LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

De Roberto (1909)

«Tu, caro Diego, nelle parole che hai aggiunto all'ultima lettera della Mamma, mi chiedi di procurarti qui i libri dello Strauss. È una cosa estremamente difficile, e quasi impossibile. La Vittorio Emanuele non è come la nostra Universitaria, dove facciamo ciò che vogliamo; la semplice richiesta d'un libro per leggerlo sul posto è un affare così complicato, che mi viene freddo ogni volta che debbo fare qualche ricerca, e ad alcune ho finanche rinunciato. Farò qualche pratica, ma non ci sperare molto. Piuttosto ricercherò i libri presso qualche libraio antiquario, e te li comprerò, come era prima mia intenzione.»

(Federico De Roberto, lettera alla madre, Roma 18 giugno 1909, edita in Lettere a donna Marianna degli Asmundo, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania, Tringale, 1978, p. 224-225).

De Sanctis (1856)

«Zurigo, mio caro Diomede, è di una bellezza superiore alla mia aspettazione. [...] Libri ce ne è in abbondanza. Mi ho già comprato tre dizionari tascabili. Mi sono abbonato al gabinetto di lettura, dove ci è ogni specie di rivista e di giornali. Ci sono tre biblioteche; ed io ho il diritto di portarmi a casa tutt’i libri che voglio. Il Presidente ha fatto subito comprare un Dizionario della Crusca per uso della Scuola.»
(Francesco De Sanctis, lettera a Diomede Marvasi, Zurigo, 2 aprile 1856, pp. 3-7)

Nel 1856 De Sanctis ottenne l’incarico di insegnamento della letteratura italiana presso l’Istituto universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al 1860. In questi anni tenne importanti lezioni su Dante, i poemi cavallereschi italiani e Petrarca, temi poi confluiti nella Storia della letteratura italiana.

Del Buono (1956)

«Lavorava dalle otto di mattina alle sei di sera, e dalle otto e mezzo di sera all'una leggeva. Era diventato un cliente assiduo di ogni biblioteca, soprattutto di quella del Castello sforzesco. Divorava i libri, anche quelli in apparenza più indigesti. Lo attirava particolarmente la filosofia e il primo articolo che riuscì a pubblicare consisteva di riflessioni su Schopenhauer. Ecco qualcosa che Scerbanenco ricorda sorridendo come la sua promozione a tornitore. Dopo un anno e mezzo di una esistenza simile, tra la Borletti e il Castello sforzesco, fra il tornio e i trattati di filosofia, e a volte anche di teologia, Scerbanenco finì in sanatorio.»
(Oreste Del Buono, Le 60 storie d'amore di Giorgio Scerbanenco, «Oggi», 12, n. 50 (13 dic. 1956), p. 41-42, riprodotto in Cecilia Scerbanenco, Il fabbricante di storie, p. 20).

«La sera e negli altri momenti di libertà dai precari lavori, mio padre andava a studiare nelle biblioteche della città, in particolare quella del Castello sforzesco e quella di Brera, dove si riuniva il mondo intellettuale dell'epoca, ancora vivace, imbevuto di futurismo e D'Annunzio, popolato dai primi poeti e scrittori "maledetti".»
(Cecilia Scerbanenco, Il fabbricante di storie, p. 42).

«Mio padre però aveva frequentato per anni la biblioteca di Brera, anzi, si può dire che lì abbia fatto tutti gli incontri che hanno poi segnato la sua vita, aprendogli e facilitandogli la carriera letteraria. È assai probabile che vi abbia conosciuto anche qualcuno che lavorava all'osservatorio, forse qualche studentessa o scienziata, presa a modello per l'affascinante astronoma del romanzo [Lo scandalo dell'osservatorio astronomico]. Il quartiere milanese di Brera occupò sempre un posto particolare nel cuore di mio padre, che molti anni dopo cercò di comprarvi una casa.»
(ivi, p. 105).

Del Lungo (1923)

«Nell'anno che ero venuto a passare in Firenze per prepararmi all'esame universitario di «baccelliere», la mia compagnia, di giovinetto con maggiori, era stata con Carlo Milanesi che mi ospitava, e con Cesare Guasti, mio alla lontana parente; dai quali appresi l'amore, non pedantesco ma di sentimento, alle ricerche dell'antico, e a frequentare le biblioteche e gli archivi trascrivendo, soltanto per mio diletto ed era immenso, della buona e possente lingua parlata dai Fiorentini de' tre grandi secoli da Dante a Michelangiolo, la quale da quelle vecchie carte originali che io veniva timidamente decifrando, mi s'infondeva con tanta immediatezza nell'anima, quanto non aveva fatto quella de' libri: questi, del resto, avevo letto più latini che italiani; e di moderno, poco e male.»

(Isidoro Del Lungo, A Giuseppe Chiarini, in: Il primo passo, p. 143-149: 144. Il testo, datato «Firenze, 10 maggio 1901», fu aggiunto nell'edizione del 1923).

Devoto (1920)

«Chiarissimo Signor Professore, l’amico [Enrico] Jahier, dopo avermi parecchie volte parlato di Lei, mi diceva, in una lettera recente, ch’Ella aveva avuto la cortesia di chiedergli mie notizie. E io sento il dovere, graditissimo, di ringraziarLa di tutto cuore, con quel sentimento di riconoscenza che chi ha lavorato quasi costantemente da solo, sente per chi porta qualche interesse al suo lavoro.
Io mi trovo ora da due mesi e mezzo a Berlino, completamente a mio agio per la cortesia di Professori e studenti come per la ricchezza di mezzi di studio che l’orario continuato di 11 ore delle Biblioteche mi offre.»
(Giacomo Devoto, lettera a Giorgio Pasquali; Berlino 5 dicembre 1920; p. 170)

Di Giacomo (1909)

La vecchia biblioteca de’ Gerolamini di Napoli – che è, per dire più precisamente, quella dei padri Filippini – è frequentata da pochissimi studiosi, preti per lo più, che vi s’intrattengono a leggere i fascicoli della Civiltà cattolica o qualche ingiallito volume de’ Bollandisti. La sala di lettura è piccola e povera – ma pulita e ordinata. Qui, nell’alta quiete, un mormorio, talvolta, o un di que’ rumori nasali che vi svelano il prete a cento passi: de’ chierici leggono sottovoce e interrogano ò piegati sull’in folio – il latino del poderoso volume che si squadernano davanti: un vecchio prete annusa beatamente la sua presa di tabacco e ne fa rintronare le sue froge capaci. Di fuori è una pace profonda. Il giardino del claustro prospera al sole: le ortensie rosee e azzurrine lo popolano con una variopinta decorazione, qua e là occhieggia vividamente il geranio scarlatto e – di tra il folto d’un agrumeto – gialleggiano, con un riflesso dorato, i limoni. Mi metto a sedere a una delle grandi tavole in sala di lettura e mi faccio portare dal vecchio distributore la copiosa cartella de’ manoscritti di Agostino Gervasio. Tra quelle carte dev’essere una in cui – l’ho appurato da un amico che le ha consultate prima di me – è riferita una conversazione che il Gervasio ebbe con Giovanni Paisiello, in Napoli, quando il maestro era già vecchio e si poteva ben permettere di manifestare sinceramente il suo pensiero intorno a’ suoi contemporanei musicisti.»

(Salvatore Di GiacomoPaisiello e i suoi contemporanei, p. 211-212).

Salvatore Di Giacomo nella Biblioteca dei Girolamini

(Salvatore Di Giacomo a un tavolo della Biblioteca dei Girolamini)

Di Giacomo (1920)

«Il Croce è giovanissimo; io credo ch’egli abbia soltanto superato di qualche anno i soliti cinque lustri, classico spazio di tempo in cui s’aggirano, tradizionalmente, gl’ingegni produttori, col più vivo delle loro forze. Chi lo vede non sospetta il letterato in quell’ometto semplice, sorridente, tranquillo, non ancora insignito del sospirato onore del mento. Egli ha un naso puntuto sul quale stanno a cavallo le lenti; queste lo aiutano a non scambiare un cavallo con un elefante, quello si caccia, tutta la santa giornata, tra le carte grattate dalla penna d’oca, tra i fasci di documenti che sono negli archivii e i libri rari che constituiscono il patrimonio più sacro delle nostre biblioteche. [...]
Questi è Benedetto Croce. Infaticabile lavoratore egli consacra a’ suoi studii tutta la giornata passando dalla Biblioteca Nazionale all’Archivio di Stato e da questo alla Società di storia patria. Raccoglie, annota, fruga da per tutto e, rincasato, nel silenzio della sua camera da studio, dispone i suoi appunti per una novella monografia di cento pagine o per un libro che ne conta ben settecento.».
(Salvatore di Giacomo, Benedetto Croce (Mentre era in viaggio... trent’anni fa), in Benedetto Croce, p. 19-25:19-22; pur essendo stata pubblicata nel 1920, la testimonianza di Di Giacomo fu scritta nel 1889).

Dionisotti (1963)

«Conobbi don Giuseppe De Luca a Roma, vent’anni fa o poco più, durante la guerra. Avrebbe potuto essere non dirò una conoscenza occasionale e senza seguito, perché non era uomo che uscisse di mente a chi una volta si fosse imbattuto in lui, ma per più motivi, una conoscenza difficile, forse aspra. Era, già nel primo aspetto e discorso, uno straordinario uomo certo, ma anche e in ispecie uno straordinario prete. L’orma dello spirito creatore era in lui evidente subito; ma pareva a occhi estranei impressa una cera mista di venature demoniache. [...]
A Roma aveva fatto e continuava a fare esperienza d’una filologia che per il suo oggetto e per il metodo era diversa da quella del sistema accademico, da quella che ivi stesso gli avevano insegnato maestri non dimenticabili, Nicola Festa e Vittorio Rossi. Don Giuseppe era frequentatore assiduo della Biblioteca Vaticana. Ivi era, a paragone di ogni altra biblioteca e accademia e scuola, un diverso mondo. Imperava allora sulla Biblioteca il Cardinale, quello che per tutti noi era senza più il Cardinale, Mercati. In lui, vecchio, d’una vecchiezza prepotente, quasi emblematica e fuori del tempo, lontanamente alto come un astro se anche ci passasse accanto rannuvolato nella sua umile veste nera, e per lui negli Studi e Testi, e via via risalendo, nel sistema antico di una formidabile erudizione ecclesiastica, non era difficile scoprire la durezza e lo splendore del diamante. Era questione di durezza, di un grado diverso nella scala. [...]
A Roma, fra la Biblioteca Vaticana e gli Studi generali dei grandi Ordini, don Giuseppe De Luca vide subito e bene che non sulla aristocratica fragilità di questa o quella filologia poteva essere fondata la sua impresa, ma sulla forza massiccia della erudizione. Egli stesso, come era nato scrittore, così era nato per la ricerca erudita. In questa era stimolato e assistito dalla stessa avidità impaziente che gli impediva di essere propriamente un filologo. [...]
Tante volte mi sono chiesto come e dove, in una vita così stipata d’altre cure e impegni, don Giuseppe De Luca trovasse il tempo della lettura e della ricerca. Tante, quante, per una immediata risposta, mi accadde di vederlo fermo e intento, lui così irrequieto, al suo posto nella sala dei manoscritti della Vaticana. Tante, quante, in questi anni in cui ci trovammo a vivere lontani, mi giungevano le sue richieste e segnalazioni, sempre urgenti, sempre diritte allo scopo, di questo o quel documento in cui si era imbattuto, e che rientrasse nell’ambito delle mie proprie ricerche. Erano per lo più documenti di una rarità estrema.»

(Carlo Dionisotti, Il filologo e l’erudito, in Don Giuseppe De Luca: ricordi e testimonianze, pp. 143-167: 143-151; il volume di ricordi su De Luca ebbe una prima edizione nel 1963 presso i tipi della Morcelliana, per poi essere ristampato nel 1998 in anastatica con le Edizioni di storia e letteratura)

Dionisotti (1989)

«Nel 1941 lei si trasferì a Roma. Iniziò così la sua spiemontesizzazione. Quale fu il motivo che la spinse a lasciare il Piemonte?

Torino non ha importanza nel Rinascimento: entra nella cultura italiana tardi, fra Cinque e Seicento. Il primo poeta italiano che casualmente capita a Torino è Tasso; il primo ospite della corte è Marino. Il recupero dell’eredità rinascimentale, artistica e letteraria, fu tardo e inevitabilmente parziale: altri erano i propositi e compiti dello stato sabaudo. Chi studia il Rinascimento è costretto a cercare altrove il materiale che gli occorre. Così dovetti fare io, prima e dopo la laurea, e le ore passate a Venezia, nella biblioteca Marciana, a Roma, nella Vaticana, nella Vittorio Emanuele e nell’Angelica, in parecchie altre città dove potevo trasferirmi per breve tempo durante le vacanze, furono le più belle della mia vita di giovane studioso. [...] Irresistibile era l’attrattiva della Biblioteca Vaticana, ancora aperta e disponibile come in tempo di pace.».

(Carlo Dionisotti, p. 81-82)

Dionisotti (1991)

«Nel caso del giovane Pavese, a paragone dei suoi amici e compagni e della norma nazionale, il disinteresse accademico fu molto piú significativo del «famoso» disinteresse politico. Non era bizzarria, come in parte fu per Soldati. Nella realtà della vita, come nella poesia e prosa, Pavese avrà cercato di evadere da ogni sorta di aule, in campagna, sul fiume e sulle colline di Torino, per le vie e per i viali, ma nessuno che l'abbia conosciuto allora può dimenticare la concentrazione inviolabile di quel lettore nella biblioteca della Facoltà, quel continuo, pendolare, ossessionante maneggio dei capelli. Al disinteresse accademico corrispondeva la ricerca di un linguaggio, che non era quello dell'accademia, di un'accademia che in quel dopoguerra non faceva piú argine alla critica e letteratura militante, e riconosceva ormai la preminenza di Croce, maestro senza laurea.»

(Carlo Dionisotti, Per un taccuino di Pavese, «Belfagor», 46 (1991), n. 1, p. 1-10: 9; poi in Ricordi della scuola italiana, p. 511-522: 520. Pavese lettore nella Biblioteca della Facoltà di lettere di Torino è ricordato anche da Lalla Romano).

Dionisotti (1992)

«Milano è la prima tappa per chi muova da Torino alla scoperta dell'Italia. Non parlo dell'Italia turistica, ma di quell'Italia storica, che è la nostra nazione e patria. Nel mio noviziato di studioso della letteratura italiana, l'Italia che io cercavo, uscendo da Torino, era composta di libri. Pertanto la mia prima tappa fu nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. Là, nel solo fondo antico, cinquecentesco, che allora più m'importava, era un patrimonio di libri manoscritti e stampati incomparabilmente maggiore di quello delle biblioteche torinesi a me note. Di là, dall'Ambrosiana, bisognava passare, per procedere ad altre tappe: Venezia, Firenze, Roma. L'Italia del mio noviziato di studioso non poteva bastare, andando avanti, negli anni Trenta, al cittadino e all'insegnante. Dai libri, dalle biblioteche, bisognava ricavare una lezione immediatamente valida, discutibile con altri, di altra età e professione, coi giovani nella scuola. Bisognava insomma scoprire e capire, cercar di capire, l'Italia storica».

(Carlo Dionisotti, Milano dal Regno italico al Regno d'Italia, in Ricordi della scuola italiana, p. 241-250: 241. Già pubblicato, col titolo La cultura milanese dal Regno italico al Regno d'Italia, in «Aevum», 66 (1992), n. 3, p. 619-624).

Dionisotti (1993)

«Lettore ero diventato non a casa mia né a scuola, ma nella nostra Biblioteca Civica, dove andavo nelle ore libere, quando ero in ginnasio e liceo. E ricordo che la prima mia lettura fu dei quattro, allora, volumi dedicati alla letteratura della nuova Italia. Poi fu la volta, a scuola, del Breviario di estetica. [...]
Parecchi anni dopo, quando ero già laureato, conobbi di persona Croce in altra biblioteca torinese, nella Nazionale. In casa sua, a Napoli, Croce possedeva una biblioteca eccezionalmente ricca, fra le maggiori di un privato in Italia. Ma quando era in viaggio, e sostava in una città, volentieri si serviva delle biblioteche locali. Così a Torino, dove capitava spesso per motivi famigliari. Nella vecchia sede della Biblioteca Nazionale in via Po c’erano allora, a livello più alto della sala di lettura comune, alcune salette riservate per docenti e studenti, anche per giovani studiosi. Due di queste salette, le prime entrando, erano riservate ai professori universitari: agli ordinari, beninteso, non a liberi docenti e assistenti. Croce era più che un professore ordinario, era un senatore del Regno: pertanto lavorava in una di quelle due salette. [...] Un giorno dunque, mentre io ero in Nazionale, in una delle salette riservate ai minori docenti e ai non docenti, mi si avvicinò Leone Ginzburg, fedelissimo tra i fedeli di Croce a Torino, e mi domandò se conoscessi certo oscuro umanista, su cui il senatore stava cercando notizie. Fortuna volle che io conoscessi quell’umanista e il libro, non di un moderno, ma di un erudito del Settecento, dove erano i dati biografici e bibliografici essenziali. Soddisfatto, il senatore volle conoscermi e ringraziarmi. Così ebbe inizio il mio rapporto con lui, durato poi sempre. [...]
Ho detto del mio primo, fortunato contributo a una ricerca di Croce, qui a Torino. Dirò dell’ultimo, quando la distanza nello spazio era diventata maggiore, perché nel dopoguerra, presentato e raccomandato anche da lui, avevo ottenuto un posto d’insegnamento nell’università di Oxford. Là, nel 1948, in un manoscritto italiano di quella mirabile biblioteca, mi accadde di trovare identificato un minuscolo letterato del medio Cinquecento, di cui l’ottantenne Croce si era incuriosito. Anche in questo caso, importante non era l’identificazione, ma la curiosità di Croce, destata dal sopranome che quel minuscolo personaggio aveva nelle testimonianze allora note.»

(Carlo Dionisotti, Croce a Torino, in Ricordi della scuola italiana, p. 493-502: 493-495. Apparso originariamente in: Giovanni Spadolini - Carlo Dionisotti, Benedetto Croce, Torino, Centro Pannunzio, 1993, p. 13-20).

Dionisotti (1994)

«A differenza di [Arnaldo] Momigliano, io evitai nel primo biennio del mio corso universitario la letteratura italiana, che mi pareva di aver studiato a sufficienza in liceo, ma ebbi occasione di incontrare Calcaterra fuori dell'Università, in una Società di Cultura che aveva sede nella piazzetta Madonna degli Angeli all'angolo di via Carlo Alberto e via Cavour. Nel dopoguerra questa Società di Cultura era stata partecipe della vigorosa ripresa di vita intellettuale che caratterizzò la Torino di Gobetti e di Gramsci; ma nei tardi anni venti, nella stretta del nuovo regime politico, stentava a sopravvivere. Offriva ai soci una piccola biblioteca, periodici italiani e stranieri, alcune conferenze, in più la possibilità, ormai sospetta e di lì a poco intollerabile, di incontri confidenziali fra persone altrimenti divise da professioni o età diverse. L'incontro di uno studente, quale io ero, con un professore, era più facile in quella sede che non in via Po, nelle aule e nel cortile dell'Università. Accadde così che un giorno, discorrendo nella Società di Cultura con Calcaterra, io fossi da lui informato del suo imminente trasferimento a Milano, a una cattedra di letteratura italiana nell'Università Cattolica.»

(Carlo Dionisotti, Ricordo di Carlo Calcaterra, in Ricordi della scuola italiana, p. 469-476. Pubblicato originariamente in: Da Petrarca a Gozzano: ricordo di Carlo Calcaterra (1884-1952): atti del convegno, S. Maria Maggiore, 19-20 settembre 1992, con un saggio introduttivo di Carlo Dionisotti, una testimonianza di Oreste Macrì e lettere di Gozzano, Graf, Contini, Pasolini e altri, a cura di Roberto Cicala e Valerio S. Rossi, Novara, Interlinea - Centro novarese di studi letterari, 1994, p. 9-16).

Dionisotti (1998)

«La storia di Cantimori era di uomini e di eventi, oltreché di idee, era di nomi propri e di date, ed era fondata su testimonianze scritte, preferibilmente, dal Quattrocento innanzi, stampate. Cantimori stava a suo agio nella sua e nella pubblica biblioteca, piuttosto che in archivio. Per uno storico, di qualunque storia, senza dubbio era un limite, ma illimitata è soltanto la ricerca collettiva, che ogni maestro affida alla sua scuola, ogni generazione alla successiva.»

(Carlo DionisottiRicordo di Delio Cantimori, in Ricordi della scuola italiana, p. 573-586: 585. Apparso originariamente in «Belfagor», 53 (1998), n. 3, p. 261-276).

Donati (1909)

«La Biblioteca comunale, prima fra le otto consorelle faentine, è per la sua importanza la maggiore e la peggiore. Il suo catalogo supera, se non erro, i ventimila volumi, e fino all’anno 1880 circa è abbastanza al corrente delle principali pubblicazioni. Il suo primo nucleo è formato da eredità di preti dotti già bibliotecari e bibliofili e dalle biblioteche soppresse dei conventi. Vi prevalgono quindi i libri di Teologia, Filosofia Scolastica, Diritto Canonico, Patristica, Miscellanee religiose, ecc. Abbondano anche i libri di letteratura classica: completa è la raccolta degli autori latini e numerosa quella degli italiani: scarse le opere greche e più scarse ancora le francesi. Il predecessore dell’attuale bibliotecario, D. Gian Marcello Valgimigli, per comporre le sue Memorie storiche Faentine raccolse un rilevante materiale di opere storiche che alle volte pagò di suo, essendo il sussidio comunale scarsissimo. Al presente la decadenza della Biblioteca è al suo colmo. Da vent’anni e più le deficienze si sono moltiplicate, e non c’è fama di scrittore o di opera che possa dire di averne vinto l’inerzia. La Comunale non può dare sussidio alcuno di recente cultura perchè le opere mancano letteralmente tutte. Vogliano i miei lettori ricordarsi di quel che l’Anzillotti disse della Labronica scrivendo di Livorno su queste stesse colonne, e credano che è poco scrivere così amaramente della Comunale Faentina: basterà il dire che non è possibile leggere tutte le opere del Carducci. Ma che dico tutte? quando neppure la parte più rilevante è possibile avere: giacchè oltre ai tre primi volumi di poesia e ai due di prose editi la prima volta dal Zanichelli, pochi altri scritti si trovano sparsi in giornali o riviste. Ora, se questo è del legno secco, che sarà del verde? E va detto ad onor del vero che contro questo stato di cose si sono mosse lagnanze, ma nessuno ha pensato davvero a riparare alla meglio e dove fosse possibile questa scandalosa deficienza. Alla quale hanno concorso tre fatti principali, la mancanza dei mezzi pecuniari, l’imperizia direttiva e la cresciuta attività libraria. Non fa meraviglia quindi se il numero dei frequentatori è limitatissimo: ed io credo che la media di sei lettori al giorno superi alquanto la realtà. Vi convengono i pochi assidui della Nuova Antologia, che insieme alla Rassegna nazionale e alla spessissimo intatta Revue de deux Mondes è l’unico mezzo fornitoci dal Municipio per stare al corrente di quel che si fa e si dice nel mondo intellettuale. Gli studenti del Liceo vi si danno alle volte convegno, se si tratta specialmente di tradurre del latino. Qualche volta vi capita una rara avis di studioso il quale, se non è corazzato di pazienza, vi si trova assai male per la tristissima organizzazione interna e per quell’inservibile antico catalogo elementare. E credo che basti questo po’ po’ di roba e che io possa dispensarmi dal fare deduzioni a proposito della cultura rispetto alla Biblioteca. Senonchè ogni male non vien per nuocere, dovendosi a questa deficienza il sorgere di iniziative private, quali il Circolo di lettura e il Gabinetto di lettura.

(Giuseppe Donati, Faenza, «La voce», 1, n. 50 (30 dic. 1909), p. 209-211: 210).