LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
Per testimonianze relative a singole biblioteche vedi l'Indice delle biblioteche, per quelle di/su singole persone vedi l'Indice delle persone, per quelle relative alle biblioteche di una singola località vedi l'Indice delle città.
Per fare ricerche sulle parole delle testimonianze usare la casella Cerca nella barra in alto a destra.

Risultati della ricerca

D'Ancona (1873)

«Ma eccolo [il professore di ginnasio di prima nomina] finalmente arrivato al luogo ov'è destinato. Là trova costumi differenti dai consueti, e ai quali pur bisogna adattarsi: la vita è semplice, ma nondimeno costosa, perchè mancano generalmente tutti i comodi di trattorie, camere ammobiliate, dozzine, ecc., proprj dei paesi dove è nato e cresciuto; mancano libraj, mancano Biblioteche, o ve n'ha forse soltanto qualcuna composta di avanzi dei soppressi conventi, e inutile affatto alle necessita dell'odierna cultura. Intanto il borsello è vuoto, e sarebbe impossibile provvedersi da per sè di tutti i mezzi necessarj a ben insegnare. e a progredire, insieme, negli studj. [...]
Dovrebbesi cominciare col far nascere artificialmente quello che si chiama ambiente scientifico, nei luoghi ove manca del tutto, largheggiando nel somministrare i mezzi necessarj allo studio. Incaricato di ispezioni governative nei Licei, ho sempre trovato nelle istruzioni ministeriali la dimanda dello stato in che fossero le Biblioteche scolastiche. In verità, dopo un paio di volte, mi veniva quasi da ridere, ma solo per non piangere, quando mi sentivo costretto di rivolger cotesta dimanda ai Presidi: e notisi che parlo di Licei di prima e seconda classe. Il titolo di Biblioteca, appropriato ad un accozzo fortuito di pochi libri, è veramente uno scherno: nè il Ministero dovrebbe ignorare che cosa sieno coteste Biblioteche liceali. Meno male che trattavasi di istituti posti in città abbastanza grandi e civili, e i professori e gli alunni volenterosi potevano nelle Biblioteche governative o municipali trovar modo di istruirsi, e qualche volta anche tenersi a giorno dei progressi scientifici. Ma che dire dei luoghi ove dal secolo XVI e dall'infausta dominazione spagnola in poi, è cessata ogni cultura ed operosità, e che appena adesso cominciano a sentire i benefici effetti della vita nazionale, materialmente ricongiungendosi coi maggiori centri per mezzo di strade, e intellettualmente coi commerci scientifici e colle scuole? Ivi le Biblioteche o mancano affatto, o sono antiquate ed insufficienti. È necessario adunque che il Governo consacri qualche poco di danaro, invitando a contribuirvi anche i Comuni e le Provincie, per far sorgere in codesti luoghi Biblioteche ginnasiali e liceali, che debbano servire non tanto a quella che chiamasi cultura popolare, alla più seria cultura scientifica e didattica. Così almeno agli insegnanti, e specialmente ai più giovani, lo svantaggio di trovarsi in regioni assai lontane dal moto civile odierno, e fra mezzo a costumanze in gran parte dissimili da quelle più generalmente diffuse, sarà compensato dall'aver modo almeno di pascer l'intelletto e continuare nello studio, anzichè annighittirsi nell'ozio e nel tedio.»

(Alessandro D'Ancona, Placido Cerri, in Ricordi ed affetti, p. 105-153: 113, 119-121. Pubblicato originariamente nel 1873, col titolo Le tribolazioni di un insegnante di ginnasio, su «La nazione», come lettera aperta a Celestino Bianchi).

D'Ancona (1882)

«Avevo diciott'anni, e mi ero messo a leggere l'Introduzione allo studio della filosofia del Gioberti, che pareva mi aprisse dinanzi agli occhi della mente un mondo nuovo di idee e di fatti. [...]
Bazzicavo intanto in Magliabechiana, ove un giorno il Papi mi fece vedere un codice. Chi rammenta il Papi? Era un brav'uomo: e quel ch'è più, un bravo e zelante impiegato, come allora, – in quei tempi d'ignoranza, si dice – ce n'era fra gli addetti inferiori delle biblioteche assai più forse che in questi di universale dottrina e di concorsi. Non so veramente come dall'esser guardia palatina fosse passato in Magliabechiana, ma certo è che sapeva quello che c'era in biblioteca, specie in fatto di manoscritti, come il suo collega Ricci era un indice vivente rispetto a notizie biografiche. Il Papi mi aveva preso a benvolere, e direi quasi a proteggere, ed io ne ero contento; e ricordo ancora la scrollata di capo che fece un giorno quando un certo abate, uno dei pezzi grossi della biblioteca, mi negò la Calandra del Bibbiena, perchè credeva ch'io volessi, Dio ci guardi, la Bibbia! Ma il Papi, quando non c'era il tenebroso abate, o un suo accolito dal viso di cartapecora, con un naso adunco e due occhietti maligni da topo, il Papi aiutava i miei studj e le mie ricerche. Un giorno dunque dovendo riporre un codice, mi disse con quel suo vocione baritonale e quel suo fare fiorentinesco: Oh, la guardi questo! – e mi pose fra le mani un grosso manoscritto di scritture politiche del Campanella. Io che avevo cominciato ad apprezzare i nostri vecchi filosofi dalla lettura del Rinnovamento del Mamiani, lo aprii qua e là, lo voltai e rivoltai, e allettato dai titoli di quegli scritti, lo pregai di lasciarmelo perchè potessi studiarlo. Mi piaceva soprattutto il vedere che quegli scritti del Campanella non fossero di mera speculazione, ma di politica teorica insieme e pratica, e trattassero del modo di rilevare le sorti d'Italia nel secolo XVII.»

(Alessandro D'Ancona, Il mio primo delitto di stampa, in: Il primo passo, p. 3-13: 4-6. Il contributo era comparso già nella prima edizione, 1882, e fu poi raccolto da D'Ancona in Ricordi ed affetti, Milano, Fratelli Treves, 1902, p. 399-415).

«Intanto qualche saggio delle mie ricerche avevo stampato nel Genio, e mi aveva fruttato incoraggiamenti e conforti, e tra le altre buone cose l'invito dell'ottimo Giampietro Viesseux [i.e. Vieusseux] alle sue riunioni del sabato sera, ove mi era dato agio di avvicinare tanti studiosi italiani e stranieri. Vero è, per compenso, che nello stesso tempo Francesco Palermo, bibliotecario granducale, mi chiudeva l'adito alla Palatina, e il Bonaini mi licenziava dall'Archivio di Stato sebbene raccomandato a lui dal Vieusseux. Ma il 30 aprile '59 ritrovandolo in un cortile di Palazzo Vecchio, come se nulla fosse stato, mi venne incontro dicendomi: – Caro Sandrino, e come va che non capitate più in Archivio? c'è tante belle cose pei vostri studj! – Com'era mutata l'aria!».
(ivi, p. 12).

Dazzi (1956)

«Non è sempre colpa di bibliotecari, se lo studioso straniero è trattenuto sulla soglia di biblioteche di conservazione, che nei loro regolamenti gelosi hanno clausole di particolare prudenza. Capitò a Ezra Pound, quando attendeva a ricerche su Sigismondo Malatesta, di dover fare una settimana d'attesa perchè la Giunta Comunale doveva prendere deliberazione sulla sua domanda d'ammissione alla Gambalunghiana. I regolamenti della Querini-Stampalia richiedono per l'ammissione dei lettori in generale una malleveria, che per gli stranieri deve essere prestata dal loro Consolato, in alcuni casi non presente a Venezia. Del resto la Biblioteca Nazionale di Parigi richiede per l'ammissione di stranieri una presentazione delle relative Ambasciate, che assicuri della personalità, del recapito, dei fini, pratica che comporta parecchi giorni d'attesa.»

(Manlio Dazzi, Rapporti di cortesia, p. 39)

De André (1991)

«Avevo letto la Storia di Genova di Francesco [ma Federico] Donaver e i testi di autori ignoti o vecchi annali trovati alla Biblioteca comunale, ascoltando anche i racconti fattimi da gente della Foce. Scoprii così l'esistenza di personaggi straordinari.»

(Amico fragile: Fabrizio De André si racconta a Cesare G. Romana, p. 134).

«Terminata la tournée che accompagnò l’uscita dell’ultimo album, i due [Fabrizio De André e Mauro Pagani] iniziarono a lavorare a Crêuza de mä. [...]
Fabrizio si mise al lavoro sulla parte storica e letteraria. Consultò numerosi testi rinvenuti nella biblioteca comunale e in quella paterna, lesse la storia di Genova di Federico Donaver, accertò l’origine fenicia della stessa, e notò come molte delle canzoni genovesi fossero assai lontane dalla tradizione popolare.»
(Luigi Viva, Falegname di parole: le canzoni e la musica di Fabrizio De André, Milano, Feltrinelli, 2018).

De Chirico (1945)

«Cominciai di nuovo a capire che per me in Italia l’aria diventava irrespirabile. [...] Si decise di tornare a Parigi. [...] Malgrado quella situazione disastrosa io continuavo a perfezionare le mie ricerche tecniche. Specialmente nel campo dell’imprimiture feci grandi progressi, aiutato dal geniale intuito di Isabella [Pakszwer] che mi aiutava col suo eccezionale raziocinio a risolvere i problemi e le difficoltà oppostimi dalla materia ribelle ed ostile. Con Isabella si trascorrevano interi pomeriggi alla biblioteca Richelieu a cercare in vecchi trattati e in scritti sulla pittura, apparsi in epoche in cui si sapeva ancora dipingere, i segreti e la dimenticata scienza dell’arte del pennello.»

(Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita, p. 155. De Chirico tornò a Parigi alla fine del 1933. Le Memorie furono pubblicate nel 1945 e poi, in forma ampliata, nel 1962).

De Crescenzo (2018)

«Non avrei mai immaginato che Storia della filosofia greca riuscisse a raggiungere un numero così alto di lettori. Ci speravo sì, ma non ne ero del tutto convinto. Grazie a questo successo, però, nel ’94 ho ricevuto persino la cittadinanza onoraria ateniese, e in parte per la felicità di questo riconoscimento, in parte forte delle vendite del primo volume, ho deciso di dedicarmi alla scrittura di Storia della filosofia medioevale e poi a quella Moderna, mescolando aneddoti di vita pubblica e privata dei pensatori che hanno influenzato non solo il corso della storia del mondo, ma anche la mia personale.
Ora, Bellavista lo avevo scritto in maniera per così dire preistorica, ovvero a mano. Per il primo dei volumi della serie dedicata alla filosofia, ho comprato invece un word-processor dell’Olympia. A convincermi ad affrontare questa spesa è stato il mio modo di lavorare. Ogni giorno andavo alla Biblioteca nazionale [di Napoli] e mi dedicavo alla ricerca di materiale sui filosofi di cui volevo spiegare il pensiero. Mi organizzavo più o meno così: se cercavo Empedocle e scoprivo che c’erano trenta libri che parlavano di lui, allora mi segnavo su un block-notes i titoli più interessanti e le notizie che più mi incuriosivano. Oppure, se cercando una notizia su Zenone scoprivo che era andato ad Atene con Parmenide, e che lì avevano incontrato Socrate, a quel punto nella scheda di Zenone finivano anche altri personaggi. È stato per questo che alla fine ho comprato l’Olympia.»

(Luciano De Crescenzo, Sono stato fortunato).

Lo scrittore napoletano ha pubblicato il suo primo romanzo, Così parlò Bellavista: Napoli, amore e libertà, nel 1977. Negli anni successivi si è tra l'altro dedicato alla stesura del volume Storia della filosofia greca. I presocratici (1983).

De Gasperi (1933)

«Vivo – come saprai – tra la famiglia e la biblioteca [Vaticana], all'ombra del Cupolone, ringraziando la Provvidenza di avermi riservata almeno un po' di pace esteriore. [...]
Ma la mia situazione m'impone di astenermi non solo dalla politica, ma anche da qualunque attività che possa interpretarsi, sia pure in senso lato, come affine alla politica. Perciò il mio destino è di schedare oggettivamente e musulmanamente i libri altrui. Anche il mio più accanito avversario, se mi vedesse alle prese con questo sistema di pedantesca acribia, si sentirebbe forse riconciliato.
Non credere tuttavia ch'io viva nel passato, come molti fanno per loro comodità spirituale: mi sforzo invece di «aggiornarmi», di comprendere l'evoluzione dei tempi e di rendere giustizia alle nuove generazioni. M'interessa sovrattutto il corporativismo. Avrai ricevuto il libro del Razza che ti feci spedire. Dell'estero in biblioteca si legge specialmente la «Vie intellectuelle», la quale ha ereditato il ruolo di München-Gladbach. [...]
Se mai volessi scrivermi qualche volta in biblioteca, indirizza: Augusto Frati, Bibl. Vaticana – perché i superiori non desiderano che noi, avventizi, ci facciamo dirigere colà la nostra corrispondenza. Il Frati è un custode che mi passerà certo la lettera: l'ho ben rassicurato che il nostro raro carteggio non potrà preoccupare nessuno.»

(Alcide De Gasperi, lettera a Luigi Sturzo a Londra, Roma, 28 dicembre 1933, in Luigi Sturzo - Alcide De Gasperi, Carteggio (1920-1953), p. 116-118).

De Gasperi (1941)

«Città del Vaticano, 22 febbraio 1941
È opportuno far vigilare moltissimo l'ex on. Alcide De Gasperis [!] (egli abita in Roma). Egli attualmente riveste la carica di segretario della biblioteca apostolica vaticana. È un protetto di mons. Montini con quale ci risulta che si incontra non in Segreteria di Stato.
La Biblioteca Vaticana in se stessa ha dato sempre luogo a sospetti per tutta quella folla di studiosi italiani e stranieri che la frequentano, molti dei quali antitaliani e antinazisti.»

(documento di polizia pubblicato da Ruggero Moscati, Informazioni della polizia su De Gasperi (1927-1941), p. 535. Il curatore, in nota, aggiunge: «Alla «propaganda ostile fatta nei locali della Biblioteca» è cenno in informazioni del 2 luglio 1941.»

De Gregori (1933)

«9-11 ottobre [1933], lunedì-mercoledì
[...]
Passeggiate sulle verande, sui ponti, sosta in biblioteca in conversazione col cameriere-bibliotecario, Medoni. Mi faccio prestare e leggo il libro di Paul Bourget: "La dame qui a perdu son peintre", che non avevo mai letto.»

(Luigi De Gregori, [Diario], in Giorgio De Gregori, Vita di un bibliotecario romano, p. 145. De Gregori viaggiava sul transatlantico Rex da Napoli a New York).

De Libero (1974)

«Venuto a Roma per gli studi universitari nell'ottobre 1927 ero già pronto a compiere il mio itinerario, entrai subito nell'ambiente di letterati e artisti. [...] Mi diedi subito a frequentare la Biblioteca Nazionale e l'Alessandrina per leggere libri e riviste che avevo elencato a poco a poco durante il liceo, ogni volta che mi colpissero nelle recensioni e rubriche letterarie dei giornali. Scoprivo autori che mi venivano incontro col fiato di citazioni che mi stimolavano fortemente, e il taccuino era piuttosto folto, respiravo coi polmoni della cultura ovvero d'una curiosità inesauribile, l'odore della carta mi eccitava, anche quello delle scansie nelle biblioteche polverose.»

(Libero De Libero, Un po' di postfazione e un po' di storia, 1974, 22 marzo, in Borrador, p. 257)

De Luca-Baldini (1931-1936)

«In conclusione, bellissime giornate, che se le paragono ai sogni di quand’ero seminarista, non mi pare che sfigurino. E c’è da ringraziare il cattivo stato dei nervi, letteralmente. Soltanto, non ho voluto metter i piedi alla Bibl. Nazionale: ma volevo riposare, e in Biblioteca dovevo veder troppe cose.
Oggi a Firenze c’è un velo, sdrucitissimo, di neve; e col sole, le dico io che il Lungarno delle Grazie è una cosa leopardiana, gelido e consolato, e senza malizie. Tranne, un po’ più su della mia pensione, la casa ove morì Tommaseo.»
(Giuseppe De Luca, lettera a Antonio Baldini, [Firenze] 12 dicembre 1931, p. 55).

 «Caro Baldini, mi sappia dire se lei va mai a Rimini e in Rimini alla Biblioteca [Gambalunga]. Ho scoperto un Riminese che ha scritto un Elogio della Pazzia poco prima o dopo di Erasmo: e vorrei vedere se è come la maggior parte delle mie scoperte, cioè per uso strettamente personale, non buona per nessun altro.».
(De Luca, lettera a Baldini, Roma 2 agosto 1936, p. 86).

«Qui alla civica Biblioteca Gambalunga non figura di Faustino che un’opericciuòla (v.s.) in volgare stampata in Rimini dall’Albertini nel 1844: Al m.r. Padre Angelo da Bertinoro, versi di Pier Paolo Faustino da Terdozio poeta del sec. XVI: e altra notizia non ho saputo scovarne. Ma chi voglia sapere di più non ha che da rivolgersi ad Augusto Campana che trovasi adesso costì, alla Bibl. Vaticana, il quale è armatissimo di schede – a quanto mi diceva un suo amico di qui – sul Faustino, che a lui interessa doppiamente e per essere modiglianese, terra di origine anche dei Campani, e per l’edizione sonciniana che è uno dei cavalli di battaglia di quel giovane occhialuto e riccioluto erudito.».
(Antonio Baldini, lettera a Giuseppe De Luca, Viserbella (Forlì) 6 agosto 1936, p. 88).

De Mauro (2012a)

«Gli orali della maturità filarono via col vento in poppa. [...] Per ultima mi toccò l'interrogazione di latino e greco con il professor Marchi. L'esame fu minuzioso e lungo. Alla fine Marchi mi chiese che cosa avevo in mente di fare poi. Gli dissi che, in un modo o nell'altro, volevo insegnare nelle scuole, fare il professore. Avevo in mente il modello di Mario Themelly e dei miei recenti professori di liceo. Ma mi ricordavo anche la suorina di prima elementare, suor Rosa, e la professoressa Urban e Nuccia Musatti. Mi pareva il mestiere più bello del mondo. Mario Themelly, quando gli confidai il mio proposito, approvò, condivise la mia valutazione, anzi credo di dovere a lui le parole il mestiere più bello del mondo, ma subito mi mise in guardia sulle difficoltà che avrei trovato nella situazione italiana e sugli assai moderati compensi. Marchi non fece obiezioni, mi chiese solo ragionevolmente che cosa pensavo di insegnare. Ero incerto, gli dissi, tra il fascino della matematica e della fisica, ma anche quello della storia e dell'antico mondo greco. Gli confessai le ricorrenti difficoltà economiche familiari e quindi gli accennai all'idea, discretamente ventilata dai miei, che studiassi giurisprudenza per avere presto più carte in mano per lavorare e guadagnare. Scosse il capo. «Lei», mi disse, «sa che cos'è la Normale?». Non ne avevo idea. Mi spiegò rapidamente, un luogo a Pisa, un collegio, dove studiare duramente, ma spesato di tutto, e con una biblioteca [della Scuola normale superiore] intera a disposizione e professori, spesso i migliori, a disposizione, e non solo italiani. Concluse: «Lei deve prepararsi per fare in autunno il concorso di ammissione alla Normale per la classe di lettere». Gli dissi che accettavo l'idea. «Bene, allora, se vuole riuscire, deve quest'estate precisare e rafforzare la sua preparazione. Può scrivere?». Mi dettò quella che, questa volta, era una vera reading list. Tempo fa, per rispondere in qualche modo a una laudatio, ho dovuto rievocarla dinanzi ai colleghi della Sorbona, perché gli autori di quella lista erano stati tutti grandi maestri di quell'istituzione parigina: da Michel Bréal a Meillet, di cui mi assegnò in pratica l'opera omnia. Unica eccezione, un libro in italiano, Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali.
Seguii quasi subito le sue indicazioni di lettura, ma non fino in fondo il suo consiglio.
Quasi subito, perché terminati gli esami, usciti i quadri, Mario Themelly mi offrì, e io accettai con gioia, due settimane di ospitalità in una sua casetta nella montagna abruzzese, sulle ultime balze del Sirente. Si trattenne un paio di giorni, poi mi lasciò solo a camminare in solitaria per la brulla montagna, a franare insieme a sassi e massi, con qualche incoscienza, lungo coste e canaloni franosi fino a valle, a inoltrarmi nelle gole del Sagittario, a nutrirmi attingendo ai sacchi di fagioli e fiaschi d'olio conservati in casa, a rimuginare sul mio avvenire, a pensare alla mia bella compagna lontana con cui, senza telefono, non potevo corrispondere. Con lei, risceso a Roma, mi lasciai guidare verso l'università e mi inoltrai nella grande sala di lettura dell'Alessandrina. Ordinavo uno dopo l'altro i libri della lista di Marchi, Bréal non suscitò grandi entusiasmi nonostante il tema, ben altro effetto sentii leggendo le due brevi, grandi storie del greco e del latino, l'introduzione allo studio comparativo delle lingue indoeuropee, la grammatica comparata del greco e del latino. Come d'abitudine, leggevo e riassumevo su un quaderno pagina dopo pagina. Ripescai i libri di Galante e cominciai a studiarli, Passy più che la grammatica sanscrita. La mia compagna comprò e mi passò la Storia di Pasquali, che potevo leggere a casa, sprofondando in essa. La prova alla Normale si avvicinava. I quindici giorni di lontananza mi avevano fatto sentire assai forte il legame con la mia compagna lontana. Lei mi spingeva ad andare a Pisa. Preferii non farne niente e restarle vicino a Roma. Tradendo il buon professor Marchi, mi iscrissi alla Facoltà di lettere della Sapienza, lettere antiche, filologia classica.»

(Tullio De Mauro, Parole di giorni un po' meno lontani, p. 165-167).

De Mauro (2012b)

«Le biblioteche non devono essere solo teche di libri da tener sotto chiave, ma luoghi attivi di socializzazione. Lo abbiamo sostenuto ripetutamente in molti, lo ha spiegato magistralmente in più d’un suo libro Giovanni Solimine. La Biblioteca Alessandrina già allora rispondeva a questo desiderato. Rispondeva in modo più serio nella sala riservata a studiosi e docenti, la sala Chiovenda, per me in quest’estate preuniversitaria inaccessibile. Ma rispondeva anche nella grande sala di lettura per studenti. In fondo alla sala si apriva una larga porta che immetteva in un ampio locale contornato dai gabinetti per i maschi (le femmine avevano altro locale da tutt’altra parte). Qui i frequentatori maschi avevano modo di soddisfare i loro bisogni, ma anche di soffermarsi a fumare una altrimenti vietatissima sigaretta e a scambiare due chiacchiere. Le chiacchiere erano soprattutto, che io ricordi, notizie sullo studio e i professori e discussioni politiche. Tra una e altra pagina di Meillet, tra una sigaretta e l’altra cominciai a stabilire contatti con studenti più anziani e di varie facoltà. [...]
Nel locale dei gabinetti tuttavia la discussione, quando si accendeva, si svolgeva in forme civili. E sui grandi muri bianchi si depositavano in forma scritta le opposte visioni politiche e qualche testimonianza prepolitica. Abbondavano i «w Nenni», corretti in «ʍ Nenni», ricorretto in «w Nenni», i viva e abbasso il Duce, qualche viva e abbasso Togliatti. Qua e là campeggiavano espressioni olofrastiche: CAZZO oppure FICA, più spesso STRONZO. Scritto con cura si leggeva un più elaborato distico a rima baciata, una precoce critica della scienza e dell’insegnamento trasmissivo: Affinché l’ateneo nulla ci perda / quel che in scienza mi dà gli rendo in merda. L’autore, che io sappia, è ignoto e, per quanto poi abbia cercato, non è rintracciabile con sicurezza nemmeno la prima origine. Rispetto ad altre attestazioni recentiores il 1951 è, allo stato delle indagini, un buon terminus ante quem. Quanto alla forma, ragioni metriche e di stile rendono questa preferibile ad altre varianti (perché invece di affinché, sapere invece di scienza) raccolte sui muri di altre università italiane. Più o meno negli stessi anni (ma io l’ho potuto sapere solo assai più tardi) due allora giovani studiosi della Sapienza, Alessandro Bausani, grande orientalista, e Mario Lucidi, avevano concepito l’idea di una raccolta sistematica delle scritte sui muri di vespasiani e gabinetti e, anzi, avevano cominciato l’impresa e ne avevano già il titolo: Corpus Inscriptionum Latrinarum. Qui il distico avrebbe fatto la sua figura.»

(Tullio De Mauro, Parole di giorni un po' meno lontani, p. 169-171).

De Rinaldis (1909)

«Comincio ad occuparmi, con questa lettera, d’una questione assai grave e complessa, che abbraccia nella vastità dei suoi termini non solo la vita della Biblioteca Nazionale, ma l’organizzazione di tutti i pubblici istituti di coltura di cui Napoli dispone. Mi limiterò, per ora, ai fatti che riguardano direttamente la nostra maggiore Biblioteca – i quali sono i più gravi, – proponendomi di occuparmi anche degli altri che vi si collegano – i quali sono i più complessi e delicati, perchè toccano tutto un ingranaggio rugginoso d’interessi d’ogni sorta, che bisognerà una buona volta conciliare perchè gli istituti napoletani acquistino la possibilità d’un logico ed utile sviluppo futuro.
Non occorre ch’io m’indugi a ricordare o a dimostrare come nell’Italia meridionale difettino le pubbliche Biblioteche e come quelle esistenti non possano in alcun modo rispondere alle necessità degli studi e degli studiosi: se questi ultimi debbono rivolgersi alla nostra Biblioteca universitaria per le opere scientifiche (sopra tutto di scienze mediche e matematiche) non possono non far capo alla Biblioteca Nazionale per quanto riguarda coltura filologica e storica nel più lato senso della parola. Questa biblioteca, dunque, non è soltanto un istituto napoletano, ma dell’intero Mezzogiorno (esclusa la Sicilia, ma solo fino a un certo punto); e se ciò accresce enormemente la sua importanza, rende tanto più gravi le condizioni nelle quali attualmente si trova. [...]
Sappiano ora i lettori che la Biblioteca (posta col Museo Nazionale nell’antico Palazzo degli Studi) possedeva nel 1818 ottantamila volumi e ne ospita oggi circa quattrocentomila, mentre dal 1804 in poi non ebbe altro incremento spaziale che l’aggiunta di due sole sale. La sua topografia conta, per ciò, diciannove vani compresi quelli occupati da scaffali – non esclusi gli altri che ospitano la Raccolta Lucchesi Palli, sezione autonoma con un proprio regolamento ed un proprio catalogo.
Data l’enorme disproporzione tra il contenente e il contenuto, non sarà difficile pensare che, aver portato gli scaffali fino all’altezza massima, averli aumentati nel numero fino ad ingombrare con essi le sale di lettura e ad occupare il centro di molte altre sale (con grave pericolo della statica dell’edificio), non poteva bastare a dar posto a tutti i volumi.
È stato necessario rimpinzare gli armadi – già troppo alti per non esser pericolosi – situando libri (ovunque il loro formato lo permetteva) in due e finanche tre fila – quasi che fosser destinati a non esser mai cercati, mai letti, ma solo a nutrirsi di poco onorevole polvere. È stato necessario trascurare in qualche modo gli ammonimenti dell’Ufficio del Genio Civile – che declina oramai ogni sua responsabilità – e sfidare con rassegnazione il pericolo, aumentando i provvisori scaffali centrali fino a che la prudenza (pur necessaria per quanto assottigliata) poteva consentirlo. È stato necessario, in fine, – e qui comincia il danno maggiore – lasciare che un’enorme massa di libri rimanesse conservata alla rinfusa, un po’ dovunque, e finanche sul pavimento del Salone centrale – già contenente sessantamila volumi – senza che fosse possibile non sottrarla all’uso degli studiosi. E a che serve, dunque, tenere dei libri, se nessuno può vederli né leggerli?
Ma non basta: le raccolte dei periodici, gli atti accademici, le serie e le collezioni non sono ordinate, nè è possibile, per difetto di spazio, tentare anche un provvisorio ordinamento: giacciono anch’essi alla rinfusa, nè v’è luogo ove collocare in utile modo i tremila volumi circa che si acquistano e si immettono ogni anno nella Biblioteca. Da vari anni l’attuale Direzione, per iniziativa propria e per consiglio di parecchi studiosi, pur continuando ad assicurarsi la proprietà delle edizioni rare apparse nel commercio, ha tentato ogni mezzo per sviluppare il contingente della Biblioteca a vantaggio della coltura storica e filosofica, lasciando all’Università il compito del proprio incremento a vantaggio delle discipline scientifiche. Così che oggi la Biblioteca Nazionale possiede tutto quanto è necessario ad una buona e moderna coltura filosofica, e dispone di opere importantissime e costose di archeologia e storia dell’arte medioevale e moderna, che la povera Biblioteca del Museo non avrebbe potuto acquistare senza dichiarare immediatamente bancarotta. Continuare in simili sforzi ormai è inutile: lo spazio assolutamente manca; nè è possibile per acquistare in quantità meschinissima pubblicazioni nuove, tentare nuovi spostamenti di volumi ed aggravare la confusione e l’incompiutezza del Catalogo. Dello stato in cui questo si trova per forza maggiore, dirò altra volta: noto soltanto che un suo supplemento, composto dallo schedario dei volumi di immissione recente, è posto a disposizione del pubblico; ma registra solo una parte di quel contingente – di quello, cioè, che ha potuto trovare un posticino provvisorio ovunque era un buco da occupare. Quanto al resto siamo giunti ormai a questo punto: che quanti sono qui studiosi, non ignari di quel che si opera nel mondo della coltura moderna e desiderosi di seguire da presso il cammino degli studi, sono costretti ad informarsi – non dal Catalogo – dei libri che si acquistano, e rivolgersi direttamente alla pazienza e alla cortesia della Direzione, se vogliono avere il piacere di leggerli e di studiarli subito. D’altronde l’antica minaccia del Direttore, di non acquistare nè accettare in dono un solo volume, diventa oggi una necessità. Non v’è spazio per nulla: a meno che non si voglia continuare a sovrapporre carta stampata sui pavimenti, cioè ad accrescere quei pericoli che la statica dell’edificio minaccia, finchè non si sarà costretti a sgombrar tutto il lato orientale del Palazzo degli Studi – la parte superiore, occupata dalla Biblioteca, e l’inferiore, appartenente al Museo – per accampar ogni cosa, libri e statue, nella pubblica via!
Sarebbe ora una vera ingenuità chiedersi se in questa Biblioteca esista una sala riservata, quale oggi si richiede in ogni istituto di tal genere, – cioè una vera sala di consultazioni, ove chi vi è ospitato possa studiar veramente senza perdere e far perdere tempo; se esista una stanza per la lettura delle riviste e magari dei loro sommarii; e se vi sia infine una stanza destinata esclusivamente alle ricerche di catalogo. Nulla di tutto ciò. I lettori ammessi alle sale riservate prendono posto dov’è possibile concederlo al loro bisogno; e – quel che è peggio – sono costretti a riversarsi nella sala destinata allo studio degli importantissimi manoscritti che l’istituto possiede e ad esigere una continua ubicazione di volumi da consultare, svantaggiosa per tutti; e quanto al Catalogo non me ne occupo per ora – ripeto – giacchè esso, malgrado gli sforzi del direttore [Emidio] Martini per aggiustare e rimediare alla meglio gli inconvenienti gravissimi del suo inevitabile stato attuale, rappresenta lo specchio fedele di tutte le miserie della Biblioteca Nazionale, viste in ciascun dettaglio ed in ciascuna delle loro conseguenze.
La conclusione di tutte queste cose è una sola: la Biblioteca di Napoli ha bisogno di maggior spazio; e nessun ampliamento potrà mai effettuarsi nell’attuale Palazzo degli Studi, occupato in parte dal Museo, anch’esso sofferente per insufficienza di locali che possano almeno permettergli di ospitare le parecchie migliaia di oggetti non esposti in maniera conservativa e non distruttiva.
Parlerò in una prossima lettera delle possibili e delle impossibili soluzioni del problema che si impone, e di quanto fu concretato e proposto dalla Commissione nominata nel 1907 dal ministro Rava e composta dal prof. Martini, direttore della Nazionale, dal comm. [Giovanni] Gattini, direttore amministrativo del Museo, e da due studiosi napoletani, Benedetto Croce e Francesco Torraca.»

(Aldo De Rinaldis, La Biblioteca nazionale di Napoli. I, «La voce», 1, n. 5 (14 gen. 1909), p. 19).

De Roberto (1882)

«Una bella mattina, tra le stampe che la posta gli portava a cataste, ricevette da Palermo il primo fascicolo dell’Araldo Sicolo, opera istorico-nobiliare del Cavaliere don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella. Come lui, tutti i parenti, i sottoscrittori, i circoli ne ebbero un esemplare. L’opera storico-nobiliare cominciava con Brevi cenni amplificati sulle dinastie che avevano regnato nell’isola: Real Casa Normanna, Real Casa Sveva, Real Casa d'Angiò e così via discorrendo fino alla Real Casa Sabauda – così il cavaliere aveva riconosciuto la nuova monarchia per vendere copie del libro alle biblioteche dello Stato.»

«La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale, non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studii? L’Araldo Sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno sciupato tre volte la legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto questo è finito, se la nobiltà è una cosa puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti?»

(Federico De Roberto, I viceré, in Romanzi, novelle e saggi, p. 411-1103: p. 950 e p. 1100-1101. Il romanzo fu pubblicato nel 1882).