LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Joyce (1906)

«I was today in the Biblioteca Vittorio Emanuele, looking up the account of the Vatican Council of 1870 which declared the infallibility of the Pope. Had not time to finish. Before the final proclamation many of the clerics left Rome as a protest. At the proclamation when the dogma was read out the Pope said ‘Is that all right, gents?’. All the gents said ‘Placet’ but two said ‘Non placet’. But the Pope ‘You be damned! Kissmearse! I’m infallible’.»

(James Joyce, lettera al fratello Stanislaus, Roma, 13 novembre 1906, in Letters of James Joyce, vol. II, p. 192)

«On 30 July 1906, Joyce, Nora and Giorgio set off for Rome. [...] They found a room at 52 via Frattina, close to the Spanish Steps, where the rent was high enough to make a serious hole in his salary.
The ghosts of Keats and Shelley hovered nearby. Keats had died at a house on the Steps, and on the via Corso was the house where Shelley had written The Cenci and Prometheus Unbound. Joyce showed little interest in Keats; apart from Shakespeare, Wordsworth and Byron, Shelley was the English poet to whom he gave ‘the highest palms’, so his spirits were lifted by the thought of treading in the footsteps of one so inspired. But, for him, Rome was less a place of literary pilgrimage than of religious fascination. [...] He attended services at St Peter’s, fascinated not by its architecture but by its priestly rituals. He also visited the Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele to examine the records of the 1870 Vatican Council which declared the infallibility of the Pope – a casual and empty decision, it seemed to him, embodying what he most hated: tyranny.»

(Gordon Bowker, James Joyce: a biography, London, Weidenfeld & Nicolson, 2011).

La Resistenza nelle biblioteche di Venezia (1950)

«Accanto alle scuole di Venezia non è possiible non ricordare le pubbliche Biblioteche.
La «Querini», diretta dal prof. Manlio Dazzi, fu un centro di antifascisti fin dal lontano 1924, cioè da quando l'oppressione si manifestò nella sua più piena padronanza e nel suo più feroce dispotismo.
La «Querini» non fece mai mancare ai suoi lettori le riviste che il Governo aveva escluso dalle biblioteche statali, e attraverso importanti periodici stranieri tenne sempre al corrente il pubblico veneziano dei movimenti politici e sociali esteri. Contrariamente agli ordini, la «Querini» non tolse dal suo schedario le schede delle opere ufficialmente probite.
Alla morte di Gobetti, questa Biblioteca acquistò in blocco tutte le sue opere e le sue edizioni nonchè i periodici, dalla vedova dello scomparso.
Le accuse ministeriali che qui vi fossero convegni di ebrei e di antifascisti, e quella di un impiegato che si volessero usare magazzini per deposito di armi, non rispondevano che a verità. Tutti i cospiratori ebbero nella «Querini» un centro di raccolta e di informazione, un centro di smistamento di periodici clandestini.
[...]
Alla «Marciana», e particolarmente nelle sale riservate, era un continuo andirivieni di cospiratori, alcuni dei quali vi avevano fatto il loro quartiere generale, col pretesto di compilare un manuale di storia o di filosofia.
E anche alla «Marciana» più di una volta entrarono i distinti signori della polizia, per scoprirvi questo o quel patriotta. Ma sempre invano.»

(La Resistenza nelle scuole e nelle biblioteche di Venezia, «Cronache veneziane», 2, n. 14 (23 apr. 1950), p. 13-14: 14).

Labriola (1873)

«Sul principio di gennaio p.p. v'inviai per la posta sotto fascia la copia del manoscritto della B. Nazionale contenente la corrispondenza fra il Seripando, il Flaminio, il Contareno etc. intorno alla grazia. Io allora contava che tutto al più per la fine di febbraio sarebbero state espletate le copie che mi avevate dato incarico di fare, e pensavo di rimettervi insieme alle copie stesse tutte le altre notizie che avevo raccolte. Ma l'uomo propone, e Dio dispone [...]. Messo nella impossibilità di rimanere più a Napoli, ho dovuto smetter casa, e ritirarmi in provincia per parecchi mesi.
Detti allora incarico ad una persona, che credevo capace e vogliosa di spendersi per me, di mettere assieme e di copiare le notizie che io avevo raccolte, e d'inviarvi i manoscritti quando fossero stati copiati. Nel caso che voi m'aveste onorato d'ulteriori incarichi, lo pregavo di rimettermi le vostre lettere.
Tornato qui a Napoli alla fine di luglio con mia grande maraviglia ho saputo che i manoscritti già copiati dormivano tranquillamente nelle due biblioteche, la Brancacciana e la Nazionale, e che a voi non s'era rimessa alcuna notizia. Ho raccapezzato quello che ho potuto di notizie raccolte, e ve le mando ora assieme ai manoscritti copiati.
Vi chiedo scusa, con quanta maggiore insistenza so e posso, della mia inadempienza, proceduta in gran parte da ragioni superiori alla mia volontà, alle quali ha concorso la negligenza altrui.
E vi prego anche che vogliate, in segno della indulgenza che mi userete, addebitarmi tutto quel lavoro che vi parrà. [...] Unisco a questa un elenco delle carte che mando sotto fascia ed in un plico*. [...]

* Elenco delle carte che si trasmettono
1°. Sotto fascia (raccomandata) tre copie di manoscritti, ossia:
Codice X, G. 3 (B. Na.) contenente: Le Lettere di S. Carlo Borromeo al Cardinal di Ferrara.
Codice X, D. 27 (B. Na.) contenente l'Apologia alla Relazione del Navagero.
Codice XI, G. 3 (B. Na.) contenente: Le Lettere scritte da S. Carlo Borromeo ai Legati in Francia.
2°. Sotto fascia (raccomandata) cinque copie di manoscritti della Biblioteca Brancacciana, ossia:
Cod. l. D. 15, contenente: Le Lettere del Vescovo di Caserta.
Cod. l. D. 14 (Volume 2. A. 34) le parti 2, 4, 21, 22.
3°. In un plico diversi fogli contenenti indicazioni, descrizioni, e copie di diversi manoscritti della Nazionale di Napoli [e] della Brancacciana (e del Museo Nazionale).»

(Antonio Labriola, lettera a lord Acton, Napoli 16 agosto 1873, p. 25-26).



Labriola (1881-1887)

«Caro Gnoli [...]
Fammi ora un piacere.
Avrei bisogno di raccogliere delle notizie da parecchi libri di leggi ed ordinamenti scolastici. Non è il caso di chiederli in prestito, perché devo fare la ricerca in molti volumi al tempo medesimo.
Ora dimmi se i libri del già Museo [d'istruzione e di educazione, passati alla Biblioteca nazionale di Roma] si trovano ancora disposti in maniera che con l'aiuto del vecchio catalogo si possa far presto una ricerca; e se tu puoi darmi un po' di posto da lavorare.
Nel caso contrario differirò la ricerca a miglior tempo.»
(Antonio Labriola, lettera a Domenico Gnoli, Roma 26 [novembre 1881], p. 77-78).

«Caro Gnoli,
Il prof. Heerdegen che ti presento, è venuto espressamente di Germania, per studiare i manoscritti di Cicerone, di cui procura una nuova edizione.
Ti prego di dargli facoltà di esaminare i manoscritti delle tre biblioteche che dipendono da te. Il prof. Heerdegen non si fermerà a Roma che alcune settimane, cosicché ha bisogno di poter tutto esaminare senza indugio.»
(lettera a Domenico Gnoli, Roma 6 maggio 1882, p. 78-79. Secondo il regolamento Bonghi del 1876 l'Angelica e la Casanatense dopendevano amministrativamente dalla Biblioteca nazionale).

«Caro Gnoli. Poco fa son venuto alla Biblioteca a chiedere il Brinckmeier (manuale di scienza cronologica) che mi fu negato perché si trova nella sala riservata. Credo che in massima non convenga sottrarre al prestito molti più libri di quello che il regolamento generale prescrive; ma nel caso speciale il Brinckmeier è proprio un libro di studio, e punto di semplice consultazione. Perciò ti prego di autorizzarmi a prenderlo.
Il giorno quindici io riportai alla Biblioteca due libri che avevo in prestito, cioè il Kühner (grammatica latina) e il Teuffel (Letteratura Latina), e m'erano stati nominativamente richiesti. Ora non so perché il Ghiron m'abbia detto d'aver saputo dal Carbone che io sono moroso verso la Biblioteca.
Si tratterà forse del libro che io l'anno scorso dichiarai d'aver perduto. Ora per questo ti prego di farmi sapere il prezzo, perché possiate commetterlo voi stessi, e liberarmi la ricevuta se mai c'è ancora.
Si trattava del Wiese, lettere su l'educazione inglese, 1877, vol. II (che fa da sé). Il I vol. 1854 [ma 1852] è fra i libri del già Museo. Pagherò il prezzo che il Loescher vi avrà fissato.»
(lettera a Domenico Gnoli, [Roma] 21 febbraio 1883, p. 94-95).

«Caro Gnoli.
Giorni fa venni a prendere in prestito 2 fascicoli della sociologia descrittiva dello Spencer. Ho visto che la biblioteca ha 4 soltanto degli 8 fascicoli pubblicati. Almeno tanti me ne mostrarono.
Fa di completare l'opera.»
(lettera a Domenico Gnoli, [Roma, 3 marzo 1887], p. 170).

Labriola (1888-1899)

«Desidero inoltre che mi diciate quali delle opere di Giordano Bruno si trovano nelle edizioni originali nelle varie biblioteche di Napoli. [...]
Sapreste voi dirmi se la ristampa del Daelli abbracci tutte le opere italiane della edizione Wagner: ed a Napoli, dove c'è più libri vecchi che in qualunque altra città d'Italia, sareste buono di ripescarmi tutti i volumetti della ristampa Daelli?»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma 21 febbraio [1888], p. 29).

«Non sareste buono di ripescare in Napoli (e anche fra i libri di D. Bertrando [Spaventa]) la vita di Bruno del Bartholmèss e l'edizione del Wagner? Questi due libri si trovano qui nelle biblioteche, ma io ho bisogno di averli di mio.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma 28 febbraio [1888], p. 30).

«Inoltre fatemi il favore di prestarmi di nuovo il Bernheim. Ne ho bisogno e qui non si trova in nessuna biblioteca.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 17 marzo 1895, p. 64. La richiesta si riferisce a Ernst Bernheim, Lehrbuch der historischen Methode: mit Nachweis der wicktigsten Quellen und Hülfsmittel zum Studium der Geschichte, 2. völlig durchgearbeitete und vermehrte Auflage, Leipzig, Duncker & Humblot, 1894).

«Quel signorino [Arturo Labriola] ha fatto chiedere alle Biblioteche di qui, proprio ora, quei libri della scuola austriaca, scrivendo ad un amico che in Napoli sono irreperibili.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 16 febbraio 1896, p. 98).

«Procurami, se è possibile, un Dante edizione Lubin Padova (anno?) fra il 76 e l'80 – che qui non si trova in nessuna Biblioteca.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma [8 dicembre 1896], p. 173. La richiesta si riferisce a: Commedia di Dante Allighieri, preceduta dalla vita e da studi preparatori illustrativi, esposta e commentata da Antonio Lubin, Padova, Penada, 1881).

«Come puoi immaginare – e non occorre te lo ripeta – la mia gratitudine verso di te è infinita. Io cerco invano il Dante di Lubin. Pare incredibile. A cosa ci sono a fare le Biblioteche?»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 24 dicembre [1896], p. 186).

«Fammi un favore. Il libro anonimo Charlotte Korday, Ein Versuch, scritto il 1793, pubblicato il 1794 (Altona? – non porta veramente indicazione di luogo) è irreperibile. È generalmente citato come opera di un Klause (che non è mai esistito – pare) perché reca questa firma (pseudonimo?) nella prefazione del 26 ottobre 1793 – Verifica scrupolosamente alla Nazionale, dove tanti anni fa io vidi ammucchiati mille e mille volumi appartenuti alla Regina Carolina.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma] 23 [febbraio 1897], p. 198).

«Dunque deciditi a destarti dal tuo letargo, e rispondi coraggiosamente alla voce del dovere sociale – che è il divenire. Ma io dubito forte che tu vorrai rispondere nemmeno alla voce mia... giacché in tre mesi non ti sei risoluto a vedere se alla Nazionale c'è quel tale anonimo su Carlotta Corday. O che ti cominciasse a venire in uggia la ricerca dei libri? Io considererei quel giorno come un bellissimo avvenimento — ma prima che tu entri in questa nuova epoca storica fa quest'ultima ricerca per me, e dopo ti permetto di essere antibibliomane come sei già antiletterato.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma 12 aprile 1897, p. 205).

«Il libro s'intitola, Carlotte Korday [!], Ein Versuch, Altona 1794 – La prefazione reca la data del 26 ottobre 1793, con l'aggiunta «Klause». Di qui è nata l'opinione che ci fosse uno scrittore Klause. Questa è la primissima biografia della Cordai [!].»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, [Roma 18 aprile 1897], p. 211).

«Mandami, se l'hai, quel fascicolo della «Revue de Metaphysique». Qui non giunge a nessuna biblioteca.»
(Antonio Labriola, lettera a Benedetto Croce, Roma 2 aprile 1899, p. 328. La richiesta si riferisce al fascicolo della «Revue de métaphysique et de morale», 7, n. 2 (mars 1899), che conteneva l'articolo di Georges Sorel, Y a-t-il de l'utopie dans le marxisme?).

Laiatico (1945)

«Discendere quella diecina di scalini che dalla prima parte della sala conducono al grande salone centrale (tempio, cenacolo) significa entrare in un mondo sommerso, penetrare in una vita fuor del tempo, rifugiarsi in una specie di oasi di silenzio ove si ritrova beatamente la sicurezza di un lavoro senza interruzione, senza distrazione; significa scendere nelle profondità dell’io, valorizzare al massimo ogni possibilità lavorativa e cerebrale: perchè c’è in sala A. della Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma un fluido positivo: una specie d’euforia intellettiva aleggia nel silenzio che fascia «una popolazione» raccolta e felice, curva sul proprio lavoro, immemore d’ogni altra realtà, distaccata ed assente dalla vita di fuori. Negli anni di guerra e di lotta Sala A. accoglieva con la più sicura certezza di incolumità tutti gli intellettuali politici braccati per tutta Italia: Franco Antonicelli e Luigi Salvatorelli vi lavoravano in perfetta serenità e qualche ufficiale tedesco, alla vigilia della fuga da Roma, vi rileggeva Byron e Goethe e le inevitabili spie diventavano angeliche scendendo i 10 gradini magici.
Nessun rumore esterno arriva preciso nella sala: le grandi finestre circondate di vite vergine danno su di un giardino chiuso e un poco spettinato dove una fontanella accenna la romantica canzone dell’acqua. I «contradaioli» di sala A. si conoscono, e si ignorano, paurosi di disperdere, anche con un saluto affrettato, con una breve sosta su altri argomenti, il filo delle idee. I posti sono segnati da una tradizionale rispetto, da una tacita solidarietà: chi oserebbe andare a scrivere nel banco di fondo a destra ove passa le sue giornate Maffio Maffi, o al posto di Maria Bellonci, riparato e raccolto? Le spalle volte alla seconda finestra, da quanti anni abbiamo ostinatamente cercato nello studio il mezzo per arrivare alla serenità interiore? E forse non soltanto l’attività dello spirito ma, siamo certe, la preziosa atmosfera di sala A. ci ha dato nei giorni più neri, il senso di una pace vietata, la promessa di un’intangibile armonia stratosferica: qualcosa che somigliava ad una costante preghiera.».

(G.[abriella] L.[aiatico], Sala “A”, p. 11; situata al secondo piano dell’allora sede del Collegio romano, la Sala A della Biblioteca nazionale di Roma era riservata a professori universitari e studiosi, ed ospitava circa 22.000 volumi a scaffale aperto suddivisi per materie. La sigla con la quale è firmato l’articolo è attribuibile a Gabriella Laiatico (o Lajatico), titolare della rubrica Donna; si ringrazia Marcello Ciocchetti per la segnalazione dell’articolo e l’attribuzione all’autrice).

Lancellotti (1938)

«Da Settignano [D’Annunzio] si staccava raramente, immerso com’era nel lavoro, per qualche breve gita. In un dopo pranzo del Giugno 1909, sopra una elegante automobile, giungeva solo alla Badia di Montecassino per visitarne la ricchissima biblioteca e gli archivi. Ma non intendeva farsi riconoscere, e in foresteria, quando gli fu presentato il registro dei visitatori, si presentò «Gentile d’Alberga». Se non che la provenienza, il tipo, l’eleganza, lo avevano già reso sospetto. La calligrafia, inconfondibile, lo tradì completamente. «Ma non è lei il sommo d’Annunzio?» arrischiò un professore. Ed egli, pronto: «Io quall’alta cima? Ma loro sognano!». Volle visitare ogni cosa, ammirò tutto e la sera stessa ripartì lasciando in quei monaci napoletani largo campo di pettegolezzi «ncoppa ‘a pazzia e ‘a superbia d’’o poeta».».

(Arturo Lancellotti, D'Annunzio nella luce di domani, p. 134).

Landolfi (1953)

«Il pomeriggio d'agosto regnava incontrastato la Biblioteca di Facoltà dell'Ateneo fiorentino. I bibliotecari, tra cui uno con lunga barba nera, boccheggiavano là in fondo; il paio di lettori e la lettrice sparsi per la sala in languide pose, non si capiva bene se sonnecchiassero o fossero stati assunti in beato stupore. Poi c'ero io stesso, studente in quei felici giorni, che, non tanto per prepararmi a un vicino esame (tali non furono mai le mie preoccupazioni) quanto nel vano tentativo di scacciare la noia, mi andavo di poco in poco azzufficchiando con certo testo da fare accapponar la pelle. Ed ecco, a un tratto, mi sentii saltare addosso qualcosa. Conoscevo questo qualcosa e lo temevo. Era come una voglia di stiracchiarsi, di respirare una boccata d'aria libera, magari di fare un malestro; era infine esso medesimo un malo estro, che in generale mi prendeva appunto in qualche pomeriggio d'agosto. Per dirla in breve, questa volta pensai: Far l'occhiolino all'unica ragazza presente, non ci so veder costrutto, tanto ella è occhialuta. Invece una partita a qualche buon gioco d'azzardo farebbe forse al mio caso e della mia noia.
Ma una partita: e con chi? I due o tre lettori, studenti come me, tolta la loro mutria e il loro miserabile aspetto, stavano già raccattando le scartoffie per andarsene. Aria più umana avevano i bibliotecari, che erano del resto i soli relitti dell'afa. Diavolo, i bibliotecari! E come convincerli alle mie voglie?
Ebbene, passiamo ora nella sala assira della medesima biblioteca. Nel mezzo, tra gli scaffali irti di testi, era, e forse è tuttora, un gran tavolo lucente. Sul quale io, avendo ormai insegnato il gioco del faraone ai bibliotecari, tenevo banco contro gli stessi. Ciascuno di noi aveva davanti a sé un mucchietto di denaro, e il gioco procedeva allegramente, con mio vantaggio. D'improvviso la porta a due battenti si spalancò con fracasso e un uomo alto, elegante e dallo sguardo gelido ci si presentò innanzi. Costui, che doveva aver usolato, era in persona il Segretario generale (o come si chiamasse) dell'Università, creatura temibile e misteriosa, appena intraveduta talvolta tra un uscio e l'altro. Consideratici un momento senza visibile sdegno, disse agghiacciante: «Lei è studente, vero? Mi dia il suo libretto. Per voialtri, sarà provveduto diversamente»; e voltosi senza più, scomparve a passi felpati pei meandri di quelle dotte sale.
Gli sconsigliati bibliotecari, rei di essersi lasciati infruscare dal cattivo arnese che firma qui in calce, furono in effetti sospesi per tre mesi dalle loro funzioni (e dal loro stipendio). Quanto a me, dopo la riapertura dei corsi passai alcune brutte settimane, in attesa di sanzioni che non potevo immaginare se non gravi. Infine mi si fece sapere pel bidello che dovevo passare dal Preside di Facoltà. Presso il quale mi recai, si può crederlo, col cuore ai piedi.»

(Tommaso Landolfi, Il faraone, in Opere, 1: 1937-1959, a cura di Idolina Landolfi, prefazione di Carlo Bo, Milano, Rizzoli, 1991, p. 821-822. La testimonianza, che fa riferimento alla biblioteca della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Firenze, è tratta dall’articolo Il faraone, uscito su «Il mondo» del 1° settembre 1953 e poi compreso nella raccolta Ombre, pubblicata per la prima volta con Vallecchi nel 1954. Il gioco del faraone è stato un gioco di carte molto popolare tra Sette e Ottocento).

Laurini (1897-1908)

«Rileggendo i miei scartafacci, in cui son notati gli appunti, che prendevo nei lunghi colloquii col De Sanctis, ho trovato che quando egli era esule in Piemonte ebbe una fiera polemica letteraria col [Francesco] Trinchera (credo, il lessicografo), il quale, trasceso in plateali impertinenze alla maniera napoletana, fu ridotto al silenzio dal nobilissimo silenzio dell’illustre critico, le cui risposte, che si possono trovare nei giornali di Torino del ’54 o del ’55, erano sennate e serene, degne d’un galantuomo. Vedi tu di procurarti codesti giornali. Scrivi a Torino o alla Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, ove si conservano, parmi, le collezioni di tutti i periodici del vecchio Piemonte. La polemica dové essere assai interessante.»
(Gerardo Laurini, lettera a Benedetto Croce, [Napoli] 20 maggio 1897, pp. 9-10).

 «Se non mi è dato vederti, converso però teco in ispirito, cioè leggo spesso la tua Critica nel liceo Genovesi. Ci trovo delle cose belle e sennate. L’ultimo tuo articolo sul Bonghi mi è piaciuto moltissimo.»
(Gerardo Laurini, lettera a Benedetto Croce, Napoli, 29 aprile 1908, p. 66).

Gerardo Laurini, ultimo e fedele discepolo di Francesco De Sanctis, ha intrattenuto un trentennale carteggio (dal 1889 al 1921) con Benedetto Croce. Il riferimento di Laurini al saggio di Croce è a: Ruggero Bonghi e la scuola moderata, «La Critica», 6 (1908), pp. 81-104.

Le Goff (1996)

«Piuttosto, la frequentazione del Vaticano fu preziosa per il mio lavoro di giovane storico. Avevo già amato le biblioteche dell’École normale di Parigi e del Carolinum di Praga e la superba Bodleiana di Oxford; ma a Roma avvertii più che mai – e fu questo il terzo motivo della mia felicità – il fascino delle biblioteche. A palazzo Farnese le nostre camere erano circondate (tranne che per la parete in cui si aprivano le finestre sulla piazza) dai locali della biblioteca. Questa era più ricca di opere sull’antichità che di opere sul medioevo, nonostante che uno dei direttori della Scuola fosse stato Émile Mâle; tuttavia mi forniva i manuali e le raccolte indispensabili per il mio lavoro. Vivere in mezzo ai libri mi piaceva molto: spesso mi accadeva, per essere stato alzato fino a tardi o per essermi svegliato di notte, di uscire dalla mia camera in pigiama per andare a prendere, a pochi passi di distanza, dei libri nei quali mi immergevo e che contribuirono a fare di me un lavoratore notturno. Ebbi poi accesso ai tesori dell’incomparabile Biblioteca Vaticana, aperta solo di mattina, il che ci lasciava liberi i pomeriggi e le serate per lavorare a palazzo Farnese o andare in giro per Roma. Con l’aiuto del padre Laurent e di monsignor Ruysschaert, che sarebbe diventato poi viceprefetto della Biblioteca, trovai nei libri e nei manoscritti della Vaticana alimento per avventure intellettuali che un medievalista non può vivere con uguale ricchezza e intensità in nessun altro luogo, neppure nella Bibliothèque Nationale di Parigi.
Ho conservato tanta nostalgia della Vaticana che una trentina d’anni dopo sono venuto per tre mesi a Roma a ultimare il mio libro La naissance du Purgatoire: non solo per godere ancora dell’ospitalità della Scuola francese – questa volta nello splendido annesso di piazza Navona, opportunamente acquistato nel 1975 –, ma soprattutto per riprendere ogni mattina la strada di quella straordinaria biblioteca.
Alla fine di ottobre del 1953, dopo le ultime settimane di lavoro e di passeggiate, lasciai il palazzo Farnese per un posto di ricercatore presso il Consiglio nazionale della ricerca scientifica di Parigi; e voltandomi indietro in via dei Baullari sentii, come non mi era mai avvenuto lasciando altre dimore, il mio cuore riempirsi di gratitudine per Roma e stringersi già di nostalgia.»

(Jacques Le Goff, Un «farnesiano» a Roma, in: «Hospes eras, civem te feci», p. 45-50: 49-50).

Leclercq (1993)

«L’esperienza romana in quegli anni in cui la cominciai, a partire dalla fine del 1933, era connotata proprio dalla personalità del papa allora regnante, come si usava dire. [...]
Verso la fine del mio terzo anno di teologia era venuto il momento di pensare a un argomento per la tesi di dottorato. [...]
Perciò durante il mio quarto anno, mentre preparavo l’esame di licenza, cominciai a consultare manoscritti di Giovanni di Parigi e di altri presso la Biblioteca Vaticana e nelle biblioteche di Roma. Lì passavo le mie mattinate libere e molti pomeriggi. Vi scoprivo tutto l’interesse che rivestiva la storia del tema della regalità di Cristo, dai primi secoli – e il mio primo articolo sull’argomento fu dedicato a san Giustino – fino all’enciclica Quas primas di Pio XI, di cui conoscevo a memoria alcune espressioni. [...]
Ma questo piacevole e utile otium cominciava a essere oscurato dai fatti che allora accadevano e dalle minacce sul futuro. Una campagna di stampa aveva preparato l’opinione pubblica alla conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia. Dopo le prime e facili vittorie italiane, Pio XI benediceva pubblicamente questa politica di guerra. Dopo aver spinto per la decolonizzazione delle missioni, aveva imposto a quella parte d’Africa un episcopato che proveniva dalla potenza conquistatrice. Veniva proclamato un impero. [...]
Non avevo perduto tempo nel preparare esami che tuttavia passai con voti non eccezionali, ma sufficienti per conseguire prima il baccellierato e poi la licenza. La comune ambizione, considerata come normale, sarebbe stata quella di ottenere risultati più lodevoli. Ma a che pro? L’attrattiva dei manoscritti e delle biblioteche era più forte. Frequentare biblioteche pubbliche, compresa quella del Vaticano, era considerato come un fatto insolito, e anche pericoloso».
(Jean Leclercq, Di grazia in grazia: memorie, p. 32-36; presi i voti nel 1928 presso l'abbazia di Clervaux, Leclercq studiò dal 1933 al 1936 presso il Pontificio ateneo Sant'Anselmo di Roma).

Leopardi (1823)

«i bibliotecari sono così gelosi ed avari come ignoranti, e non permettono quasi a niuno l'uso degl'infiniti codici che si conservano in queste librerie»

(Giacomo Leopardi, lettera al padre, Roma 7 marzo 1823, vol. 1, p. 210)

Leopardi (1831-1837)

Era nel campo il conte Leccafondi,
Signor di Pesafumo e Stacciavento;
Topo raro a' suoi dì, che di profondi
Pensieri e di dottrina era un portento:
Leggi e stati sapea d'entrambi i mondi,
E giornali leggea più di dugento;
Al cui studio in sua patria aveva eretto,
Siccom'oggi diciamo, un gabinetto.

Gabinetto di pubblica lettura,
Con legge tal, che da giornali in fuore,
Libro non s'accogliesse in quelle mura,
Che di due fogli al più fosse maggiore;
Perché credea che sopra tal misura ·
Stender non si potesse uno scrittore
Appropriato ai bisogni universali
Politici, economici e morali.

(Giacomo Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia)

Cfr. Luigi Crocetti, La biblioteconomia di G. P. Vieusseux, (Paperole), «Biblioteche oggi», 14 (1996), n. 9, p. 98-99.

Levi (1975a)

«Mi disse che lo stipendio offerto era soggetto a rapidi aumenti; che il laboratorio era moderno, attrezzato, spazioso; che esisteva in fabbrica una biblioteca con più di diecimila volumi [...].
L'indomani stesso mi licenziai dalle Cave, e mi trasferii a Milano [...].
Quanto alla biblioteca, le norme da rispettare erano singolarmente severe. Per nessun motivo era ammesso portare libri fuori della fabbrica: si potevano consultare solo col consenso della bibliotecaria, la signorina Paglietta. Sottolineare una parola, o anche solo fare un segno a penna o a matita, era una contravvenzione molto grave: la Paglietta era tenuta a controllare ogni volume, pagina per pagina, alla restituzione, e se trovava un segno, il volume doveva essere distrutto, e sostituito a spese del colpevole. Era proibito anche soltanto lasciare fra i fogli un segnalibro, o ripiegare l'angolo di una pagina: «qualcuno» avrebbe potuto ricavarne indizi sugli interessi e le attività della fabbrica, violarne insomma il segreto. [...]
Pochi giorni dopo la mia assunzione, il Commendatore mi chiamò in Direzione [...]. La prima cosa che dovevo fare, era di andare in biblioteca, a chiedere alla Paglietta il Kerrn, un trattato sul diabete: io conoscevo il tedesco, non è vero? Bene, cosí avrei potuto leggerlo nel testo originale, e non in una pessima traduzione francese che avevano fatta fare quelli di Basilea. [...] Che mi prendessi dunque il Kerrn e me lo leggessi con attenzione, poi ne avremmo riparlato insieme. [...]
La bibliotecaria, che non avevo mai vista prima, custodiva la biblioteca come lo avrebbe fatto un cane da pagliaio, uno di quei poveri cani che vengono deliberatamente resi cattivi a furia di catena e di fame; o meglio come il vecchio cobra sdentato, pallido per i secoli di tenebra, custodisce il tesoro del re nel Libro della Giungla. La Paglietta, poverina, era poco meno che un lusus naturae: era piccola, senza seno e senza fianchi, cerea, intristita e mostruosamente miope; portava occhiali talmente spessi e concavi che a guardarla di fronte i suoi occhi, di un celeste quasi bianco, sembravano lontanissimi, appiccicati in fondo al cranio. Dava l'impressione di non essere mai stata giovane, quantunque non avesse certo piú di trent'anni, e di essere nata lí, nell'ombra, in quel vago odore di muffa e di chiuso. Nessuno sapeva niente di lei, il Commendatore stesso ne parlava con insofferenza stizzita, e Giulia ammetteva di odiarla per istinto, senza sapere il perché, senza pietà, come la volpe odia il cane. Diceva che puzzava di naftalina e che aveva la faccia da stitica. La Paglietta mi chiese perché volevo proprio il Kerrn, volle vedere la mia carta d'identità, la scrutò con aria malevola, mi fece firmare un registro e mi abbandonò il volume con riluttanza.
Era un libro strano: difficilmente avrebbe potuto essere stato scritto e stampato altrove che nel Terzo Reich.»

(Primo Levi, Fosforo, in Il sistema periodico, p. 113-130: 114-123).

Levi (1975b)

«Appena mi fu possibile filai in biblioteca: intendo dire, alla venerabile biblioteca dell’Istituto Chimico dell’Università di Torino, a quel tempo impenetrabile agli infedeli come la Mecca, difficilmente penetrabile anche ai fedeli qual ero io. È da pensare che la Direzione seguisse il savio principio secondo cui è bene scoraggiare le arti e le scienze: solo chi fosse stato spinto da un assoluto bisogno, o da una passione travolgente, si sarebbe sottoposto di buon animo alle prove di abnegazione che venivano richieste per consultare i volumi. L’orario era breve ed irrazionale; l’illuminazione scarsa; gli indici in disordine; d’inverno, nessun riscaldamento; non sedie, ma sgabelli metallici scomodi e rumorosi; e finalmente, il bibliotecario era un tanghero incompetente, insolente e di una bruttezza invereconda, messo sulla soglia per atterrire col suo aspetto e col suo latrato i pretendenti all’ingresso. Ottenni di entrare, superai le prove, ed in primo luogo mi affrettai a rinfrescarmi la memoria sulla composizione e sulla struttura dell’allossana. [...]
Apersi con rispetto gli scaffali del Zentralblatt ed incominciai a consultarlo anno per anno. Giú il cappello davanti al Chemisches Zentralblatt: è la Rivista delle Riviste, quella che, da quando esiste la Chimica, riporta sotto forma di riassunto rabbiosamente conciso tutte le pubblicazioni d’argomento chimico che appaiono su tutte le riviste del mondo. Le prime annate sono smilzi volumetti di 300 o 400 pagine: oggi, ogni anno, ne vengono scodellati quattordici volumi di 1300 pagine ciascuno. È corredato da un maestoso indice per autori, uno per argomento, uno per formule, e ci puoi trovare fossili reverendi, quali le leggendarie memorie in cui il nostro padre Wöhler narra la prima sintesi organica, o Sainte-Claire Deville descrive il primo isolamento dell’alluminio metallico.
Dal Zentralblatt venni rimbalzato al Beilstein, altrettanto monumentale enciclopedia continuamente aggiornata in cui, come in un’anagrafe, viene descritto via via ogni nuovo composto, insieme con i suoi metodi di preparazione. [...]
Infatti, una successiva ricerca nei pulitissimi scaffali, odorosi di canfora, di cera e di secolari fatiche chimiche, mi insegnò che l’acido urico, scarsissimo negli escrementi dell’uomo e dei mammiferi, costituisce invece il 50 per cento degli escrementi degli uccelli, ed il 90 per cento degli escrementi dei rettili.»

(Primo Levi, Azoto, in Il sistema periodico, p. 168-187: 181-184).