Edipo, I sette a Tebe, che so io, la Strage degli Innocenti. Mi pare che la quotidiana inesattezza dell'esistenza sia un pochino fuori di questa gigantesca archiviazione dei misfatti dell'umanità. [...]
[Almansi] Lei non sente l'orrore di una grande biblioteca?
[Manganelli] Ah, sí, certo, come no? La grande biblioteca, senza dubbio, è un orrore, ma anche una piccola biblioteca è un orrore.
[...]
Non vedo come la letteratura possa agire senza una qualche dimestichezza con l'orrore, e quindi se lo porta dietro in modo
molto naturale, molto semplice, anche in quantità modeste. Ecco, non è soltanto il grande orrore mitico. Poi anche il grande orrore mitico si lascia miniaturizzare, e a un certo punto dell'enorme viene fuori una piccola, minuscola piaga che diventa letteratura e che è in grado di seguirci e di affrontarci nella piccola o nella grande biblioteca.»

(Guido Almansi, Nulla piú che un'inezia, in Giorgio Manganelli, La penombra mentale, p. 185-190: 188-189. La conversazione uscì per la prima volta in «Panorama», 16 febbraio 1986).

Manzini (1944)

«La prima volta le aveva parlato in biblioteca. Curvo sulla sua testa, mentre ella sfogliava uno schedario, l'aveva aiutata in una ricerca; ma invece di leggere le stesse parole, s'era incantato a guardarle le pupille scorrere da un capo all'altro del rigo, dietro la frangia delle ciglia. Sottomettendosi a quel movimento, ora vivace, ora lento, ora interrotto, s'impadroniva d'un segreto, spiava, s'addentrava furtivamente in una proibita elementare intimità. Della lettura di lei, assorbiva il ritmo, il puerile indugiare quasi d'inconfessata balbuzie, l'ondoso aderire dell'intelletto, e, in certe rapide gioconde riprese, forse lo scatto, il prensile riporre della memoria».

(Gianna Manzini, Quaranta minuti d'allarme, «Mercurio», I, n. 2 (1° ottobre 1944), p. 45-46. Il racconto è stato poi raccolto in Forte come un leone, Milano, Mondadori, 1947 e in Cara prigione, Milano, Mondadori, 1958). Si avvertono gli echi della frequentazione della Biblioteca nazionale di Firenze e l'incontro con Bruno Fallaci, che Gianna Manzini sposerà alla fine del 1920.).


Manzini (1971)

«E gli studi? Hanno nulla a che fare i così detti studi superiori con quelli obbliganti (una borsa di studio dopo l'altra) delle scuole da me frequentate fino ad allora? Sì, mi era sempre piaciuto studiare. [...] Ma a Firenze, a parte l'ebbrezza delle lezioni, che cosa fu la Biblioteca nazionale! Quella scala: la scala del paradiso. I libri poi: un continente, una miniera; e anche uno spettacolo. Tieni. Puoi prendere quello che vuoi, anche averne in prestito: tuoi, dunque, tutti. Il silenzio aumentava un senso di rito e di fatagione. Come se non bastasse, da bambinuccia gracile che ero, divenni di colpo una ragazza tutta sana, scoppiante d'energia […].
Non avevo mai avuto appetito. […] Invece ebbi addirittura fame. Quell'improvvisa ingordigia di tutto, mi agguantò lo stomaco; e fu meraviglioso scoprire il pane. [...] Nel tratto tra la scuola e la biblioteca incontravo l'uomo che vendeva panini di ramerino. Sicuro che ne compravo uno.
Dovrò dire anche degli odori. Odori della pioggia sulla pietra. Odori di campagna portati a folate. Odori di libri invecchiati nelle sale della biblioteca. […]».

(Gianna Manzini, Ritratto in piedi, Milano, Mondadori, 1971, p. 192-193. Gianna Manzini, insieme alla madre, approdò a Firenze nell'autunno 1914.)

Marinetti (1909)

«Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
[...]
In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifìssi, registri di slanci troncati!...) è, per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa.
[...]
E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!... Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!... Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!... Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate!»

(Manifesto del futurismo, 20 febbraio 1909, in: I manifesti del futurismo, p. 7-8)

Marinetti (1917)

«In questo albergo, aspettando di ripartire per il fronte, in treno, nell’odore mordente dei grigioverde ricolorato dalla 7 trincea, tra le gomitate dei soldati, io continuerò a dettare questo libro in velocità maneggiando brutalmente il meraviglioso corpo elasticissimo di quella donna fatta di cento donne che ognuno porta con sé alla guerra. Ognuno... un italiano beninteso, completamente virile, libero da ogni pregiudizio nordico, nemico delle biblioteche e intimamente legato al gran pozzo di sensualità che si chiama Mediterraneo. Libro illogico dunque che sarà felice d’essere strappato dalle mani indefinite delle donne brutte, ma piacerà indubbiamente alle mani precise e soavi delle belle».
(Filippo Tommaso Marinetti, Come si seducono le donne, p. 32; il passo è citato dalla seconda edizione dell'opera, ampliata e apparsa con il titolo Come si seducono le donne e si tradiscono gli uomini, pubblicata nel 1920 da Sonzogno)

«Una bella donna non può avere altro amante che un soldato armato in tutti i modi che viene dal fronte e sta per ripartire. I gambali, gli speroni e la bandoliera sono essenziali all’amore. La giacchetta, il frack, lo smocking e lo stiffelius sono fatti per la sedia e la poltrona, evocano la biblioteca, lo sverginamento lento dei libri intonsi, la lampada a abat-jour verde, l’alito fetido dei moralisti, dei professori, dei critici, dei filosofi e dei pedanti. Sono questi infatti i mariti che io incorono sistematicamente: tutti i nemici della divina velocità».
(Ivi, p. 63)

Marinetti (1919)

«Si andava predicando che i giovani italiani erano ignoranti e che il loro ingegno aveva bisogno di una cultura solida, seria, metodica. In realtà si predicava l'odio all'ingegno. Leggete, studiate, ponderate, chiudetevi nelle biblioteche, compulsate i codici, studiate gli antichi! Vivete nei musei! Copiate quadri e statue! Bisogna imparare a scrivere, a dipingere, a scolpire copiando le opere dei grandi! La lingua italiana è difficilissima, occorre decidere dopo serie meditazioni quali siano i maestri da preferire e i dizionarî da consultare. Il Bartoli, il Boccaccio, Machiavelli, Tommaseo, Rigutini, Fanfani... Occorre postillarli.»

«Non abbiamo nessuna compassione per un'altra categoria di cittadini lenti, podagrosi, e privi di agilità vitale che io chiamerei gli scimmioni di biblioteca.
Lo scimmione di biblioteca e lo scimmione della campagna devono sparire.»

(Filippo Tommaso Marinetti, Democrazia futurista, p. 137-138 e 210)

Martini (1880-1912)

«Ripensando al tuo libro sulla metrica barbara sono andato a ripescare un'ode, barbara in tutti i sensi della parola, che trovai in un manoscritto della Barberiniana. È di Giacinto Gigli diarista dei tempi di Urbano VIII. Non ti servirà a nulla, ma siccome a me non costa nulla il mandartela, eccotela qui, forse con qualche errore perch'io la feci copiare, e non mi curai poi di confrontarla coll'autografo.»
(Ferdinando Martini, lettera a Giosue Carducci, Roma 7 novembre 1880, in Lettere, p. 112-113).

«La Psiche [di Giovanni Prati] non l'ho. Io stesso dovrei prenderla alla Biblioteca Nazionale di costà [Firenze]. Sarebbe bene che la vedesse».
(Ferdinando Martini, lettera a Guido Biagi, Monsummano 2 novembre 1887, ivi, p. 188. Martini preparava l'edizione delle Poesie scelte di Prati che uscì nel 1892 da Sansoni).

«Mi scriva un giorno o due avanti: perché io vo qualche volta a Firenze per ricerche nell'Archivio o in biblioteca, e non vorrei Ella arrivasse quando io non ci sono.»
(Martini, lettera a Giuseppe Picciola, Monsummano 27 agosto 1889, ivi, p. 220).

«Caro signor Chilovi,
Per carità non mi abbandoni; i suoi copiatori m'han lasciato sulle secche di Barberia, piantandomi sul piú bello. Le lettere piú importanti fra le inedite della Nazionale (Centrale, s'intende) mi mancano. Veda, c'è ancora piú cose. Tra le altre:
  Una lettera al Guadagnoli, in versi, che incomincia: Pria che mi scordi del dottor Antonio.
  2° Una lettera al Montanelli, con la quale gli manda I costumi del giorno, poesia che pur mi preme di avere e che, del rimanente, è parte della lettera.
[...]
Mi son ricordato di questo aneddoto della mia insubordinata puerizia, aspettando le lettere del Giusti: se non me le manda presto, Ella mi vedrà quotidianamente far capolino all'uscio della sua stanza e ripetere «Non s'aspetta che Lei».
Sul serio, caro signor Chilovi, me Le raccomando: non vedo l'ora d'uscir da questo pelago; e fo assegnamento sulla sua antica e cara amicizia.»
(Martini, lettera a Desiderio Chilovi, [1889?], p. 359. Martini raccoglieva le lettere di Giuseppe Giusti per pubblicarne l'epistolario, che uscì nel 1904 da Le Monnier. Nelle lettere a Chilovi conservate nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze si trovano molte altre richieste d'informazioni o di servizi da parte di Martini).

«Ne' brevi e non frequenti ozi che il mio negro Governatorato mi concede, sto lavorando intorno al Goldoni; ossia radunando e ordinando alcuni studi, fatti anni sono, circa la sua dimora in Francia e i suoi imitator [...]. Non potrò, naturalmente, condurre a termine questo lavoro, senza passare un paio di mesi almeno negli archivi e nelle biblioteche di Parigi; tuttavia ad abbreviare il soggiorno, da farvi l'anno venturo, avrei bisogno di qualcheduno che, mediante compenso, s'intende, anticipasse certe ricerche biografiche e bibliografiche.»
(Martini, lettera a Luigi Primoli, Asmara 9 giugno 1905, ivi, p. 401).

«C'è, è vero, da cercare ancora, come ho detto, a Bologna e a Torino, ma l'onorevole [Paolo di Camporeale] che vide le carte del Minghetti non ricorda di alcuna lettera di qualche importanza: e per le carte del Rattazzi, conservate nella biblioteca reale, bisogna chiedere un permesso ch'io non sono sicuro di ottenere.»
(Martini, lettera a Piero Barbèra, Monsummano 4 febbraio 1912, ivi, p. 459, relativa al progetto di pubblicare una raccolta di lettere di Vittorio Emanuele II).

Martini (1919)

«Signor Direttore,
Nell'ultimo numero del Giornale di Valdinievole leggo un'ottima proposta: di far sí che finalmente la biblioteca comunale sia una biblioteca: non una raccolta di pochi volumi, la piú parte di scarsa utilità agli studi moderni, aperta poche ore in due soli giorni della settimana, senza il corredo di un catalogo razionalmente compilato, e via dicendo, ch'io non ho da ripetere quanto fu in quell'articolo opportunamente osservato.
Io non so se quella proposta sia per trovare favorevole accoglimento; né se il disegno possa tradursi in effetto nei modi che il giornale suggerisce; so, invece, e ne sono profondamente convinto, che, ora piú che mai, importa che l'Italia si faccia piú colta, e però della coltura sieno moltiplicati gli organi divulgatori.
E perché il credere ciò e il desiderarlo non basta; se non altro per dare il buon esempio, metto fuori anch'io la mia proposta: ora, per quando il disegno si concreti mi fo lecito mettere a disposizione dell'istituto, e per esso del comune cui esso appartiene, lire mille per concorrere alle spese d'impianto: mi obbligo altresí a fornire io stesso un certo numero di volumi adatti alla cultura media e popolare; ed a sollecitare la generosità di editori, fidando di ottenerne molti validi aiuti.»

(Ferdinando Martini, lettera al direttore del «Giornale di Valdinievole», Roma 3 febbraio 1919, in Lettere, p. 545).

Martini (1923)

«Mesi sono, sfogliando nella Biblioteca Nazionale di Firenze i carteggi della signora Emilia Peruzzi, in una delle lettere che per lunghi anni, quasi quotidianamente, ella mandò al Magnetta console sardo a Livorno, nelle quali, raccontato quanto di più notevole succedeva in Toscana politicamente parlando, esprime insieme i risentimenti, le speranze, i propositi della parte liberale, che nel marito Ubaldino riveriva un dei capi più esperti e autorevoli: in una di quelle lettere lessi, non senza molta maraviglia, queste parole: «Jeri l'altro sera fu offerto un banchetto alla Ristori. Parlò il Martini, e parlò il Busi, ex segretario del Montanelli; e capirete che l'Italia fu nominata». Il Martini! chi sa di quale Martini pensò si trattasse la egregia signora o quale lo immaginò? O forse seppe che ero propriamente io? Ma i tempi eran quelli: purchè vi si parlasse d'Italia anche ai versi colascioneschi di un ragazzo di quindici anni si dava l' importanza di un avvenimento politico.»

(Ferdinando Martini, in: Il primo passo, p. 181-189: 188-189).

Masulli (1960)

«Nel 1942 avevo cominciato a pubblicare i miei primi versi su di un settimanale romano, quando la lettura della lirica ungarettiana, fatta quasi per caso nella Biblioteca Nazionale [di Roma], mi aprì nuovi orizzonti. Capii che l'essenzialità del linguaggio che cercavo di realizzare era ben viva nel Sentimento del Tempo; un letterato amico affermò che certo essa «circolava nell'aria». In seguito ebbi occasione di conoscere Giuseppe Ungaretti nel suo primo anno d'insegnamento presso l'Università di Roma e il suo caro incoraggiamento e altre disparate letture – Baudelaire fu un'importante scoperta – mi spinsero a più accese fantasie. Parlavo pochissimo, ma lentamente le giornate si maturavano.»

(Biagia Marniti, testimonianza per Ritratti su misura, p. 264)