LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

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Levi Della Vida (1954a)

«Uno studioso antifascista che consumava nell’augusta biblioteca apostolica vaticana gli ozi procuratigli dal regime coll’averlo rimosso dal suo posto di insegnante, e si guadagnava un pane sostanziale e soprasostanziale scartabellando vecchi manoscritti orientali, conobbe colà Alcide De Gasperi, il quale nel piano sottostante a quello della sala di studio era intento al lavoro assai meno gradevole di schedare libri per il catalogo. I due «banditi» non s’erano mai incontrati prima; e per quanto, negli otto anni di consuetudine quotidiana dal 1931 al 1939, non si incontrassero mai fuori dalle mura del vecchio edificio di Sisto V e anche entro a queste i loro colloqui fossero per lo più rapidi intermezzi nel ritmo uniforme del lavoro, pure si stabilì tra loro una viva simpatia e una salda amicizia, che il «bandito» del piano di sopra (lo si chiamerà d’ora innanzi l’orientalista per brevità) mantenne in cuore anche più tardi. [...]
Ma De Gasperi non ostentava le grandezze del passato nè lamentava le stranezze del presente. Rispettoso dei superiori senza finto ossequio, cordialmente affiatato coi colleghi senza pencolare nè verso il sussiego nè verso la familiarità, attendeva al suo ufficio colla scrupolosa e disciplinata puntualità cui doveva essersi assuefatto nelle scuole austriache. E di quella che era stata la sua vita e la sua azione politica non faceva mai parola.
Dopo la sua ascesa alla direzione del governo d’Italia, i suoi colleghi del catalogo andavano raccontando che le schede compilate da De Gasperi potevano servire di modello di come un catalogo non va fatto. Ma si trattava certo di uno scherzo bonario, senza ombra di malignità; giacchè se anche forse non tutti gli arcani della scienza bibliografica, imperscrutabili quasi quanto quelli della provvidenza, gli erano stati rivelati nel lungo tirocinio, non gli mancava certo nè l’intelligenza di comprenderli nè la buona volontà di applicarne le norme.
E quando, qualche anno più tardi, l’assunzione alla porpora del venerato prefetto della Vaticana portò De Gasperi al posto di segretario particolare del nuovo prefetto, egli attese alle inconsuete incombenze collo stesso zelo e la stessa semplicità di prima, non sdegnando di riempire e consegnare di sua mano le tessere d’ingresso ai frequentatori della biblioteca o di aprire ai visitatori la porta dell’ufficio del prefetto: signorilmente dignitoso, modesto senza affettazione come quando pazientemente copiava il frontespizio dei libri in arrivo. [...]
Lo stipendio che gli arrivava alla fine del mese non era lauto; eppure perfino quella modesta retribuzione gli era stata invidiata dalla rabbia degli avversari. Quando le relazioni tra la Santa Sede e Mussolini passarono un brutto quarto d’ora per via dei contrasti intorno all’Azione Cattolica e la stampa fascista si ritrovò all’improvviso un’anima anticlericale un giornale d’Italia rimbrottò duramente il Vaticano perchè accoglieva tra gli impiegati della sua biblioteca un miserabile relitto dell’antifascismo quale «il nominato De Gasperi». Al che l’Osservatore Romano, nel suo solito stile pacato, replicò soavemente che l’egregio confratello era in errore: consultasse pure l’organico della biblioteca, non vi avrebbe trovato il nome dell’onorevole De Gasperi. Il che era perfettamente esatto, poichè De Gasperi, in quanto avventizio, non figurava nei ruoli. E colui che era stato oggetto della polemichetta raccontava, ridendo, all’orientalista che un giornalucolo del suo Trentino aveva colto lietamente l’occasione per stampare un titolo su sei colonne: «De Gasperi l’inorganico».
Di politica non si parlava mai. Pareva quasi che nell’austero ambiente di studio l’uno e l’altro dei due amici avessero dimenticato di aver un tempo militato, l’uno da condottiero e l’altro da gregario, in una lotta che ambedue si dolevano di aver perduta, ma non si pentivano di aver combattuta. Ma che in De Gasperi non fosse spenta la passione politica l’orientalista lo riconobbe il giorno in cui quegli, con un sorriso di soddisfazione che gli illuminava il volto allampanato, venne a mostrargli un libro arrivato di fresco dalla Svizzera. Era l’autobiografia del socialista zurighese Fritz Brupbacher, che questi, ben sapendo che non sarebbe potuta penetrare in Italia, aveva avuto l’ingegnosa idea d’inviare in omaggio alla Vaticana perché almeno colà trovasse qualche lettore. Un’opera incendiaria fin dallo stesso titolo, che sonava «Sessant’anni di eresia», e altrettanto poco tenera per le Chiese costituite quanto per la società borghese e per le dittature di qua e di là dalle Alpi.
L’orientalista l’avrebbe volentieri letta subito, tanto più che aveva conosciuto di persona l’autore, ma De Gasperi gli disse che desiderava leggerla prima lui. E qualche giorno dopo gli riportò il libro, tutto quanto larderellato ai margini da vigorosi tratti di lapis nei punti di più attuale e più scottante contenuto politico. Guai se le gelose autorità della Vaticana si fossero accorte che le leggi rigorose intorno alla conservazione dei libri erano state sfacciatamente violate proprio da chi era chiamato a farle osservare! Chi sa che oggi, se qualcuno pensi a tirar fuori dagli scaffali quel volume impresso col segno dell’ardore segreto dell’uomo che più tardi ha tenuto in mano le sorti dell’Italia per così lungo e così fortunato periodo, esso non potrebbe trovar luogo tra i cimeli dell’insigne biblioteca...».
(Giorgio Levi Della Vida, Un cimelio da rintracciare negli scaffali della Vaticana, p. 3)

Sulla testimonianza si confronti: Paolo Vian, Un ebreo tra i monsignori: Giorgio Levi Della Vida in Biblioteca Vaticana (1931-1939), «Miscellanea Bibliothecae apostolicae Vaticanae», XXV (2019), pp. 525-590.

Levi Della Vida (1954b)

«Ma di un altro incontro quasi politico l’orientalista [Levi Della Vida] serba il ricordo commosso, nel quale alla cara memoria di De Gasperi si unisce quella, non meno cara, di Benedetto Croce. Se lo vide innanzi, nelle prime ore di una mattina del febbraio 1933, nella sala di studio [della Biblioteca Vaticana] ancora vuota: era venuto, per caso straordinario, a consultare un libro raro che non trovava altrove. Non era passata un’ora che dal piano del catalogo veniva su De Gasperi, seguito a breve intervallo, sbucata non si sa di dove, dalla fedele Maria Ortiz, che di recente era stata sbalestrata dalla direzione della Biblioteca nazionale di Napoli all’Universitaria di Roma soltanto, si diceva, per far dispetto a Croce.

Incontro con Croce
La conversazione a quattro si protrasse a lungo. Erano passati pochi giorni da quando Hitler era salito al potere, ed era ovvio che se ne parlasse con angosciosa preoccupazione. «E’ una bella fortuna per noi italiani» uscì a dire a un tratto Croce. De Gasperi e gli altri due lo guardarono trasecolati. «Ma sì – proseguì Croce, mentre ammiccava cogli occhietti lucidi e la faccia assumeva quell’aria sorniona che in lui preludeva immancabilmente a una facezia pungente –. Vi ricordate, quando eravamo più giovani, come ci seccavano colle continue esortazioni ad andare a scuola dai tedeschi per la scienza, per il metodo, per l’organizzazione... Ora, grazie al cielo, sono i tedeschi ad imparare da noi! E vedete quanto siamo fortunati; quando andavamo noi a imparare da loro, s’imparava dai migliori di loro; loro sono venuti a imparare dai peggiori dei nostri».
De Gasperi consentiva. Dovevano passare ancora molti anni pieni di tormento e di orrore prima che noi e i tedeschi ci si accordasse a riconoscere, e in gran parte anche per opera di lui, che tra gente di buona fede e di buona volontà si impara sempre reciprocamente.»
(Giorgio Levi Della Vida, Un cimelio da rintracciare negli scaffali della Vaticana, p. 3)

Nonostante Levi Della Vida indichi la data di febbraio, l'incontro con Croce, De Gasperi e la Ortiz avvenne in Vaticana il 28 aprile del 1933. A confermarlo è una nota dei Taccuini di Croce, dove leggiamo: «Sono stato alla Biblioteca Vaticana per confrontare alcuni manoscritti del Calenzio. Riveduti De Gasperi, Levi della Vida e la Ortiz» (v. 3, p. 371). Già dal 1932, Croce aveva in preparazione l'edizione di un carme del poeta Eloisio Calenzio, poi pubblicata a Napoli nel 1933 con il titolo Un’elegia giocosa di Elisio Calenzio: ristampa dalla unica edizione del MDIII. In Vaticana Croce collazionò il manoscritto (Vat. lat. 2833) sul quale era stata approntata l'edizione delle opere di Calenzio pubblicata a Roma nel 1533.
Per i particolari sul lavoro di edizione di Croce sul carme di Calenzio, si veda: Maria Panetta, Un’elegia giocosa di Elisio Calenzio: le “correzioncelle” dell’edizione Croce e la rinnovata fortuna del poeta, «Diacritica», a. I, fasc. 4 (25 agosto 2015), pp. 13-19. 

Levi Della Vida (1966a)

«A malincuore o no che si fosse trasferito nella dimora degli Orsini, don Leone [Caetani] vi poté allogare la sua grande biblioteca con maggior dignità e maggior comodità che non avesse sotto le travature del tetto in via delle Botteghe Oscure. Tuttavia i libri non rimasero a lungo nell’ampio salone che li aveva accolti: appena qualche anno dopo (non ricordo la data con precisione) attraversarono il Tevere ed entrarono a palazzo Corsini in via della Lungara, sede dell’Accademia dei Lincei, e colà rimasero.
Da tempo l’autore degli Annali dell’Islam vagheggiava l’idea di dare assetto stabile e di assicurare un avvenire vitale alla grandiosa impresa iniziata in gioventù, e alle soglie della vecchiaia, ancora lontana dalla conclusione: una fondazione autonoma dotata di mezzi finanziari sufficienti ad assicurarne il mantenimento e il funzionamento avrebbe continuato a percorrere, nei modi e nelle dimensioni adeguati alle capacità e ai gusti di coloro che fossero per esserli preposti, la via segnata dal fondatore, sia conducendone a termine i lavori incompiuti, sia (alternativa da prevedersi più frequentemente scelta) fornendo a questi sussidi di materiali e d’indagini colla pubblicazione di testi inediti e di monografie originali relativi a questo o a quell’aspetto della vasta e molteplice civiltà dell’Islam. Nucleo della Fondazione Caetani per gli Studi Islamici sarebbe stata la biblioteca, sua ospite e patrona l’illustre accademia iniziata da Federico Cesi che aveva coltivato lui stesso agli studi arabi al principio del secolo decimosettimo; sue disponibilità finanziarie quelle fornite dal fondatore in vita e, dopo, dal reddito di una cospicua dotazione che egli le avrebbe assegnata per testamento.
Se nel compiere così per tempo il primo passo per dare una vita almeno embrionale alla sua fondazione (l’atto di costituzione è del 6 gennaio 1924) Caetani nutrisse già il proposito segreto di staccarsi anche fisicamente dai suoi libri (fossero suoi in quanto posseduti o in quanto composti da lui), non sono in grado di affermare, benché più volte me ne sia venuto il sospetto. Certo è che durante alquanto tempo passò gran parte della giornata nei nuovi locali della biblioteca a palazzo Corsini, ancora assorto (in apparenza almeno) nel consueto lavoro scientifico; e finì addirittura col prender dimora stabile nelle vicinanze, in un villino a mezza costa dal Gianicolo, separato dalla moglie e dal figlio.»
(Giorgio Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, pp. 63-64)

Levi Della Vida (1966b)

«Quando mi accade (e mi accade piuttosto spesso) di pensare a colui che considero mio maestro [Leone Caetani], sotto il cui tetto e dietro il cui esempio si è maturato il mio ingegno, che ho amato e dal quale sono stato amato molto più che l’uno abbia mai detto all’altro, mi si stringe il cuore in un’amarezza sconfortata. Veramente, così come affermava nell’addio rivoltomi un anno e tre quarti prima di morire, la sua vita, nella quale per molti anni beni materiali, alte doti intellettuali, dirittura morale parevano unirsi armoniosamente per dargli felicità e gloria, è finita con un fallimento completo. [...]
La Fondazione Caetani per gli Studi Islamici [...], esiste sì, ma purtroppo sulla carta soltanto: dopo un primo anno di modesta attività, nel lontano 1927, l’aiuto finanziario che sarebbe dovuto giungerle dal fondatore durante l’intera sua vita venne meno; e non venne mai, lui morto, la dotazione promessa; la biblioteca è ancora presso a poco quella che era stata a mia disposizione mezzo secolo fa, giacché da quasi quarant’anni non si acquistano libri: e si sa bene che i fondi librari non aggiornati vanno gradualmente perdendo di valore. Nelle due sale (per vero alquanto scomode) che ospitano la Fondazione a palazzo Corsini un visitatore attento e curioso rintraccerebbe, oltre agli stampati e ai manoscritti orientali originali o riprodotti, migliaia e migliaia di schede e di appunti nella scrittura ordinata e regolare di Caetani, testimonianza di una lunga amorosa fatica della quale chi la sostenne non ha raccolto il frutto e che gli epigoni lasciano isterilire.»
(Giorgio Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, pp. 70-71)

Levi Della Vida (1966c)

«Posso dire che è stato quello l’ultimo contatto che ho avuto con Croce. I miei studi erano troppo remoti dai suoi per poter interessarlo; se avessi avuto residenza nella sua stessa città i rapporti personali sarebbero certamente continuati, ma dopo il 1917 ho sempre vissuto altrove che a Napoli, e nonostante la sua benevola accessibilità a grandi e piccoli non mi sentivo giustificato a rubargli tempo colla corrispondenza epistolare. Dei molti anni che seguirono al colloquio di giugno avrò di lui forse un paio di cartoline e il ricordo di un incontro casuale nel febbraio del 1933, nella Biblioteca Vaticana, cui fece seguito una conversazione a quattro, con Alcide De Gasperi allora addetto alla schedatura dei libri e la dotta ed energica bibliotecaria Maria Ortiz, direttrice della Nazionale di Napoli e poi dell’Universitaria di Roma, fedelissima di Croce: tutto questo incontro ho raccontato in un quotidiano in occasione della morte di De Gasperi. Ho fatto male forse a non farmi vivo con Croce dopo la liberazione, tanto più che mi consta che non ero del tutto caduto dalla sua ferrea memoria.»
(Giorgio Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, p. 202)

L’incontro di Levi Della Vida con Croce, De Gasperi e la Ortiz - avvenuto il 28 aprile del 1933 - è stata raccontato, con numerosi particolari, in un articolo apparso il 21 agosto 1954 sulle pagine del «Corriere della sera».

Levi-Montalcini (1987)

«Altre amicizie si stabilirono tra me e i compagni di studio negli anni universitari. Nacquero nelle stanze dell'Istituto anatomico dov'eravamo interni o nella grande biblioteca, vanto dell'Istituto e soprattutto del professore [Giuseppe Levi], che vi passava lunghe ore. Ne era consentito l'ingresso soltanto agli assistenti e agli interni, ma neppure a loro era resa comoda e facile la consultazione dei libri. I periodici, che attualmente affluiscono a valanghe nelle biblioteche scientifiche, allora erano non più di una decina. Quelli degli anni precedenti erano rilegati in volumi, e le opere di autori dalla metà del secolo scorso occupavano i giganteschi scaffali in legno massiccio che arrivavano sino al soffitto ed erano protetti dalla polvere da grandi sportelli a vetro.
Per consultare i libri, scritti la maggior parte in tedesco (la lingua più usata dai biologi fino agli anni Venti), era necessario arrampicarsi su una traballante scaletta a pioli. Non era permesso prendere in prestito i volumi; dovevamo quindi consultarli sui grandi tavoli disposti nel mezzo delle stanze e poi riporli immediatamente negli scaffali. Nelle fredde giornate invernali la temperatura della biblioteca era tenuta sui dodici gradi per limitare la durata delle consultazioni "dei fanatici della scienza", come Levi definiva gli studenti più zelanti e diligenti, e soprattutto per scoraggiare gli "sfaticati" o "impiastri", che riteneva non avessero alcuna attitudine e interesse scientifico e sfruttassero la biblioteca come stanza di ritrovo e di pettegolezzi. Guai a chi lasciava il soprabito o altri oggetti personali sui tavoli. Ricordo una terribile sfuriata di Levi che, entrando all'improvviso, s'imbatté in uno sciagurato che aveva usato uno dei tavoli a questo scopo. Con voce tonante il professore gli ricordò che la biblioteca non era una taverna. Cappello, cappotto e borsa, con il loro disgraziato possessore, presero precipitosamente la fuga dal luogo sacro che avevano profanato, seguiti da un'occhiata di disprezzo del maestro.
Mi venne in mente questo episodio quando entrai per la prima volta, molti anni dopo, nella library del Dipartimento di biologia della Washington University. Era piena di studenti in maniche di camicia. Molti, sdraiati sulle poltrone, per lo più con i piedi scalzi sui tavolini, leggevano le riviste masticando chewing-gum o, stanchi della lettura, erano immersi in profondi sonni con la testa appoggiata sui fascicoli o sui quaderni di appunti.
Nelle stanze del laboratorio e nella biblioteca avvennero gli incontri con [Salvatore] Luria, [Renato] Dulbecco, [Cornelio] Fazio e [Rodolfo] Amprino.»
(Rita Levi Montalcini, Elogio dell'imperfezione, p. 73-74).

«[Fernando J.] Si stupì quando Viktor [Hamburger] gli chiese se voleva venire con noi per il lunch nella vicina cafeteria del campus. Rifiutò. «Mi spiace,» disse «ma non faccio mai il lunch, preferisco passare quel tempo in biblioteca.» Viktor sorrise di quell'ardore giovanile: aveva ventinove anni e quindi tutto il tempo davanti a sé per studiare e nutrirsi come tutti gli altri mortali, ma Nando fu irremovibile. Lo accompagnammo alla biblioteca, oggetto per lui, com'era stata per me, di ammirazione, poiché entrambi venivamo da paesi nei quali dominavano gli austeri scaffali pieni di libri polverosi dell'Ottocento, mentre le pubblicazioni recenti erano pochissime. Si gettò sui periodici, per poi riprendere il colloquio al nostro ritorno dalla cafeteria.»
(ivi, p. 181. Il ricordo si riferisce al 1951, nella Washington University in St. Louis, dove Rita Levi-Montalcini lavorava dal 1947).

Longone (1949)

«Avevo 18 anni e molte cose per me sapevano di leggenda: L'Unità non l'avevo vista mai. Sapevo che molti compagni erano in carcere per averla letta o diffusa.
Era il 1935. [...]
Con i compagni leggevamo la sera «Il Capitale» nella vecchia edizione Avanti! che ero riuscito, con uno stratagemma a farmi dare in prestito dalla Biblioteca Nazionale [di Napoli]. Ma aspettavamo la stampa dal Centro»

(Riccardo Longone, Quando l'"Unità" era al ciclostile, «L'unità» (Roma), 26, n. 223 (18 set. 1949), p. 3).

Marx, Il capitale (1915) (Biblioteca nazionale di Napoli)

(Scheda del catalogo della Biblioteca nazionale di Napoli)

Loperfido (1996)

«Il prof. Rolando Cristofanelli, noto antifascista di tendenza anarchica, ordinario di Lettere al Tito Livio, frequentava come me, allora adolescente, la Biblioteca dell'Istituto Italiano di cultura fascista. Alla fine di settembre del '39, dopo la sconfitta polacca ad opera dei nazisti, fu udito gridare: "Vergogna!" contro il notissimo giornalista fascista Mario Appelius, quello di "Dio stramaledica gli Inglesi!" che, durante una sua conferenza in Istituto, irrideva sprezzantemente alle cariche della cavalleria polacca contro i carri armati tedeschi. Mi unii anch'io, insieme ad altri, a quel grido di indignazione. Per un momento Appelius rimase in silenzio, e poi proseguì, evidentemente intenzionato a non dare importanza alla nostra protesta.
L'Istituto era dotato di una buona biblioteca dove, con mia grande meraviglia, riuscii a trovare tutti i numeri di "Comunismo", rivista della Terza Internazionale, diretta da Giacinto Menotti Serrati.»

(Francesco Loperfido, Gli inizi della Resistenza a Padova: l'otto settembre, in: Padova nel 1943: dalla crisi del regime fascista alla Resistenza, a cura di Giuliano Lenci e Giorgio Segato, Padova, Il poligrafo, 1996, p. 165-173: 165. L'autore cita in modo leggermente inesatto l'Istituto nazionale di cultura fascista e il Cristofanelli a cui si riferisce non è Rolando, scrittore, ma Giulio, nato il 28 ottobre 1877 e professore di lettere, di ruolo, dal 1° ottobre 1908, che insegnava al Ginnasio del "Tito Livio" e fu autore di alcuni scritti di storia della cultura a Padova nel XVIII e XIX secolo).

Lumini (1910a)

«Istituzione veramente gloriosa pel suo passato è la Società di Lettura Luigi Muzzi, che fu la prima Biblioteca popolare d’Italia e di Francia, dove la prima fu istituita nel 1863, mentre questa fu fondata dal Bruni nel 1861. Ebbe inizii difficili, ma l’ardente fede giovanile di Antonio Bruni superò gli ostacoli e l’opera ebbe incoraggiamenti da Garibaldi, da Michele Amari, G.[iovanni] Arrivabene, R.[affaello] Lambruschini, Enrico Mayer ecc. Da allora, tra vicende or tristi or liete, l’istituzione ha sempre vissuto ed ora un buon numero di soci le assicura l’avvenire. Il maggior nucleo dei suoi libri è costituito da romanzi e novelle, le opere di cultura sono assai meno. Quanto a ciò che leggono i socii, dovrei ripetere quel che altri in vari articoli di questa serie hanno scritto di istituzioni consimili; gli operai leggono Montèpin, Ponson du Terrail, Gaboriau o Zola, gli studenti e le maestre leggono Zola, Maupassant, France, Verga, d’Annunzio e in genere gli autori più moderni. Un articolo dello Statuto della Società dice che scopo di essa è elevare il gusto e la cultura del popolo, ma quando chiesi perché dunque non levassero dal catalogo Montèpin e compagni, il bibliotecario mi rispose che se ciò si facesse gli operai non si assocerebbero più e l’istituzione morrebbe. Così anche questa manca in gran parte al suo scopo.»
(Carlo Alberto Lumini, Prato, p. 303)

Lumini (1910b)

«La Biblioteca Roncioniana, antica e ricca di classici latini greci e italiani nonché di documenti per la storia pratese e toscana, è un ente autonomo con rendite proprie e che solo perciò non muore. È frequentata da qualche studente del Liceo che va a copiarvi le traduzioni dei testi latini e greci che gli servono per la scuola e da qualche studioso spigolatore di documenti. Non credo che i lettori abbiano mai raggiunto, nonché superato, la media di cinque al giorno. Del resto l’orario di essa è fatto apposta per dissuadere dall’andarvi: apre dalle ore 11 alle 13 e non tutti i giorni.»
(Carlo Alberto Lumini, Prato, p. 303)

Lumini (1910c)

«La Lazzeriniana... è l’araba Fenice. Un tal Lazzerini morendo lasciò al Comune una sua copiosa raccolta di libri ed una certa somma affinché esso li facesse servire ad uso pubblico. Ebbene, da tanto tempo il Comune non ha mai potuto o saputo trovare il locale per questa biblioteca e nessuno si cura di spingerlo a farlo. Questo è già un eloquente indice dell’amore che i Pratesi hanno per la cultura, ed è anche un fatto che non torna ad onore del Comune, che contravviene alla volontà del testatore.»
(Carlo Alberto Lumini, Prato, p. 303)

Luzi (1960)

«Al liceo spesso marinavo la scuola per andare a leggermi in pace i miei filosofi, specialmente S. Agostino di cui il decimo libro delle Confessioni doveva poi diventare il mio breviario per tanti aspetti. Fu quello l’unico periodo nel quale frequentai le biblioteche. Lessi allora anche taluni scrittori moderni come Mann (Disordine e dolore precoce) e Proust. Soprattutto il Dedalus di Joyce mi colpì in pieno petto. Mi accorsi che i veri filosofi del nostro tempo erano alcuni grandi scrittori e la vocazione infantile per la poesia si confortò»

(Mario Luzi, testimonianza per Ritratti su misura, p. 252)

Luzi (1993)

«"La biblioteca è una grande oppressione: è il sapere umano raggrumato nella materia che lo può contenere". Mario Luzi [...] inizia così la conversazione sulla sua biblioteca.
[...]
[Domanda] E la biblioteca? Quale apporto le ha dato la biblioteca? Ha fatto da cassa di risonanza ai suoi sogni, ai suoi studi, oppure è stata solo uno strumento?
No, non è stato un puro e semplice strumento. Da ragazzo ho amato particolarmente la Biblioteca Marucelliana di Firenze, che consideravo un sussidio familiare. Ci andavo spesso, e mi capita ancora di ricordare quei lunghi pomeriggi di silenzio. Fra le biblioteche fiorentine ricordo la Biblioteca nazionale nella sua antica sede sotto agli Uffizi. Quei locali ispiravano un senso di monumentale sacralità. Lo stesso opprimente e scientifico rigore me l'ha trasmesso la Bibliothèque Nationale di Parigi, autentico specchio di rigore cartesiano. In anni recenti, mi sono trovato bene nelle biblioteche americane, solenni ma confidenziali. 

[Domanda] La biblioteca non le suggerisce un verso?
Una melanconica meraviglia.»

(Mario Luzi, intervista del 1993)

Macchia (1982)

«Fin verso il 1949 i miei rapporti con Montale furono rari e alquanto silenziosi. S'era fatto fin troppo chiasso intorno a lui ed io m'isolavo in una posizione riguardosa e con scarsi interventi [...]. «Quando frequentavo la Biblioteca Berio a Genova» mi ripetè anche di recente «leggevo soprattutto francesi».»

(Giovanni Macchia, Montale e la donna salvatrice. Questo articolo e quello successivo del 7 febbraio vennero ripresi nel saggio La Bufera o il romanzo di Clizia, pubblicato in Saggi italiani, Milano, Mondadori, 1983, p. 302-316, e poi in Il teatro delle passioni, Milano, Adelphi, 1993, p. 514-527).

Mafai (1996)

«Un dedalo di strade si dirama da qui portando verso belle chiese che nessuno visita più e verso il Ghetto: uno spicchio di Roma dove, tra palazzi pericolanti stretti dentro impalcature arrugginite, i bambini corrono gridando e vecchie donne, dietro i bianchi delle mercerie, mettono in ordine nastri, fettucce, passamanerie e bottoni. A un angolo, sulla destra, c'è il bel Palazzo Caetani, di fronte al quale sostano, nel tiepido sole invernale di Roma, ragazzi e ragazze che frequentano la scuola americana o la biblioteca di Storia moderna

(Miriam Mafai, Botteghe Oscure, addio: com'eravamo comunisti, p. 5).