LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Garin (1999)

«Non erano, per l'Italia, anni sereni. Le ripercussioni politiche, nella scuola, si sentivano non poco. Le lezioni di filosofia erano spesso già trasparenti nella scelta dei testi classici (della riforma Gentile) che poi si leggevano e si chiosavano. Le lezioni di storia parlavano da sole. Maria [Soro] incontrò subito non poca simpatia nel liceo medesimo in cui insegnavo io. La collega di filosofia dell'altra sezione non si adattava – come molti, soprattutto anziani – alla 'rivoluzionaria' riforma Gentile, per cui prendeva spesso lunghi congedi per motivi salute, e Maria la suppliva con molto successo. D'altra parte in città aveva preso subito a frequentare molto, anche per me, le eccellenti biblioteche pubbliche, per non dire della Biblioteca Filosofica a Palazzo Reale, col suo singolare fondatore e direttore, il dottor Amato Pojero, l'amico di Gentile e primo editore dell’Atto Puro, il bizzarro 'filosofo' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto. Da lui andavano tutti, nel solenne Palazzo, dai membri della Real Casa, quando venivano a Palermo, al Cardinale Arcivescovo in occasione degli scambi di visite per le grandi festività.».

(Eugenio Garin, Una collaborazione lunga una vita, p. 732. Garin sposò Maria Soro, con rito civile, il 17 luglio 1930).

Ghirelli (1945)

«E' nella facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli [...] che i figli della piccola e media borghesia rurali, affluiti dalla provincia, si avviano allo studio dei codici. [...] Venuti in città con poco danaro, con molto desiderio di non tornare indietro, ossessionati dalle sordide condizioni di vita delle loro contrade d'origine, i giovani provinciali si buttano ad uno studio matto e disperatissimo. [...] In periodo fascista si recavano al Guf, con impegno, con una stupita serietà, per constatare che cosa ci fosse di vero in quello che dicevano i giornali, e quasi sempre vi si attaccavano, adibiti ai lavori più noiosi, più puntuali. [...] Vanno vestiti male, e non usciranno mai, prima della laurea, dal quartiere in cui hanno trovato la stanzetta sempre in generale intorno all'Università, nella vecchia Napoli greca dei notai, dei librai, dei negozi musicali, la Napoli di Giambattista Vico. Le ore migliori le passano alla Biblioteca Nazionale, accanto al Palazzo Reale, o in quella dell'Università. Là, nei libri che studiano e meditano con la serietà dei contadini, si sentono l'aristocrazia del mondo, non più ridicoli come nei loro abiti, o gretti e affamati come nei loro ammezzati. Alla laurea costellata di trenta si trovano spauriti, ormai fuori dall'Università, fuori spesso dal sussidio del padre dal paese, sbattuti in un mondo di gente furba e maligna che si prende gioco del loro accento e dei loro pantaloni troppo corti.»

(Antonio Ghirelli, Gli avvocati a Napoli, «Il Politecnico», n. 6 (3 nov. 1945), p. [6]).

Ginzburg - Prosperi (1975)

«Ma al Crispoldi in questo momento B. [A. e B. sono i due autori del libro] non pensava affatto. Cercava testi sull’ampiezza della misericordia di Dio. Il De amplitudine beati regni Dei del Curione lo portò al Trattato... della divina misericordia (1542) del carmelitano Marsilio Andreasi, che dello scritto del Curione era stato in un certo senso l’ispiratore. Trovò il libretto dell’Andreasi nella Biblioteca Casanatense di Roma, legato con altri due scritti anonimi: una Pratica de li sacramenti (1534) e un testo mutilo del frontespizio, il cui titolo corrente suonava Del perdonare (1537). Una rapida scorsa a quest’ultimo gli diede l’impressione di trovarsi di fronte a uno scritto importante. Chi ne era l’autore? qual era il titolo completo? quale il suo significato?»
(Carlo Ginzburg - Adriano Prosperi, Giochi di pazienza, pp. 14-15)

«Andammo nella biblioteca dell’Archiginnasio a ricontrollare le due edizioni del Compendio (marzo e giugno 1544). Risultò che la scrupolosità del Catarino era grandissima. Ogni volta che la citazione era introdotta dalle parole «dice che...», il testo confutato era citato letteralmente. Tanto più significative erano qui le diversità tra le citazioni del Compendio e i passi corrispondenti del Beneficio. A quella già emersa nella relazione se ne aggiunsero altre minori.»
(Ivi, p. 35)

«Continuammo dunque a battere archivi e biblioteche alla ricerca del proto-Beneficio. L’ipotesi era che, se questo testo era mai esistito, ne fosse rimasta una copia manoscritta. Il Kristeller segnalava nel suo Iter italicum un esemplare manoscritto del Beneficio conservato presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze: si trattava del testo dato alle stampe o del proto-Beneficio? Un controllo eseguito da A. mostrò che la prima alternativa era quella giusta. C’era poi un misterioso accenno di C. Cantù all’«originale» del Beneficio, che sarebbe stato conservato presso la Biblioteca della Minerva di Roma. Ma una ricerca compiuta da B., di questo fantomatico «originale» non diede frutto.
Provammo alla Biblioteca Palatina di Parma: i manoscritti di Ludovico Beccadelli qui conservati avevano già fornito al Bozza notizie importanti sulla prima circolazione del Beneficio. Ma non trovammo niente di rilevante al di là delle testimonianze già note. Una di queste era la lettera di un corrispondente del Beccadelli, Scipione Bianchini, datata Bologna 28 ottobre 1543, in cui si diceva: «Ho ritrovato il Beneficio di Christo stampato già la seconda volta, ma non senza qualche rumore e suspicione di novità: ve ne mando uno». Tornando stanchi e delusi da un ennesimo infruttuoso viaggio a Parma, cominciammo a discutere su come dovesse intendersi questo passo.»
(Ivi, pp. 66-67)

«Tornammo a Bologna e ci mettemmo in caccia di benedettini – e di pelagiani. Non partivamo da zero. Nel corso dell’estate A. aveva raccolto una serie di testi sul tema dell’ampiezza della misericordia di Dio; un paio d’anni prima B. aveva radunato testimonianze di un ancora fantomatico «pelagianesimo» cinquecentesco. Unificammo gli incartamenti e cercammo di estendere la ricerca, spartendoci il lavoro. A. si incaricò di fare uno spoglio dei repertori benedettini (Armellini, Ziegelbauer...); B., dello Short-Title Catalogue dei libri italiani stampati prima del 1600, conservati al British Museum di Londra. Elaborammo a tavolino una rete a maglie fitte, in grado di trattenere il maggior numero possibile di scritti apparsi in Italia tra la fine del Quattrocento e il 1570 in materia di misericordia di Dio, libero arbitrio, predestinazione e temi affini. [...]
Ancora una volta lavoravamo con strumenti estremamente grossolani. Ma in questo caso si trattava di una scelta deliberata. La natura stessa del terreno ce l’imponeva. Cataloghi adeguati mancavano nella maggior parte delle biblioteche italiane. Il materiale di cui andavamo in cerca era disperso e non studiato. L’Introduzione di don Giuseppe De Luca all’«Archivio italiano per la storia della pietà», discutibile finché si vuole, era rimasta un libro dei sogni. In questa situazione di fatto non ci rimaneva che riconoscere la nostra totale ignoranza – a patto però di rifiutare nello stesso tempo la selezione del materiale precostituita dalla storiografia che ci aveva preceduto. Anziché partire dall’idealistica «storia del problema», bisognava rifarsi alla documentazione nella sua disordinata casualità. [...]
Passando davanti ai palchetti delle cinquecentine possedute dalla biblioteca arcivescovile di Bologna, un giorno A. estrasse a caso un gruppetto di volumi, e si mise a sfogliarne uno in volgare stampato a Venezia nel 1494. S’intitolava El nobile tractato de la patientia, utilissimo ad ogni stato. [...] L’anonimo autore era il francescano Domenico Cavalca, e il Nobile tractato de la patientia era uno dei suoi scritti più noti e diffusi. Se fosse partito dal vecchio (e ancora non sostituito) catalogo ottocentesco della biblioteca, dove il testo era debitamente registrato sotto il nome del Cavalca, A. non sarebbe caduto in questo grossolano errore. [...]
In una miscellanea di catechismi della Biblioteca Vaticana, B. trovò legato un Ricordo di fare il transito felice della morte, che concludeva il confessionale del minorita milanese Francesco da Mozzanica (1510). Anche qui si parlava di disperazione, di misericordia di Dio: [...]
Ma un testo come il Libro devotissimo della misericordia de Dio (1525) andava ancora più in là». B. aveva trovato anche questo nella Biblioteca Vaticana, frugando il catalogo alla voce «Libro» – ovvia per una ricerca su testi anonimi di pietà in volgare.»
(Ivi, pp. 124-126)

«Ma insomma, era significativo che di predestinazione si parlasse in quegli anni, non solo in ambito filosofico tecnico, ma anche in testi volgari di carattere letterario o addirittura edificante. Era il caso di uno scritto come L’heremita, overo della predestinatione, di Marco Mantova Benavides. B. ci arrivò attraverso un errore del catalogo della biblioteca dell’Archiginnasio. Stava passando in rassegna tutti i «Marco» per rintracciare un Marco da Brescia benedettino saltato fuori dal repertorio dell’Armellini. L’heremita figurava come opera di «Marco da Mantova» – mentre tutti gli altri scritti del Mantova Benavides erano catalogati correttamente sotto «Benavides».»
(Ivi, p. 129)

«In confronto a questo linguaggio e a queste preoccupazioni umanistiche in tema di predestinazione, un testo come Uno libretto volgare con la dechiaratione de li dieci comandamenti, del Credo, del Pater Noster, con una breve annotatione del vivere christiano... (1525), segnava uno stacco nettissimo. A. lo aveva trovato, qualche anno prima, nel fondo Guicciardini della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, durante una ricerca sui catechismi cinquecenteschi.»
(Ivi, p. 131)

«Le complicate vicende che portarono alla stampa del De libero hominis arbitrio del benedettino bresciano Gregorio Bornato sembravano confermare l’ipotesi di un clima misto di censura e autocensura all’interno della congregazione cassinese. Il titolo, insieme al mero nome dell’autore, erano saltati fuori dalla lettura dello Short-Title Catalogue, con una data di stampa (1571) che esorbitava, sia pure di poco, dai limiti cronologici che ci eravamo prefissi. Un controllo diretto dell’opera, sulla copia conservata nella Biblioteca dell’Archiginnasio, riservò due sorprese: lo scritto risaliva a una generazione prima, e il suo autore era un benedettino bresciano.»
(Ivi, p. 143)

«Ma il tentativo di delineare un filone benedettino nell’ambito delle discussioni sulla grazia e il libero arbitrio non deve nascondere il fatto che a questa data – 1540 – esse coinvolgevano ambienti molto più ampi. L’anno prima, per esempio, era stato stampato a Genova un Dyalogo del maestro e del discepolo del cappuccino Antonio da Pinerolo, ristampato a Firenze nel 1543. Sfogliando il catalogo della Biblioteca Universitaria di Bologna alla voce «dialogo», A. trovò per l’appunto questa seconda edizione (la prima risultò irreperibile). [...]
Cercavamo il bosco, e c’eravamo dentro, proprio nel fitto. Di tutti gli alberi in cui ci eravamo imbattuti, il Dyalogo del maestro e del discepolo era – al di là delle differenze, riconducibili ai rispettivi generi letterari – quello più simile al Beneficio. Ma quanti altri ce n’erano, nascosti nelle biblioteche?»
(Ivi, pp. 153-155)

«Per tutto l’autunno avevamo continuato a lavorare in biblioteca raccogliendo testi; nel gennaio (1973) decidemmo di fare un’ulteriore spedizione archivistica. Il punto di partenza era questo. Un paio d’anni prima B. aveva trovato, sfogliando il catalogo della Biblioteca Nazionale di Roma alla voce «trattato», un Tratatto (!) della elettione et degli eletti di Dio mandato al Rev.mo Carl di Mantova alli XXIII di genaro 1546 (segnatura: 71.2.E.17[2]). Si trattava di un manoscritto anonimo, legato con una Corona beate Marie Virginis a stampa, priva di indicazione di luogo e di data.»
(Ivi, p. 164)

«La stesura dell’articolo era ormai quasi finita. Tuttavia, l’esito positivo del viaggio a Mantova ci indusse a tentare qualche ulteriore sondaggio in archivi e biblioteche. A Milano, tra le carte di Carlo Borromeo conservate alla Biblioteca Ambrosiana, cercammo altre testimonianze sulla repressione (già studiata da D. Maselli) della «setta giorgiana» nella congregazione cassinese attorno al 1568. Ma non emerse niente di nuovo [...] A questo punto B. tornò alla carica con il Trattato della elettione, il cui autore rimaneva nonostante tutto anonimo. B. tentò il colpo grosso: e se fosse stato Benedetto Fontanini? [...] Ancora una volta, si poteva far leva sulle aggiunte marginali, presumibilmente di pugno dell’autore, del Trattato della elettione, e confrontarle con gli autografi rimasti di Don Benedetto. Il Caponetto, nella raccolta di documenti posta in appendice alla sua edizione del Beneficio, ne elencava tre, tutti dell’anno 1545, tratti da un registro di atti amministrativi di Santa Maria di Pomposa conservato alla Biblioteca Ariostea di Ferrara. Il Menegazzo, che li aveva scoperti, notava che, rispetto alle altre pagine del fascicolo, queste apparivano vergate da una persona di cultura. L’edizione del Caponetto non comprendeva una riproduzione in facsimile di questi autografi, ma la prospettiva di recuperare all’autore del Beneficio uno scritto tutto e soltanto suo valeva bene un viaggio a Ferrara. Qui il direttore dell’Ariostea, Luciano Capra, distrusse con molta gentilezza le avventate speranze di B. Le due mani apparivano diverse: il Trattato della elettione continuava a rimanere senza autore e don Benedetto l’autore di un unico (o meglio di mezzo) libro.»
(Ivi, pp. 176-177)

Ginzburg, Carlo (1995)

«Ricordi il tuo primo incontro con la biblioteca?
Vengo da una famiglia che per mestiere, per lavoro, aveva a che fare con i libri. In realtà mi sono trovato a crescere in mezzo ai libri. La mia familiarità con i libri affonda [le] sue radici nell'infanzia, quasi. Anche quando eravamo al confino, quindi nel periodo al quale risalgono i miei ricordi primi – eravamo vicino all'Aquila –, avevamo a disposizione un nucleo di libri, probabilmente non molti. Poi, della casa di Torino, ricordo i libri di mio padre, che adesso sono in parte nella mia biblioteca, e quelli di mia madre; quindi c'è questo elemento, diciamo, di continuità familiare, come uno che fa il falegname in un ambiente di falegnami. Cercando di ricordare invece la prima biblioteca pubblica in cui sono entrato, probabilmente al liceo mi sarà capitato di andare una volta, ma per un momento, alla Biblioteca nazionale, a Roma. Ma il momento in cui ho veramente cominciato a usare i libri non è stato al liceo, bensì all'università. Diciamo la verità, una volta non si usava tanto fare ricerche in biblioteca, io credo di non averne mai fatte, quindi è stato proprio all'università, cioè a Pisa, che ho cominciato a frequentare le biblioteche e si trattava pertanto di biblioteche pisane, la Biblioteca della Scuola normale, e la Biblioteca universitaria.

[...] Che cosa si aspetta Carlo Ginzburg dalle biblioteche e in particolare da quelle di ricerca?
Devo dire che ho una esperienza varia di biblioteche, come è abbastanza ovvio per uno che fa il mio mestiere e, dato che negli ultimi anni ho insegnato per sei mesi all'anno a Los Angeles, e già prima, da alcuni anni, mi era capitato di recarmi in America, ho un'esperienza abbastanza continuata anche di biblioteche americane. In fatto di biblioteche i miei gusti sono estremamente larghi, nel senso che, ad esempio, io che pure ho grande riluttanza nei confronti di tutto quel che è tecnologia – sono, per dirne una, un pessimo guidatore di automobili – ho imparato ad apprezzare le delizie del catalogo computerizzato di Ucla, un sistema che si chiama Orion. Nello stesso tempo mi sono battuto, perdendo la mia battaglia, per la conservazione del catalogo a schede: vi si trovano delle informazioni che pare siano andate distrutte. Una volta uno studente mi ha spiegato, cosa magari banalissima, che un catalogo computerizzato, specialmente se usato in modo improprio, permette di ottenere dal computer risposte che in teoria esso non sarebbe in grado di dare, e allora trovo che la combinazione di catalogo computerizzato e accesso diretto ai libri ("open stacks library") sia formidabile: è una cosa che fa progredire la ricerca con una velocità straordinaria, è come avere lo stivale delle sette leghe. Nello stesso tempo io amo moltissimo una biblioteca come l'Angelica, in cui c'è, perché lì per fortuna l'han tenuto, quel magnifico catalogo settecentesco e una classificazione per materie di per sé straordinaria, che indubbiamente non potrebbe essere sostituita se non con un danno, cioè con una perdita di informazioni, da una sistemazione di carattere diverso. Io in qualche modo sarei per conservare tutte le sistemazioni, nel senso che conserverei tutti gli stadi storici della catalogazione e della classificazione dei libri nelle biblioteche, trovando, beninteso, dei compromessi a livello pratico. Qualche volta ho l'impressione che il progresso tecnologico tenda a far fare dei passi avanti, ma anche a perdere delle informazioni. Vorrei far osservare una cosa curiosa: da tempo, direi da sempre, o forse dai tempi di Aristotele, che pure padroneggiava apparentemente tutto lo scibile, c'è una sproporzione fra il singolo ricercatore e la massa delle informazioni. All'entrata di ogni biblioteca dovrebbe essere scritto: "Ars longa, vita brevis". Si tratta di una sproporzione necessaria. [...]

Esiste la biblioteca "ideale" di Carlo Ginzburg?
La biblioteca ideale per me rimane la British Library, certo nella sua forma attuale destinata a scomparire, quella forma straordinaria – è un peccato che si perda – la cui forza è rappresentata dai suoi cataloghi straordinari. In America, una biblioteca che amo particolarmente, che ha, tra l'altro, il vantaggio degli "open stacks", è una biblioteca dell'Università di Chicago, la "Joseph Regenstein". Anche quella di Ucla, dove sono abituato a lavorare, è una biblioteca eccellente.

Sbaglio, o ti piacciono le biblioteche di grandi dimensioni?
[...] Ho una visione, starei per dire dongiovannesca delle biblioteche, perché in fondo, come a Don Giovanni piacevano tutte le donne, a me piacciono tutte le biblioteche, nel senso che anche la biblioteca più brutta ha degli elementi di fascino e può riserbare una prospettiva di ricerca imprevedibile, un incontro con un libro che non si conosce.

Quali sono gli elementi che ti creano disturbo, delusione nelle biblioteche italiane?
Molto semplice: la maleducazione dei lettori, molto diffusa, e la maleducazione, certo molto più rara, o la scarsa collaborazione dei bibliotecari. Capita ancora di incontrare dei bibliotecari che vedono i lettori come scocciatori; mi pare di poter dire che negli archivi italiani questo non succede.

Cosa ti piace di più nelle biblioteche americane?
Gli scaffali aperti sono una grande risorsa, solo in parte sostituiti in Italia dalle sale di consultazione, che sono un'altra cosa. Ad esempio la Biblioteca Vaticana aveva una bellissima sala di consultazione, ce l'ha ancora, ma gli eccessivi "svecchiamenti", secondo l'idea in parte erronea che i libri più recenti sostituiscano i vecchi, purtroppo tendono a peggiorare la qualità dei vecchi apparati di consultazione. Maggior rispetto per i libri, scaffale aperto e cataloghi computerizzati, questi tre elementi combinati insieme in parte giustificano la buona fama delle biblioteche americane.»

(Rino Pensato, "E v’han libri d'ogni grado / D'ogni forma, d'ogni età", p. 42-45).

Carlo Ginzburg ha approfondito l'esperienza di utente della UCLA Library di Los Angeles e del suo catalogo nel saggio: Conversare con Orion, «Quaderni storici», 36, n. 3 (dicembre 2001), p. 905-913.

Ginzburg, Carlo (2001)

«Orion (pronunciato all’inglese, Oraion) è il nome del programma su cui si basa il catalogo on-line della Research Library della University of California at Los Angeles (UCLA). Per estensione, Orion – oggi sostituito da una versione che pretende di essere più progredita, Orion 2 – ha finito col designare il catalogo stesso. In fatto d’informatica sono purtroppo un analfabeta. L’uso di Orion di cui parlerò si basa su pochi comandi elementari, forse usati in maniera impropria. Dico «forse», perché ho l’impressione che i cataloghi di una biblioteca (e quelli elettronici non fanno eccezione) siano stati pensati, da sempre, per permettere a coloro che li usano di trovare quello che cercano. Anch’io li uso così. Ma li uso anche molto spesso per uno scopo diverso, se non opposto: trovare ciò che non cerco affatto, anzi ciò di cui non sospetto nemmeno l’esistenza.
[...] Ignoro quanti studiosi passino una parte considerevole del loro tempo girovagando a caso nei cataloghi, elettronici o cartacei, delle biblioteche. Ma dato che faccio parte di questo gruppo, piccolo o grande che sia, proverò a spiegare le implicazioni e i possibili vantaggi di questo modo di procedere. [...]
Tre anni fa ho scritto un saggio su Voltaire che sarà presto pubblicato (Blacks, Jews, and Animals: Voltaire and the Eighteenth-Century Origins of Multiculturalism). Nel corso della ricerca provai a fare un piccolo esperimento. Scelsi un passo a caso, collocato quasi all’inizio del Traité de métaphysique di Voltaire. [...]
Per Voltaire e per i suoi lettori ogni parola di questo passo s’inseriva in una rete di riferimenti e di associazioni che ci è nota solo imperfettamente. Forse – pensai – il catalogo on-line della biblioteca di UCLA avrebbe potuto aiutarmi a identificare, per lo meno in via congetturale, qualche elemento meno noto di questa rete. Decisi di circoscrivere la ricerca partendo da un nome proprio, più precisamente dal nome proprio meno banale tra quelli ricorrenti nel passo: Cafrerie [...] Chiesi a Orion «fnt Cafrerie» e «fkw Cafrerie», ossia: cerca quali libri nel catalogo di UCLA presentino la parola «Cafrerie», sia nel titolo sia come nome d’autore (le sigle significano «find name and title», «find keywords»). In entrambi i casi la risposta fu: nessuno. Riprovai con la parola «Cafres». Sullo schermo apparvero 13 risultati. Quello più antico dal punto di vista cronologico era Jean-Pierre Purry, Mémoire sur le Pais des Cafres, et la Terre de Nuyts, par raport à l’utilité que la Compagnie des Indes Orientales en pourroit retirer pour son Commerce, Amsterdam 1718. Il titolo m’incuriosì, l’autore mi era perfettamente sconosciuto. Cercai il libro tra gli scaffali: si trattava di una fotocopia dell’edizione originale, legata con un altro testo, anch’esso in fotocopia, dello stesso autore, intitolato Second Mémoire sur le Pais des Cafres, et la Terre de Nuyts, Amsterdam 1718. Scorrendo le pagine del libro pensai che l’autore, senza dubbio un fautore dell’espansione coloniale europea, e quasi certamente un protestante, sarebbe stato un test ideale per la tesi di Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Dalla comparsa del titolo del primo Mémoire sullo schermo di Orion saranno passati sì e no dieci minuti. Sono tornato a Voltaire. La possibilità che Voltaire potesse aver letto Purry mi era passata di mente. Non vedevo l’ora di mettermi a lavorare su Purry. La ricerca su di lui è andata avanti: un primo resoconto è uscito da poco, negli atti di un convegno sulla globalizzazione tenutosi a Istanbul. Sto lavorando a una versione più ampia, che spero diventi un breve libro.
[...] Il vagabondaggio dello storico attraverso i cataloghi (elettronici o cartacei) non è troppo diverso da quello di un fotografo che cammini per una città pronto ad afferrare in un’istantanea una realtà contingente e fuggevole. [...] E in ogni caso al riconoscimento di un tema di ricerca promettente (l’istantanea) deve necessariamente seguire il film: fuor di metafora, la ricerca.»

(Carlo Ginzburg, Conversare con Orion, pp. 905-908, 912)

Ginzburg, Natalia (1961)

«La zia Ottavia aveva una guancia rossa e l'altra pallida, come sempre quando s'addormenta in poltrona vicino alla stufa, con un libro della biblioteca «Selecta». [...] [p. 5]

Vado in città circa due volte la settimana, con una scusa o con l'altra: cambiare i libri alla biblioteca «Selecta», per la zia Ottavia; comprare, per mia madre, le matassine da ricamo e i biscotti d'avena; comprare, per mio padre, uno speciale tabacco da pipa di marca inglese.
Vado, di solito, con l'autobus, che parte a mezzogiorno e mezzo dalla piazza; e scendo in città a corso Piacenza, a due passi da via dello Statuto, dove c'è la biblioteca «Selecta». [...] [p. 16-17]

Ci incontriamo, il Tommasino e io, tutti i mercoledì in città.
Mi aspetta davanti alla biblioteca «Selecta». È là, col suo cappotto vecchio, un po' liso, con le mani in tasca, appoggiato al muro.
Mi saluta, portandosi la mano alla fronte e staccandola, con molle sussiego.
Ci vediamo solo in città. Al paese, evitiamo d'incontrarci. Lui vuole così.
E sono ormai mesi e mesi che ci incontriamo così, il mercoledì, sovente anche il sabato, a quell'angolo di strada; e facciamo sempre le stesse cose, cambiamo i libri alla biblioteca «Selecta», compriamo i biscotti d'avena, compriamo, per mia madre, quindici centimetri di gros-grain nero.
E andiamo in una stanza, che lui affitta, in via Gorizia, all'ultimo piano. [...] [p. 64]

Ora camminavamo giù per il sentiero. Reggevo nella rete i libri della biblioteca «Selecta», rilegati in azzurro. [...] [p. 70]

Camminavo, e mi veniva dietro; camminavo a caso, dondolando la rete coi libri.
– Dammi la rete, – disse, – te la porto io. Almeno potevamo lasciarla dal portiere di via Gorizia, questa maledetta rete. Non è stufa di leggere tanti romanzi, tua nonna?
– Non è mia nonna, – dissi, – è mia zia.
– Zia o nonna, – disse, – quello che è.
– Sai benissimo che è mia zia, – dissi. – Sei preciso come un impiegato del catasto, e hai una diabolica memoria. Hai detto così per farmi male.
– È vero, – disse, e rise. – Lo so che non è tua nonna, è tua zia. L'ho detto per rabbia, perché ho aspettato, e non mi piace aspettare.
– L'ho preso in odio, quel portoncino della biblioteca «Selecta», mentre ti aspettavo, – disse.
– Avevo paura, – disse, – che ti fosse successo qualcosa. Che stessi male, o che si fosse rovesciato l'autobus. [...] [p. 72]

Ero rientrata appena; e mangiavo, seduta al tavolo di cucina. Mia madre vuotava la rete sul tavolo, tirava fuori uno per uno i libri della «Selecta», guardava il frontespizio increspando le labbra.
– «La gatta sul tetto che scotta», – lesse. – Oh, povera bestia.
– E dov'è il lievito di birra? – disse. – Te ne sei scordata? [...] [p. 73]

– Anche la Schiuma d'Angelo, – disse la zia Ottavia, – non è altro che lievito di birra.
Era entrata, e s'era seduta in un angolo, sulle ginocchia i libri rilegati in azzurro.
– Lievito di birra, la Schiuma d'Angelo? ma sei matta, – disse mia madre.
– Andavano bene i libri che abbiamo preso? – disse il Tommasino.
– Ah ma siete stati insieme anche alla «Selecta»? – disse mia madre. – È una buona biblioteca, la «Selecta», si trova di tutto, anche romanzi stranieri. Mia sorella legge tanto, io non posso, non ne ho il tempo, sono troppo occupata con la casa, non sto mai ferma un minuto. E poi ho troppi pensieri, troppi dispiaceri, non riesco a perdermi in un romanzo. [...]
Disse: – Ci sono tante cose tristi nella vita. Perché leggere romanzi? Non è un romanzo, la vita? [...] [p. 75]

– Che bel giovane, – disse la zia Ottavia.
– Bello, sì. Dei figli del Balotta, è sempre stato il più bello, – disse mia madre.
Disse: – Ma com'è che t'è venuto in testa di portartelo dietro alla «Selecta»? [...] [p. 77]

– E così ora non sarà più bello nemmeno venire qui, – dissi. – Ora che ci siamo trovati là insieme, a casa mia, con i miei genitori, [...] mi sembra che non mi piacerà più trovarmi con te, qui, in questa stanza, e neppure cambiare con te i libri alla «Selecta», e neppure passeggiare con te al parco.» [p. 84]

(Natalia Ginzburg, Le voci della sera, romanzo, 1961. Anche se luoghi e nomi non corrispondono a luoghi e nomi reali, i brani riportati sono probabilmente ispirati alla conoscenza diretta di una biblioteca circolante commerciale di Torino)

Ginzburg, Natalia (1963)

«Un matrimonio in provincia: romanzo della marchesa Colombi, uscito nel 1886, letto da me nel 1928 (se ricordo bene), sconosciuto a tutti, introvabile oggi in ogni libreria italiana, rintracciabile solo in qualche biblioteca. Durante la guerra, io lo mandai da leggere a Pietro Pancrazi, avendolo preso a prestito da Vieusseux (la mia copia, comprata appunto forse nel 1928 da mia madre su una bancarella di libri vecchi e foderata in carta da droghiere, l’ho perduta). Pancrazi lo giudicò grazioso: ma non abbastanza significativo da acconsentire a ristamparlo nella collana di Le Monnier.»

(Natalia Ginzburg, Ignora il conformismo la marchesa Colombi, «Il giorno», 4 dicembre 1963. Cfr. Breviario di uno scrittore: scritti, lettere e pareri editoriali (1944-1966), a cura di Domenico Scarpa, «Autografo», n. 58 (2017), p. 67-198: 175).

Ginzburg, Natalia (1973)

«Cara mamma,
Ti ringrazio delle tue lettere. Ti scrivo in fretta perché lascio il Sussex e parto per Leeds con una ragazza che ho conosciuto qui. [...]
Io a Leeds non so ancora dove starò, ma puoi mandarmi i soldi presso la madre di questa ragazza, di cui ti accludo l’indirizzo in fondo. Allo stesso indirizzo, mandami per piacere I Prolegomeni di Kant. Anche questo lo vorrei con una certa urgenza. Lo trovi nello scantinato. Qui esiste, ma in inglese, e io lo trovo già difficile in italiano. Si troverà forse in biblioteca, ma io non sono amico delle biblioteche. Grazie.»

(Natalia Ginzburg, Caro Michele, p. 97-98).

Giolitti (1922)

«Nei cinque anni che passai al Ministero di Grazia e Giustizia ed al Gabinetto del Ministro, oltre il lavoro ordinario, io fui occupato più specialmente a raccogliere elementi e materiali per la grande Commissione, nominata da Miglietti, che preparava la compilazione del Codice Civile. Avevo a mia disposizione la biblioteca, con tutti i principali autori italiani e forestieri; e quel lavoro e quello studio servirono assai a formarmi una cultura giuridica, che mi fu poi sempre di grande aiuto. Il Governo era in quegli anni passato a Firenze, ed io l'avevo seguito, essendo sempre addetto alla Segreteria Generale.»

(Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, vol. 1, p. 12)

Girardon (1910a)

«La Biblioteca Marciana
Sono passati circa cinque anni, dacchè la Biblioteca Marciana venne trasportata nel vecchio Palazzo della Zecca, a specchio della laguna, come Petrarca l’avea immaginata. Il [Carlo] Frati, bibliotecario successo al [Salomone] Morpurgo, l’ha benissimo riordinata. Egli ha sistemato i cataloghi a casellario, correggendo e fondendo le precedenti a volumi e schede Staderini, ponendo i cataloghi in sala di lettura; ha diviso gli incunaboli veneziani dai non veneziani; ha sceverato i completi dagli incompleti. Occorrerebbero ancora restauri a libri rovinati, ma mancano abili restauratori. La suppellettile libraria è vastissima e proviene da fonti diversissime: da conventi soppressi, da biblioteche lasciate in eredità, da acquisti. Negli ultimi tre anni sono entrati alla Marciana 20000 volumi. Naturalmente l’arte e l’arte veneta in modo speciale, la letteratura e storia, e quelle venete in modo particolare, sono state le categorie preferite. Non mancano però le principali opere dei grandi filosofi, ma certo v’è una soverchia preponderanza di opere di erudizione e filologia. Molto giustamente si è severi nella compera di romanzi e di poesie: ma purtroppo ci si attiene un po’ al criterio degli autori arrivati alla fama e se ne comperano le ultime opere spesso non le migliori. Vi sono eccezioni e diseguaglianze curiose: per esempio, tutto Maupassant e soltanto tre o quattro volumi di Balzac. Ma l’opera amorosa del Frati è sempre da lodare, data soprattutto la scarsa dotazione di 20000 lire.

Il concorso del pubblico
Il concorso dei lettori, e soprattutto dei lettori locali non è proporzionato all’importanza della Marciana: esso è inferiore a quello di altre biblioteche d’entità senza confronto minore.
La media giornaliera dei visitatori è di circa un centinaio nel periodo invernale, e di una cinquantina nel periodo estivo: l’affluenza aumenta nei mesi di primavera e prima estate quando in Venezia si riversa il mondo cosmopolita. Frequentate sono le sale riservate. Vero è che tra i lettori [...] molti curiosi e semi-oziosi [...] l’Indicatore generale per trascrivere indirizzi, di riviste illustrate di carattere popolare o di libri di frivolo argomento, ma questi individui si tende costantemente ad allontanarli col rifiutare loro le opere o col non ammetterli addirittura alle sale: in questo numero sono dei giovani frequentatori di ginnasi e di scuole tecniche che verrebbero a meditare sul Baffo e sul Casanova. Il numero delle opere date in prestito in città in uno degli ultimi anni (scelgo la cifra più alta) è di circa 2000 libri: pochini se si considera che la città ha circa 200.000 abitanti, e che molti libri sono richiesti da forestieri; molte opere sono prestate fuori della città.
Le letture sono ecletticissime, soprattutto di materia letteraria e artistica, poco la critica, poco le scienze sociali e giuridiche, pochissimo le filosofiche. Nelle lettere: letterature antiche e classiche e la ricca produzione moderna nazionale e forestiera; nell’arte: testi e monografie artistiche, italiani, francesi, tedeschi, inglesi: adorato il Ruskin! scarse le letture di buona poesia. Faccio alcuni nomi degli scrittori più letti: Hugo, Zola, Maupassant, Flaubert, France, Bourget, Taine, D’Annunzio, Fogazzaro, Verga, Serao, Baretti, Neera, Deledda, Butti, Tolstoi, Gorki, Ibsen, Suderman, Dostoyewski, Goethe, Pascal, Carlyle, Nietzsche, Marx, Barzini, Negri, Pascoli, Panzacchi, Stecchetti, Luzio, Abba, Del Lungo, Castelnuovo Enrico, Carducci, Graf, Ojetti, De Amicis, Manzoni ecc. Come ho detto scarsissime le letture filosofiche: su 20.000 richieste solo una settantina saranno di scienze speculative che metafisica vera. Predominante la lettura dei positivisti, e prescelti Spencer e Ardigò. Qualche rarissima avis, professore di liceo o libero studioso, consulta il Kant, l’Hegel, lo Spinoza ecc. nella collezione curata dal Croce.
Le riviste: molte, oltre cento cinquanta, ma poche le importanti. Pochi i desiderata e s’aggirano per lo più su libri di storia, di grammatica, di giurisdizione, di linguistica, di arte, di sociologia: ci si sente spesso lo zampino degli insegnanti. Di filosofia solo due libri in 20 anni (!) e richiesti anche da un pastore evangelico tedesco! Povera e nuda...».
(Mario Girardon, Venezia. II, «La Voce», 2, n. 32 (21 luglio 1910), p. 363-364: 363)

Girardon (1910b)

«La Fondazione Querini Stampalia
Sorta per legato del conte Giovanni Querini-Stampalia († 1869), ha per obbligo testamentario la pubblica beneficenza e la diffusione del sapere tra le persone studiose. Oltre una grossa borsa di studio di 10000 per un giovane veneto, un sussidio di 3000 lire all’«Istituto veneto di scienze ed arti» ha aperta una biblioteca nei sontuosi locali del Palazzo Querini.
Avversata dalla fortuna per molto tempo, la Querini risorge ora a vita novella, più che per opera del Consiglio di Curatela, per le utili iniziative del suo nuovo bibliotecario Arnaldo Segarizzi.
Il fondo primo è costituito dalle 8000 opere della vecchia biblioteca Querini e da alcune migliaia di opuscoli e da oltre mille manoscritti.
E di recente fu riordinata tutta la mole libraria, curando la revisione dei manoscritti, il raggruppamento degli incunaboli e delle aldine, aprendo per gli studiosi una sala di consultazione, che raccoglie opere: di carattere generale, di filosofia e teologia, giurisprudenza e sociologia, letteratura, storia e geografia, belle arti, scienze pure e applicate, tecnologia e sezione veneta riunendo le collezioni, le opere in continuazione, i periodici gli atti accademici e miscellanee in sezione propria, non trascurando le stampe e le carte geografiche importanti e i duplicati, in forte numero alla Querini, dividendo infine la biblioteca in due parti: antica e moderna. Così agli studiosi saranno presto adibite le compilazioni di cataloghi speciali di raccolte e di stampati e gli inventari dei manoscritti. Da poco è stato iniziato un catalogo reale superiore praticamente all’altro sistematico.
In quanto ai nuovi acquisti (sono 10000 lire annue da spendere) considerato che le discipline storiche e letterarie, le artistiche e le scienze pure, trovano ricetto in altre istituzioni cittadine, alla Querini si è badato di aiutare le scienze applicate, cioè l’ingegneria, il commercio, la giurisprudenza, ecc. anche per riempire le lacune della specializzazione di certi studi intensivi moderni, che in un centro come Venezia non devono mancare: da questo lato si può dire che questa biblioteca integri e completi la Marciana. Un tale criterio fu seguito anche pei periodici, quasi in numero di 200 (una trentina sono in comune colla Marciana) italiani, tedeschi, francesi, inglesi, spagnuoli scelti con raro acume, eleggendo sempre le pubblicazioni che offrono risultati o conclusioni di studi sulle materie suaccennate. Infatti vi sono 15 riviste di diritto, una diecina per la medicina, una diecina per l’ingegneria, scienze delle costruzioni, architettura, una diecina per l’arti decorative e una diecina per l’amministrazione, le quali tutte interessano i soli professionisti.

Il concorso del pubblico
La Queriniana possedendo più che altro scienze tecniche è ben naturale che vi sieno vuoti spaventosi in filosofia, religione, in morale e in generale tutto ciò che riguarda le scienze del pensiero: la maggior parte dei frequentatori – quasi nella stessa media della Marciana – sono perciò avvocati, medici, architetti, ingegneri che esaminano i periodici attinenti alle loro arti e professioni. Come la biblioteca è aperta dalle 15 alle 23 (completando l’orario diurno della Marciana) vi concorrono giovani delle scuole medie dai sedici anni in su, i quali, e non sono i soli, vanno ricercando le riviste e i periodici, largamente usati alla Querini, per quanto si sia cercato di togliere alla biblioteca quel suo primitivo aspetto di gabinetto di lettura. In generale le letture vertono, per quanto è concesso dal materiale romantico e letterario, sugli stessi autori che abbiamo visto alla Marciana: molte letture si fanno sulle scienze positive, quasi niente sulla filosofia e religione, parecchio sulla storia, ma più sulle monografie e i documenti e curiosità storiche che sui testi di idee e di pensiero: le altre sono riservate alle scienze tecniche, giuridiche, amministrative e alle solite critiche e storie d’arte. Confortante il fatto che, diminuendo il numero dei lettori, cresce la richiesta delle opere serie. Non sarebbe il caso di aprire una sezione riservata alle letture filosofiche?».
(Mario Girardon, Venezia. II, «La Voce», 2, n. 32 (21 luglio 1910), p. 363-364: 363)

Gnoli-D'Ancona (1877)

«È venuto il momento in cui mi farebbe assai comodo d'avere quel ms. contenente Sonetti Romaneschi, che mi diceste aver veduto nella Biblioteca di Weimar. Voi mi faceste in proposito delle gentili offerte. Vi prego pertanto d'ajutarmi o d'istruirmi perché io possa ottenere il mio intento: e anticipatamente vi ringrazio.»
(Domenico Gnoli, lettera a Alessandro D'Ancona, Porto d'Anzio 24 ago. [18]77, p. 33).

«Scrivendo a Weimar mi farò dar notizia dì quel poeta romano della fine del secolo passato, del quale già vi parlai, e vi comunicherò la risposta.»
(D'Ancona, lettera a Gnoli, [Pisa ago./set. 1877], p. 34).

«[Gaetano] Ferrajoli e [Ernesto] Monaci mi dissero che avevate scritto in Germania pel ms°. da me desiderato, e ve ne ringrazio. Scusatemi se torno a infastidirvi: vorrei sapere se vi hanno risposto e che cosa, se o quando potrò averlo. Mi servirebbe per un lavoretto che tengo sospeso, aspettando.»
(Gnoli, lettera a D'Ancona, Roma 21 ott. [18]77, p. 35).

«Stavo appunto pensando che il vostro silenzio era un po' strano, avendo io scritto a voi dal 20 dello scorso mese, cioè immediatamente dopo avuta risposta da Weimar. Forse la cartolina andò smarrita per mancanza di indirizzo, da me allora ignorato. La risposta è questa. Dirigetevi a Weimar al Dr. Scholl come Oberbibliothekar, chiedendogli i codd. Q. 594, e Q. 595, contenenti B. Micchele, Poesie in lingua romanesca e La Libbertà romana acquistata e difesa; lo Scholl al quale siete noto come autore degli Amori ecc. posseduti dalla Biblioteca, officierà il Ministero perché il prestito vi sia concesso. Voi dovrete dire quanto terrete i manoscritti.
Duolmi che per colpa non mia il vostro lavoro sia incagliato.»
(D'Ancona, cartolina a Gnoli, [Pisa 23 ott. 1877], p. 36. L'archeologo Gustav Adolf Schöll (1805-1882) diresse la Biblioteca Ducale di Weimar dal 1861 al 1880).

«Ricevetti la vostra seconda Cartolina, ma non la prima. Ho scritto all'Oberbibliot., e aspetto risposta. [...] Intanto vi ringrazio.»
(Gnoli, cartolina a D'Ancona, Roma 7 nov. [18]77, p. 37).

Gnoli-D'Ancona (1880-1912)

«Io vorrei incominciare il mio corso [all'Università di Torino] coll'anno nuovo, ma aspetto in proposito una lettera del Lessona. Se egli mi dice d'andar prima, comincerò col Decembre; altrimenti profitterò di quel mese per studiare nella Vaticana i mss. del Mazzucchelli.»
(Domenico Gnoli, lettera a Alessandro D'Ancona, Roma 16 nov. [18]80, p. 90).

«Il libro ti è stato richiesto in seguito a insistenti istanze di lettori, che lo ricercano per apparecchiare le prossime feste carnevalesche. A Quaresima non servirebbe più. Se proprio ti serve, è giusto che tu abbi la preferenza. Se poi potessi tu riprenderlo a Quaresima, sarebbero contentati tutti. L'altro libro ti è stato richiesto... ma coll'indirizzo della locanda dove tu eri qui in Roma, e che scrivesti nella scheda di richiesta. Lo rimanderai appena ti sarà servito.»
(Gnoli, cartolina a D'Ancona, Roma 29 gen. [18]85, p. 133. Dall'ottobre 1881 Gnoli era diventato prefetto della Biblioteca nazionale di Roma. Non risulta quali fossero i due libri che D'Ancona aveva in prestito).

«Il libro da te desiderato non esiste né in questa biblioteca, né all'Angelica, né alla Vallicelliana. Cioè, in questa biblioteca c'è qualche cosa di simile. Il titolo è: Historia de' santi devotis/simi Pietro e Paulo Apostoli di Christo / Con il loro martirio et morte / Et come furono trovati li loro beatissimi Corpi / in un pozzo. A questa intitolazione seguono le figure silografiche di S. Pietro e S. Paolo, e immediatamente cominciano le 30 ottave che compongo[no] l'Historia. L'opuscolo non ha note tipografiche; ma l'edizione è certamente della seconda metà del sec. XVI.
Non ho ancora risposta dalla Casanatense né dalla Corsiniana. Se ci sarà qualche cosa, subito te la comunicherò.»
(Gnoli, lettera a D'Ancona, Roma 6 lug. [18]87, p. 139. Non è conservata la richiesta d'informazioni di D'Ancona).

«Non ti disperare nell'idea che in Italia non si possa lavorare per mancanza di sussidi. L'edizione da te desiderata è segnata épuisé nel catalogo del Vievrey. Detti subito l'ordinazione, ma bisogna trovarla. Intanto, per mostrarti il mio zelo, e nella speranza che ti servisse a qualche cosa, t'avevo mandato l'altra. La mia colpa non è che questa. Appena si trovi l'edizione che tu desideri, l'acquisterò e te la manderò; e se tu potessi ajutarmi nella ricerca, tanto meglio.»
(Gnoli, cartolina a D'Ancona, Roma 9 dic. [18]87, p. 140. Anche in questo caso non vi sono altre informazioni sul libro desiderato).

«Il codice che tu dici lo sta studiando il prof. Monaci il quale appena compiuto il suo studio ne darà un resoconto. Egli è qui, e vi resterà tutto il mese, ma fa delle escursioni a Roma appunto a causa di quel codice.»
(Gnoli, cartolina a D'Ancona, Anzio 3 set. [18]89, p. 141. Non vi sono altre informazioni sul manoscritto).

«Se io mandassi la tua dimanda al Ministero, son sicuro che me la rimanderebbe, come ha fatto per altre, per farla rifare in cartabollata, dovendosi restaurare, come sai, la finanza italiana. Per non perder tempo, mandamela in carta bollata da una lira, diretta al Ministro; io la manderò subito col voto favorevole. [...]
Il titolo del Codice è - Laude - Ms. V. Emanuele 349 (Vendita Morbio. Cat. n.° 99).»
(Gnoli, lettera a D'Ancona, Roma 28 feb. [18]90, p. 150. L'autorizzazione del Ministero era necessaria per l'invio in prestito di un manoscritto).

«Ricevo adesso la tua seconda cartolina. Hai mille ragioni. Jeri tornai apposta al Min. e trovai la tua istanza che giaceva sopra un tavolino. In presenza mia fu fatta l'autorizzazione e firmata. L'aspetto da un momento all'altro, e ho fatto già preparare e impaccare il Codice per spedirlo subito, non appena mi giunga. Spero di potertelo mandare dentr'oggi.»
(Gnoli, cartolina a D'Ancona, [Roma] 18 mar. [18]90, p. 151).

«Mi dispiace non poterti servire. Da due anni ho lasciato Pisa e dimoro in Firenze. Lo stato delle mie gambe non mi permette di correre per le Biblioteche. Ho bensì memoria che il Cherubino sia insegna dell'Università pisana, ma non mi pare che abbia tre teste, ma una sola con due alucce dalle parti. Vedi che cosa ne dice il Fabroni nella Historia Univers. Pisanae. E se non ti soccorresse, informati presso il Rettorato o presso il prof. G. [Guido] Manacorda, bibliotecario dell'Universitaria.»
(D'Ancona, cartolina a Gnoli, Firenze 13 dec. [1912], p. 163).

Gobetti (1924)

«Gli scettici sono grati al regime. Esso non chiede ai cittadini che di abdicare alla loro dignità e ai loro diritti politici: c'è un uomo in Italia che pensa a tutto, gli altri lavorino ammirando o si divertano nelle sagre o si nascondano in biblioteca.»

(p. g. [Piero Gobetti], Guerra agli apolitici, «La rivoluzione liberale», 3, n. 10 (4 marzo 1924), p. 40).

Gobetti-Prezzolini (1920)

«le sarei molto grato se mi volesse fare un grande favore.
Devo preparare per la collez. di Codignola una bibliografia del Laberthonnière da aggiungere alla traduzione di Le Réalisme Chrétien et l'idéalisme grec. Ho fatto lo spoglio completo degli «Annales de philosophie Chrétienne» (1897-1913) ma qui a Torino non ho potuto rintracciare né la «Revue Pratique d'Apologétique», né il «Bulletin de la Semaine», ai quali pure egli collaborava. [...]
Scusi la seccatura che le procuro. Lei vede bene che non deriva da pigrizia perché ciò che potevo trovare l'ho cercato.»
(Piero Gobetti, cartolina a Giuseppe Prezzolini, Torino 7 settembre 1920, in: Gobetti e "La Voce", p. 32).

«Qui a Roma la «Rev. prat. d'ap[ologétique]» e il «Bull. de la Semaine» non si trovano nelle biblioteche ordinarie ma soltanto nell'Istituto biblico. Se credi spero di poterci fare una ricerca, ma mi assicurano che non si troverà nulla del Laberthon., essendo quelle riviste in mano di ortodossi.»
(Prezzolini, cartolina a Gobetti, Roma 10 settembre 1920, ivi, p. 33).

Prezzolini e Gobetti si erano conosciuti a una riunione organizzata da Gaetano Salvemini nel maggio 1919 alla Biblioteca filosofica di Firenze:

«Credo che lo conobbi a Firenze durante una riunione di «unitari», cioè di lettori ed amici della «Unità» del Salvemini, e stringemmo subito amicizia. Mi permetto di sorridere pensando che in quella riunione si trovavano Ojetti, Salvemini, Gobetti ed io. È molto naturale che non ne sia escito fuori nulla. Era nell'immediato dopoguerra, mi pare nel 1919. Il locale quello della Biblioteca Filosofica di Piazza Donatello, che probabilmente vide altre riunioni di gente bene intenzionata ma egualmente sgradita agli Italiani e politicamente inefficace.»
(Giuseppe Prezzolini, Testimonianza, «L'illustrazione italiana», 24/31 dicembre 1950, poi in: Gobetti e "La Voce", p. 166-171: 166).