LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Corriere d'informazione (1945a)

«I detenuti politici nelle carceri di San Vittore ammontano con i più recenti arrivi a 3714. [...]
Anche due ex-prefetti di Milano, Uccelli e Parini, si trovano a San Vittore. Il primo è serio, compassato, silenzioso pur nell'imminenza del processo a suo carico nonostante i capi di imputazione siano tutt'altro che lievi: fra l'altro ricatti e sevizie contro diversi ebrei. Piero Parini invece trascorre il suo tempo leggendo quello che la biblioteca gli consente.»

(Quasi quattromila "politici" nel carcere di San Vittore, «Corriere d'informazione», 1, n. 6 (28 mag. 1945), p. 2).

Corriere d'informazione (1945b)

«Dopo il periodo di eccezionale animazione segnato dalla crisi [di governo, con le dimissioni del governo Bonomi il 12 giugno e l'insediamento del governo Parri il 21 giugno], il palazzo di Montecitorio è tornato alla sua solita vita e ai soliti ridottissimi frequentatori, cioè agli ex-deputati delle Legislature precedenti alla dittatura. Nonostante il caldo tropicale, la biblioteca, che è all'ultimo piano del palazzo, è molto frequentata e uno dei più assidui è l'on. Bonomi. Recentemente sono stati inaugurati a Montecitorio i busti di Amendola, Matteotti e Gramsci. A essi si aggiungeranno prossimamente quelli di Giolitti, Salandra, Bissolati e Turati, quattro uomini politici che rappresentano, ciascuno nel proprio campo, la migliore tradizione politica italiana e che sono fra le maggiori figure del nostro Parlamento.»

(L'ambasciatore inglese a Roma a colloquio con il Capo del Governo, «Corriere d'informazione», 1, n. 35 (30 giu. 1945), p. 1).

Costa (2009)

«A questo punto qualcuno dei lettori di cui sopra, giustamente stremato, potrebbe commentare: «E allora, di grazia, perché ci stai sfinendo proprio dalle pagine di un libro?». Bella domanda. Risposta scontata: perché me l’hanno chiesto, e sono stati convincenti (sai che sforzo, con la sindrome che mi ritrovo). [...] O forse perché ho avuto la fortuna di leggere (prima di lasciarle nella biblioteca di un carcere, come vi racconterò più avanti) quelle due pagine di Ignacio Paco Taibo II che cominciano così:
«Scriviamo con la sensazione scostante che nulla di quanto stiamo imprimendo sulla carta avrà mai il potere di cambiare la storia, nemmeno quella di un destino individuale, eppure, allo stesso tempo, con la netta impressione che nell’intricata giungla cittadina di antenne televisive qualcuno ci stia ascoltando e tutto quanto un giorno potrà cambiare. [...]».
(Lella Costa, La sindrome di Gertrude: quasi un'autobiografia, p. 26-27).

«Qualche anno fa sono stata invitata all’inaugurazione della biblioteca del carcere di Bollate, la cui direttrice, Lucia Castellano, è un fiume in piena di generosità, intelligenza, energia; insieme all’amato Gigi Pagano e a Giacinto Siciliano, direttore di Opera, per me è una figura leggendaria: puro mito. Avevo scelto di leggere Scriviamo, le due pagine memorabili di Paco Ignacio Taibo II, tratte da Te li do io i Tropici (Tropea), cfr. pp. 27 e segg., e il racconto di Erri de Luca che ho amato di più, In alto a sinistra (Feltrinelli), in cui l’autore racconta gli ultimi mesi di vita del padre, l’umiliazione della malattia, le lunghe conversazioni notturne, le discussioni interminabili sui libri («ama anche i libri del tuo tempo»). In alto a sinistra è il punto in cui comincia ogni nuova pagina: emozione, attesa, scoperta, alba. Struggente. Finito di leggere, e di commuovermi, mi è sembrato giusto lasciare proprio quei due libri alla neonata biblioteca; li ho appoggiati su un tavolo, mi sono allontanata a salutare altri ospiti, poi mi sono voltata, ed eccola lì, la scena da film: un detenuto e una guardia, di spalle – tutti e due alti, tutti e due giovani – stavano sfogliando i miei libri, le teste vicine, concentrati. Un colpo basso. Roba che quando te la propinano in qualche fiction televisiva, una scena così, ti viene da dire: insomma basta con tutta ’sta retorica, ’sto buonismo, mica succede nella vita vera. E invece, come dice Sylvia Plath (poi la smetto con le poesie, giuro): «Avvengono miracoli». Basta essere disposti a vederli, e soprattutto a riconoscerli.»
(ivi, p. 60).

Cozzani (1909)

«Gli strumenti più usuali della cultura [a La Spezia], vi sono rari e non adatti nè a studi profondi, nè a gran numero di studiosi; ma se anche fossero più ricchi e ordinati non gioverebbero a nulla, io credo. Ne siano prova l’Università Popolare, che decadde con rapidità meravigliosa, forse anche perché il ceto operaio se ne disinteressò affatto, come di istituzione che di popolare non aveva che il nome; la Civica Biblioteca, che – per quanto non indicata come aiuto a studii molto elevati e molto ampi, e per quanto assai manchevole ancora di opere essenziali – pur tuttavia non è frequentata come meriterebbero almeno i suoi circa 30.000 volumi, la sua relativamente ricca raccolta di riviste, e la facoltà che non le manca di servirsi del prestito di biblioteche meglio fornite»

(Ettore Cozzani, La Spezia, «La voce», 1, n. 44 (14 ott. 1909), p. 185-186: 186).

Craveri (2006)

«Professor Craveri, come giudica il trasferimento della Biblioteca del Senato da Palazzo Madama a Palazzo della Minerva e la contestuale apertura al pubblico?
Il trasferimento della Biblioteca è stato per gli studiosi e per tutti coloro che hanno necessità di usufruire dell'informazione bibliografica un avvenimento estremamente rilevante, anche per la cura con cui è stata allestita la nuova sede. Mi riferisco in particolare alle sale di consultazione, generalmente carenti nelle altre biblioteche italiane, spesso dotate di grandi patrimoni bibliografici, ma con poco materiale in consultazione diretta, cosa che non facilita velocità nel lavoro e possibilità di moltiplicare le idee sulle fonti.

Quali sono il significato e il ruolo di una biblioteca parlamentare?
Ci sono vari strati nell'informazione: c'è il flusso quotidiano degli avvenimenti che ha i suoi strumenti di diffusione; ma questi stessi avvenimenti richiamano un passato che non sempre è un passato vicino. Pensiamo alle polemiche della politica, oppure alla materia internazionale; moltissime delle nostre relazioni sono basate su accordi o avvenimenti che risalgono molto indietro nel tempo. Pensiamo anche alla struttura del nostro ordinamento giuridico, che fa riferimento a un corpus normativo che si è sviluppato nel corso dei secoli. Quindi è essenziale per una democrazia parlamentare come la nostra avere gli strumenti conoscitivi per tornare indietro.

E qual è nello specifico il ruolo della Biblioteca del Senato?
È facile immaginare cosa si può trovare in questa Biblioteca: diritto, economia, storia e naturalmente le fonti parlamentari (...). La Biblioteca del Senato, però, non solo è testimone della continuità dello Stato italiano, della sua amministrazione, della sua vita civile e politica, ma ha anche ricostruito un filo di continuità col passato preunitario.

Qual è il suo rapporto con la Biblioteca del Senato come utente?
In quanto ex parlamentare la frequento da molti anni, quando era ancora a Palazzo Madama. È una Biblioteca più raccolta di altre, (...) con un'assistenza non dico migliore, ma certo più presente da parte del personale. (...) Infatti, le biblioteche italiane, per quanto abbiano fatto notevoli passi avanti nel cercare di migliorare questi servizi, forniscono un'assistenza ai lettori mediamente più carente che altrove.

In conclusione come definirebbe questa Biblioteca?
Io la definirei così: questa è una Biblioteca che ha come oggetto la legislazione, l'amministrazione e i principali eventi politici dello Stato italiano. Potrei definirla la Biblioteca della continuità dello Stato.»

(La biblioteca della continuità dello Stato. Intervista a Pietro Craveri; tratta dal DVD I libri di Minerva, l'intervista è disponibile anche in video all'indirizzo <https://it.wikipedia.org/wiki/Piero_Craveri>)

Croce (1887)

«Il Professor Labriola m’ha scritto ieri da Roma per pregarmi di trovargli donde è stata tratta l’effigie di Giordano Bruno, che si riproduce comunemente. Per meglio dire, donde l’ha tratta il Wagner. Non so se sapete che a Roma fanno un monumento a Giordano Bruno. È stato già modellato, io ne vidi mesi fa il bozzetto, e lo scultore è Ettore Ferrari, il neodeputato radicale. Il Professor Labriola mi nominava, delle persone a cui potrei domandarne, voi e il Professor Tallarigo. Vi sarei perciò molto grato se con un biglietto mi diceste ciò che ne sapete. E vi sarei gratissimo, se al vostro biglietto mi uniste uno di presentazione per me al Professor Tallarigo, perché, nel caso che io non trovi la notizia in altro modo, possa andare anche da lui e tentare di contentare, anche per questa via, il Labriola. Ora vado alla Biblioteca [Nazionale di Napoli], e veggo se, riscontrando l’edizione Wagner e qualche biografia, giungo ad assodar nulla, che ho un gran sospetto che la comune effige sia una effigie ideale o fantastica!»

(Benedetto Croce, lettera a Donato Jaja, Napoli 27 gennaio 1887, p. 73-74).

Croce (1896)

«Più volte, gentile signora, in questi ultimi anni, ci siamo ritrovati nelle sale dei manoscritti e dei libri rari della nostra Biblioteca Nazionale [di Napoli], dove la sua apparizione metteva una nota affatto insolita. E La ho veduta frugare, con paziente desiderio, ogni stampa, ogni manoscritto, nei quali poteva sperare d’incontrare il nome d’Isabella Villamarino, principessa di Salerno.
E io ben intendevo e risentivo il sentimento che La portava alle sue ricerche. Era la nostalgia del passato: quella nostalgia che si fa viva tra i rumori della vita quotidiana, spesso prosaica, fastidiosa e pettegola. Nel passato, le cose appaiono purificate e idealizzate. [...]
Ora il frutto delle Sue ricerche è raccolto in questo libriccino: pel quale formo augurî di buona fortuna, sicuro che procurerà un’ora di diletto a chi lo leggerà, come parecchie ha dovuto procurarne a Lei, che l’ha scritto.»

(Benedetto Croce, Prefazione, in Laura Cosentini, Una dama napoletana del XVI secolo: Isabella Villamarina principessa di Salerno; lo scritto è stato poi ripubblicato nel 1919, e poi in seconda edizione nel 1921, in: Curiosità storiche, Napoli, Ricciardi)

Croce (1899)

«La quale biblioteca [Nazionale di Napoli], sia detto tra parentesi, mentre è oggetto di tante spese di lusso, o fondo inesauribile pel pagamento di tanti sussidi o per tante opere di pseudo beneficenza, come biblioteca è pessimamente ordinata e amministrata. Io ne sono frequentatore assiduo, e, quale amico degli impiegati, riesco ad avere ogni sorta di agevolazioni, e non posso individualmente lamentarmi. Ma mancherei ad un dovere se non dicessi, che i cataloghi non sono in regola, che una grande parte di libri non è catalogata, che i cataloghi speciali non sono fusi tutti nel generale, che molti libri non si trovano al loro posto; che il peso della biblioteca è quasi esclusivamente sostenuto dagli impiegati inferiori (i quali poi non sono punto sorvegliati), mentre degli impiegati superiori, parecchi non vengono addirittura all’ufficio, o vi fanno brevi apparizioni: altri passeggiano per la biblioteca, chiacchierano, ed essendo meridionali, gridano; ma non fanno altro. Da circa un anno, il tetto del gran salone – il quale salone contiene da solo circa centomila volumi, e, di certo, la parte più antica ed importante della biblioteca – si dice minacciante rovina; e perciò, i libri che sono in esso collocati non si danno in lettura, il che vuol dire che per molta parte la biblioteca non funziona. Anche in questa faccenda io, per mio conto, sono riuscito a fare il mio comodo, ossia a leggere i libri; giacchè ho trovato un impiegato fatalista, che non crede che il tetto sia destinare a cadere proprio sul suo capo, e, per farmi piacere va a prendere nel gran salone i libri che mi occorrono. Ma il resto del pubblico non gode di questi favori.
Ora, o il pericolo è reale, ed è vergognoso non provvedervi, da mesi e mesi; o è fantastico, e non dovrebbe tollerarsi che, con l’invenzione di un pericolo inesistente, si impedisca al pubblico di leggere, e si dispensino gli impiegati dal loro dovere.»

(Benedetto Croce, Per una biblioteca di cui esistono gli impiegati ma è dubbio se esistano i libri, «Avanti!», 26 agosto 1899, p. 2; l’articolo apparve in seguito alle polemiche nate intorno alla gestione della raccolta teatrale e musicale del conte Edoardo Lucchesi Palli, donata nel 1888 alla Nazionale di Napoli; il trasporto della biblioteca presso la Nazionale si concretizzò soltanto nel 1903, affidata alle cure di Salvatore Di Giacomo, e fu aperta al pubblico nei primi mesi del 1905)

Croce (1907)

«Le edizioni originali dei dialoghi di Bruno sono di tale estrema rarità che il prezzo chiesto dal [Tammaro] De Marinis, non mi pare punto esagerato. Voi sapete che l'anno passato per la edizione delle opere bruniane che si sta facendo nella mia collezione dei Classici della filosofia fummo costretti a far venire le edizioni originali dalla Biblioteca di Gottinga, dove se ne conservano solo alcune. Per mia parte non esiterei ad acquistare i 4 dialoghi al prezzo chiesto di lire 1700: non credo che si darà mai di nuovo l'occasione di un simile acquisto, ed è di grande interesse per una Biblioteca come la Nazionale di Napoli venire in possesso delle edizioni originali delle opere di uno dei nostri maggiori filosofi. Del resto, se la Biblioteca di Napoli non acquista quei volumi son sicuro che il De Marinis troverà presto a collocarli pel prezzo indicato, e forse anche per un prezzo superiore. Fin da quando, ragazzo, leggevo il Tiraboschi ricordo la frase di un erudito del Settecento, che dichiarava i dialoghi del Bruno più rari dei corvi bianchi

(Benedetto Croce, lettera a Emidio Martini, 15 maggio 1907, in: Croce e la sua Biblioteca nazionale, p. 141-142).

Croce (1915)

Soltanto nel dicembre 1875 l'idea di una Società di storia napoletana, che aveva avuto un cominciamento di esecuzione nel 1844 per opera del Troya ed era stata riproposta nel 1861 in Consiglio provinciale da P. E. Imbriani, potè attuarsi. Lo statuto di fondazione porta le firme di Scipione Volpicella, del Capasso, del De Blasiis, del Minieri Riccio, del Carignani (autore di un libretto su Carlo di Borbone), di Vincenzo Volpicelli e di Luigi Riccio (gli ultimi due, cassiere e amministratore benemeriti). I soci furono molti, così dell'aristocrazia come della borghesia; non studiosi di professione, ma amanti degli studi o, semplicemente, amanti del decoro della propria città. La società ebbe, negli anni seguenti, una sede propria e formò una biblioteca (anche per acquisti o doni di collezioni private preesistenti), ricchissima di libri, manoscritti e pergamene, alla quale furono poi unite nel 1894 la Biblioteca comunale e quella relativa ai vulcani e ai tremuoti (storica anch'essa, in un paese che ha ospite il Vesuvio), già del Club alpino.

(Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. 4, p. 302)

Croce (1918)

«Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio. Non ebbi amici, non partecipai a svaghi di sorta; non vidi nemmeno una sola volta Roma di sera. Mi recavo all'università per il corso di giurisprudenza, ma senza interessamento, senza essere nemmeno scolaro diligente, senza presentarmi agli esami. Più volentieri mi chiudevo nelle biblioteche, particolarmente nella Casanatense, allora servita ancora da monaci domenicani e coi banchi provvisti di calamai dal grosso stoppaccio, di polverini dalla sabbia dorata e di penne d'oca; e vi facevo ricerche in vecchi libri su temi scelti da me e con metodo e preparazione che andavo formando da me, tra incertezze e sbagli e difetti ed eccessi. Mi sottomisi anche a molteplici studi di cultura, ma iniziando e tralasciando e ripigliando, disordinatamente, non tanto per impeto di forza che mi sbalestrasse or di qua e or di là, quanto perché non conoscevo l'arte dello studiare e non avevo né la docilità dello scolaro né la sicura e vigorosa passione dell'autodidatta.»

(Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, p. 18-20).

Croce (1927)

«Caro dr. Alfieri,
Posseggo questo libro, che è raro: Il Correggio - tragedia - tradotta dal danese - di: Oehlenschlaeger - Pisa, co’ caratteri di Firmino Didot – MDCCXII [ma 1812]. È preceduta da un avviso del traduttore e da un’epistola in versi dello stesso. Ma dal libro non si rileva chi costui fosse. Ho domandato a parecchi invano e ho fatto finora vane ricerche. Avevo sospettato che avesse mano in questa edizione il Rosini; ma non mi risulta. Forse costà [a Pisa] la ricerca è più agevole. Veda un po’, a tempo perso, se può cavarne il costrutto. [...]
L’esemplare da me posseduto apparteneva a Vincenzo Monti.»
(Benedetto Croce, lettera a Vittorio Enzo Alfieri, [Napoli, 28 gennaio 1927], p. 18)

«Gentilissimo Dr. Alfieri,
Mi si comunica che il traduttore di quella tragedia Correggio fosse un Olinto dal Borgo. Veda un po’ di pescarmi notizie di questo personaggio di ben nota famiglia pisana. La tragedia è stampata nel 1812, e il traduttore era in rapporto con alcuni signori Schimmelmann e Schubart, forse forestieri che soggiornavano allora in Pisa. Scrisse Olinto dal Borgo altre cose? Quando nacque e quando morì? Quale il nome di sua moglie? Ne domandi un po’ al [Attilio] Momigliano, lo preghi da parte mia di cooperare alla ricerca.»
(Benedetto Croce, lettera a Vittorio Enzo Alfieri, [Napoli, 29 gennaio 1927], p. 19)

I risultati delle ricerche su Olinto dal Borgo confluirono nel 1928 in un articolo pubblicato sulle pagine de «La critica» (Il «Correggio» di Oehlenschlaeger e Olinto dal Borgo, XXVI (1928), pp. 216-220). Qui Croce ringrazia Alfieri (non nominandolo, ma definendolo «giovane amico») per le ricerche condotte presso la Biblioteca universitaria di Pisa, con queste parole «Una notizia del catalogo della Universitaria di Pisa mi ha appreso che il traduttore fu un «Olinto dal Borgo», e un’altra notizia, attinta da un mio giovane amico, ha aggiunto che di cotesto Dal Borgo i presenti rappresentanti della famiglia hanno solo vaghi ricordi, e che tra l’altro egli fosse ai servigi del governo danese» (p. 216).

Croce (1934)

«Il [August von] Kotzebue, visitando nel 1804 il palazzo reale di Caserta, fermò l’attenzione sulle tre stanze che contenevano la biblioteca della regina Maria Carolina d'Austria. Avevano esse eleganti armadii di mogano; nella seconda era una tavola rotonda, adorna di bronzi dorati, con caselle pei libri e un piano girevole che rendeva possibile alla regina di passare dall'una all’altra sorta di letture senza levarsi dalla sedia, e altri ingegnosi mobili per leggio: sulle pareti si vedevano i disegni originali degli edifizi di Caserta. La terza sala era stata affrescata nel 1782 dal tedesco Füger con quattro quadri: il Parnaso con le Grazie, l'Industria e la Ricchezza, la Scuola d'Atene, la Protezione delle Arti belle e il discacciamento dell'Ignoranza.
Ma il Kotzebue guardò sopratutto al contenuto degli armadii, alla qualità dei libri; e notò che nella prima sala c'era una moltitudine di opere storiche e filosofiche, le più in lingua francese, in nitide legature; nella terza, una scelta di volumi che la regina aveva portati con sè in viaggio, cioè nella fuga in Sicilia, nell'andata a Vienna, nel ritorno di là a Napoli, e che (diceva egli scherzando), se i libri come il vino e la birra diventano migliori coi viaggi di mare, dovevano essere annoverati tra gli ottimi. La seconda sala, invece, era dedicata tutt'intera alla letteratura tedesca, ma...
E qui il letterato tedesco Kotzebue fu preso da un moto di orrore: «ma il Ciel ci guardi! quale biblioteca di scarto! Neppure un solo cattivo romanzo è comparso da vent'anni a questa parte che qui non si trovi. La regina è di ciò affatto innocente: ella, come poi mi disse lei stessa, di solito ha appena il tempo di leggere i titoli dei libri; ma il libraio che aveva ricevuto la commissione d'inviarle libri tedeschi, dovrebbe vergognarsi della sua scelta e dei suoi guadagni, e il bibliotecario doveva subito scartare quella robaccia, e non metterla in mostra a occhi stranieri. Che cosa, per esempio, penserà mai un forestiero quando tra i libri di una regina vede uno di questo argomento: Eheliche Umarmungen und Plaisantereien mit Maitressen? Di simili cosette graziose potrei nominare una dozzina».
Certo non pare che la regina Carolina, quantunque tedesca, leggesse quei libri tedeschi. Leggeva bensì, e questa occupazione si trova segnata di frequente nel suo diario, in riga con le altre e più comuni faccende, delle quali coscienziosamente teneva nota giornaliera. [...]
Ma lasciamo le letture di Maria Carolina, tuttochè queste notizie e giudizii non manchino di fornire qualche istruzione; e, ritornando alla sua non letta o poco letta biblioteca tedesca, che tanto scandalizzò il Kotzebue, diciamo che noi, oggi, non possiamo non provare gratitudine per il libraio tedesco fornitore, che egli così severamente biasimava, perché colui, col suo indiscernimento o con la sua avidità commerciale che lo spingeva a inviare alla propria cliente quanti più libri potesse, ha donato a Napoli una raccolta forse unica nel suo genere e che non si trova neppure nelle più ricche biblioteche di Germania. Rimossa come inutile ingombro dalla reggia di Caserta, spezzata e spartita senza alcuna ragione e alcun criterio tra la biblioteca Universitaria e quella Nazionale di Napoli, è ora riunita tutta in quest'ultima in una sala speciale, e il lavoro di catalogazione ne è a buon punto. Se non ho errato nel mio calcolo sommario, comprende circa quattromila opere, quasi tutte stampate dal 1780, e anzi nella maggior parte dal 1790 al 1803, in ottomila o più volumi. [...]
Ho io passato in rassegna tutto ciò che offre la biblioteca tedesca di Maria Carolina? No, di certo. Ci vorrebbe a questo fine un catalogo, e un catalogo ragionato. Ma credo di avere orientato gli studiosi circa il materiale che contiene, e certo ho orientato me stesso, che più volte ho fatto ricorso a quella raccolta per miei lavori, e ancora dovrò ricorrervi.»
(Benedetto Croce, La biblioteca tedesca di Maria Carolina d’Austria regina di Napoli, p. 71-73, 317)

Croce (1936)

«Ma, così com’è, [I teatri di Napoli, 1891] mi ricorda un tratto della mia vita, dall’autunno del 1888 alla primavera del 1889, quando essendo andato a dimorare in campagna, sul Vomero, ogni mattina alle 8, fatta una rapida colazione, me ne scendevo a piedi in città, recandomi all’antico monastero di San Severino, cioè all’Archivio di Stato, dove lavoravo dalle 9 alle 4 del pomeriggio, in una stanza accanto a quella del soprintendente, il vecchio don Bartolommeo Capasso, a frugare per incarico della Società storica napoletana le carte dell’amministrazione borbonica dei Teatri. Di là passavo di frequente alla poco discosta Biblioteca Brancacciana, che aveva orario serale, e vi restavo parecchie altre ore a leggere commedie e altri drammi. Talvolta, facendo ora tarda, mi recavo a pranzare (allora resistevo senza difficoltà a un digiuno di dodici ore) in una modesta trattoria; e poi noleggiavo un asinello (non c’era ancora la funicolare del Vomero) e trottavo per la salita a casa. Quale vita!».

(Benedetto Croce, Le ricerche per la storia dei teatri di Napoli, in Nuove pagine sparse, vol. 1, pp. 439-440; il brano è tratto da una lettera del 16 dicembre 1936 indirizzata ad Alfonso Casati, figlio di Alessandro morto in battaglia nel 1944, che dopo aver acquistato un esemplare della prima edizione dei Teatri di Napoli del 1891 chiese al filosofo di allegargli una dedica).

Croce (1942)

«Caro Alfieri,
Molti auguri pel nuovo anno a vostra moglie e a voi.
Fatemi un favore. Guardate un po’ se alla Braidense o in altra biblioteca governativa di Milano si trovi un volume od opuscolo di Sonetti di Andrea Baiardo di Parma, pubbl. da un Fr. Fogliazzi a Milano nel 1756. E fatemelo sapere. Curerò poi io di chiederne il prestito.»

(Benedetto Croce, lettera a Vittorio Enzo Alfieri, [Napoli], 8 gennaio 1942], p. 89)