LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Foa (1938-1940)

«In questa biblioteca ho trovato un libro di propaganda tedesca in Italia, scritto con ogni probabilità subito dopo la Marna, nel settembre 1914 (uno di quei libri che allora, distribuiti gratuitamente a decine di migliaia di copie, tutti gettavano via senza leggere, e appunto per questo costituiscono oggi una interessante curiosità).»
(Vittorio Foa, lettera ai genitori, Roma 6 novembre 1938, p. 511).

«Per riposare la mente debbo ricorrere ai libri di viaggi e di guerra di cui abbonda questa biblioteca.»
(Foa, lettera ai genitori, Roma 22 [gennaio] 1939, p. 554).

«Ho letto le divertenti pasquinate nella lettera di Papà: qui in questa biblioteca ci sono ben due raccolte di pasquinate ma c'è poca roba che valga.»
(Foa, lettera ai genitori, Roma 5 marzo 1939, p. 573).

«Ho trovato in questa biblioteca un romanzo di Barbara Allason: Quando non si sogna piú. Mi ero cacciato in mente, Dio sa come, che nell'opera della Allason l'attività del poeta fosse del tutto secondaria rispetto a quella dello storico e del critico e non mi ero perciò mai preoccupato di leggere alcun suo romanzo. Lo confesso con vergogna. Ed è una giusta punizione alla mia trascuratezza che mi appaia solo ora come una rivelazione impressionante ciò che era da tempo giudizio assodato degli intenditori. Del resto è stato un felicissimo disinganno: è un'esperienza rarissima e consolatrice quella di imbattersi in un'opera di alta e pura bellezza, come questo libro della Allason. Penso che l'autrice della Vita di Silvio Pellico sarebbe contenta se potesse sapere di questa caldissima ammirazione suscitata dalla sua opera, in prigione.»
(Foa, lettera ai genitori, Roma 26 marzo 1939, p. 585).

«Ho trovato in questa biblioteca l'annata del 1906 della rivista nazionalista «Il Regno».»
(Foa, lettera ai genitori, Roma 27 aprile 1939, p. 606).

«Altra novità di questa vita carceraria è il ritiro di tutti i libri delle due biblioteche circolanti, fino al 10 agosto, per una revisione generale; noi abbiamo tutti i nostri libri piú alcuni di una biblioteca particolare della Direzione, ed è una fortuna: penso che disastro sarebbe stato se questa revisione fosse stata ordinata l'estate del mio arrivo a Roma quand'ero isolato e senza libri miei. E sí che le prime settimane, colla sola biblioteca circolante normale c'era poco da stare allegri; per prima cosa mi affibbiarono un'antologia per studenti ginnasiali e non mi rimase altro da fare che imparare a memoria [...] «Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco ecc.». Ma anche questo non bastava, mancava ancora un giorno al cambio; allora tradussi quelle poesie in un francese maccheronico, che conservasse il ritmo del verso itahano, e imparate a memoria anche queste versioni, bene o male la giornata passò. La seconda settimana fui piú fortunato, mi toccò un romanzo della Buona Stampa, Il precursore di Sherlock Holmes, scritto una cinquantina di anni fa da un clericale che piú nero di cosí è difficile immaginare; [...] una lettura divertentissima, e siccome non avevo altro me lo lessi due volte al giorno per una settimana: esattamente quattordici volte.»
(Foa, lettera ai genitori, Roma 9 luglio 1939, p. 649).

«Ho riletto i giorni scorsi alcuni romanzi che tanto mi avevano commosso durante la mia adolescenza e devo dire che ne ho tratto un'ottima impressione. Prima di tutto un'opera di grande poesia epica, le storie di Mowgli e gli altri racconti indiani di Kipling che ho qui trovato in due volumi regalati alla biblioteca da Sion [Segre], è una lettura particolarmente propizia alla vita carceraria, dopo un po' si dimentica di essere chiusi in una scatoletta e ci si sente trasformati in qualche belva in libera corsa nella giungla, oppure in una mangusta nel fresco di un giardino. [...]
Ho poi letto il quarto volume della grande e bella Storia del Risorgimento del prof. Spellanzon; è un singolare esempio di operosità quest'opera cosí vasta e complessa, che dimostra una consultazione accurata di fonti sterminate, e condotta da un uomo solo! [...] Io ho avuto la fortuna di poter leggere quest'opera dalla biblioteca speciale della direzione che spero continuerà ad acquistare i successivi volumi man mano che usciranno.»
(Foa, lettera ai genitori, Roma 6 agosto 1939, p. 661-662).

«In queste varie biblioteche ho trovato alcuni volumi interessanti [di arte militare]; fra l'altro quest'estate ho letto un trattato di un ammiraglio italiano che prevedeva nettamente i caratteri della guerra navale cui stiamo assistendo».
(Foa, lettera ai genitori, Roma 17 dicembre 1939, p. 725).

«Quanto al volumetto del Ricci [Umberto], se non è possibile farne a meno ritiratelo voi pagandone il prezzo: vuol dire che prima di andar via lascerò la mia copia a questa biblioteca.»
(Foa, lettera ai genitori, Roma 18 febbraio 1940, p. 773).

«Cerco di ammazzare la noia della solitudine colla lettura, e in previsione di questo periodo avevo tenuto in serbo alcuni volumi: purtroppo si tratta di grossi mattoni, libracci di diritto, di scienza, di storia, mancano delle letture leggere e in questa partita, dopo tanto tempo, le varie biblioteche del carcere non possono piú soccorrermi, e se mi metto a comprar romanzi arriveranno quando non ne avrò più bisogno.»
(Foa, lettera ai genitori, Roma 19 maggio 1940, p. 825).

Foa (1940)

«Qui di romanzi che ancora non avessi letto ho trovato poca roba: un grazioso e spumeggiante racconto di Somerset Maugham che forse conoscerete, Ritratto di un'attrice, con due sapide novelle al fondo, e un mediocre romanzo della scrittrice americana Pearl Buck, Figli. È il seguito de La buona terra, ma infinitamente inferiore al precedente. Sono rimasto sorpreso di trovare qui un diffusissimo entusiasmo per il romanzo della Mitchell Via col vento che forse voi conoscete [...]: è un romanzo che, malgrado il suo successo, non manca di pregi; ma, appunto perché si può valutarlo sulla base di «pregi», è segno che rimane al di sotto della sfera estetica. [...] In fondo la lettura di romanzi è in galera uno dei mezzi più indicati per mantenere il contatto con i mutamenti dello spirito pubblico coll'andar degli anni: evidentemente quel che interessa non è l'argomento del romanzo ma la mentalità generale dell'autore.»
(Vittorio Foa, lettera ai genitori, Civitavecchia 9 settembre 1940, p. 863. Nel giugno 1940 Foa era stato trasferito dal carcere di Regina Coeli a quello di Civitavecchia. Per varie letture menzionate nelle lettere da Civitavecchia non è specificata la fonte).

«Giusto pochi giorni fa leggevo, da questa Biblioteca carceraria, un libro della sua Mamma [di G.C. Wieck], su Bettina Brentano, la giovane amica di Goethe. È anche questo un gran bel libro, come gli altri della Allason, rievocazione storica intessuta di poesia».
(Vittorio Foa, lettera ai genitori, Civitavecchia 30 settembre 1940, p. 868-869).

«Un interessante ricordo di cose note e famigliari, di Capo Berta, della Casa Rossa, del mare di Oneglia, mi è stato procurato dalle Lettere di Jacopo Novaro ai suoi genitori che ho trovato in questa Biblioteca. Conoscete?»
(Foa, lettera ai genitori, Civitavecchia 29 ottobre 1940, p. 878).

Foa (1991a)

«A quindici anni ero al Liceo Massimo d’Azeglio, attorno al quale si è creata una specie di leggenda antifascista. [...] Il più noto dei nostri insegnanti, Augusto Monti, era un sincero antifascista e fu poi condannato con me dal tribunale speciale nel 1936; egli non disse mai nelle sue lezioni la parola «libertà» ma ci leggeva Dante, Boccaccio e Ariosto in modo da farci capire che l’arte è un valore che non può essere contaminato dalle contingenze economiche o politiche. In sostanza l’insegnamento non era contro il fascismo, era oltre il fascismo. [...] Monti era l’insegnante responsabile della biblioteca dell’istituto; suo aiutante era Leone Ginzburg. Lo conobbi lì, ero andato a chiedere che mi dessero un libro di Benedetto Croce; Leone mi diede da leggere il Breviario di estetica

(Vittorio Foa, Il cavallo e la torre, p. 26-27).

Foa (1991b)

«Intanto davo esami, senza frequentare, alla facoltà di Legge. Conobbi Achille Loria, decrepito e poco rispettato. Luigi Einaudi e Pasquale Jannaccone erano molto autotorevoli ma non ebbero influenza su di me. Contò invece molto Francesco Ruffini; il suo rifiuto di giurare fedeltà al fascismo me lo fece amare molto, tanto che poi lessi tutti i suoi libri (soprattutto in carcere) e mi appassionai agli eretici italiani del Cinquecento, ai giansenisti e persino al giovane Manzoni.»
(Vittorio Foa, Il cavallo e la torre, p. 30).

«È logico che nella mia attività cospirativa in Giustizia e Libertà così come poi nei primi tempi del carcere io diventassi violentemente antigiolittiano. Le letture carcerarie rianimarono poi il mio apprezzamento tutto torinese per l'ordine e la mediazione, che ovviamente presupponevano disordine e conflitto.»
(Ivi, p. 53).

«Ma cosa è stato per me l'agire politico durante la lunga carcerazione? In apparenza mancava lo stesso presupposto di qualsiasi agire politico, cioè la possibilità di comunicare: non potevamo leggere giornali quotidiani, solo qualche rivista illustrata. Non potevamo ovviamente avere libri politici e anche per l'acquisto di libri normali, scientifici o letterari, occorrevano molti mesi. Posseggo documenti di archivio per i miei acquisti di libri: la domanda fatta al direttore passava al ministero della Giustizia (direzione degli Enti di prevenzione e di pena), di lì passava al ministero dell'Interno (direzione di Pubblica sicurezza) fino al capo della polizia, per tornare poi indietro con la stessa trafila fino a me. Non ho avuto, salvo per pochi mesi a Civitavecchia, il permesso di scrivere appunti, potevo solo corrispondere una volta la settimana con i genitori e i fratelli, le lettere erano censurate con un inchiostro che rendeva illegibili anche le parti innocenti e comunque eravamo attenti ad autocensurarci proprio per impedire quello scempio: i colloqui coi genitori erano rari e controllati (a Regina Coeli persino con un microfono).»
(Ivi, p. 90-91).

Fornari (1874)

«Servizio al pubblico.
1. Sono tra ottanta e novantamila i lettori che accoglie ogni anno la Biblioteca [nazionale di Napoli]: oltre a parecchie migliaia di visitatori, che si contentano di guardare le miniature di qualche codice, o soltanto di udire nella gran sala i suoni ripetuti dall’eco trentadue volte.
Con precisione, i lettori nel 1870 furono 80831 e nel 1871 90928.
E sono circa il doppio di numero le opere date in lettura, cioè nel 1870 furono 201242 e nel 1871 169935.
Né saranno minori, come pare, le somme che si raccoglieranno alla fine di questo anno. [...]
3. Le sale ordinarie di lettura sono tre; e in una di esse son disposti, quanti ne capono negli scaffali intorno intorno e sulle panche nel mezzo, Atti di accademie e Periodici di materie scientifiche e letterarie. In cotesta sala vengono ammessi i lettori i quali non occorra di vigilare.
4. Dal 1861 fu cominciato a dare opere in lettura fuori della Biblioteca a personaggi ragguardevoli. Nel 1869 furono con R. Decreto fissate le norme del prestito e della restituzione. Oltre de’ casi considerati in quel Decreto, accade qualche volta che domandino di ufficio qualche libro o magistrati dell’ordine giudiziario o ufficiali amministrativi di alto grado.
5. Il tempo che la Biblioteca resta aperta a’ lettori1, è di sei ore in tutti i giorni. È chiusa gli ultimi quindici di ottobre, e i dì festivi designati dal calendario ufficiale del Regno.
6. Nè questo orario però, nè gli allegati numeri dei lettori annui e delle opere date a leggere, porgono la misura esatta del lavoro che vi si fa e del servizio che si rende agli studii. È da por mente più tosto alla qualità de’ lettori e alla varietà delle richieste.
Non a tutti e non la maggior parte sono scolari che vengono a fare soliti studii pe’ soliti corsi; ma il più è gente che studiano ad altro fine, e ci tornano tutti i giorni, e parecchi ci stanno per sei ore continuate, o poco meno, cambiando i libri, non restando di leggere. Pittori, scultori, architetti ne vengono parecchi ogni dì, a studiare o guardare libri appartenenti alle arti loro. Parecchi eziando studiosi di archeologia, di notomia, di scienze naturali, a domandare opere figurate e di gran prezzo, che si danno a leggere senza difficoltà, ma sotto gli occhi di un impiegato. Parecchi non vengono a chiedere questo o quel libro, ma a domandare: Che libri ci sono utili per questo o per quest’altro studio? E a loro si danno indicazioni a voce, ovvero si presentano i cataloghi per materie, che sono manoscritti, e non ce ne ha che una copia, e però deve assisterci un impiegato necessariamente. Maggiore assistenza, e de’ più abili, richiedono i dotti, italiani e stranieri, che vengono a studiare ne’ manoscritti o nelle altre collezioni, a’ quali si dà l’entrata nelle sale stesse delle collezioni. Di costoro ce n’è due o tre ogni giorno; e quest’anno, dal primo di gennaio all’ultimo di settembre sono state 437 le persone venute a studiare in 1020 de’ nostri manoscritti.
Per le dette cause avviene che molti giorni dell’anno, oltre alle sale di lettura che si affollano, si veggono lettori in tutte le sale interne, e che tutti gl’impiegati, o quasi, dal primo all’ultimo attendono al servizio della giornata. Ci è stato giorni, ma rari, in cui i lettori hanno passato i cinquecento, pigliando posto nella gran sala. La fastidiosa fatica di tali giorni è confortata dal pensiero del servigio vero che si fa agli studii, e dalla speranza che la vera dottrina non venga discacciata da questa petulante maschera di scienza che vuole invadere il campo.

1 REGOLAMENTO DELLA BIBLIOTECA
                      CAPO V.
                 Servizio pubblico.

Art. 38. La Biblioteca sarà aperta al pubblico in tutti i giorni, eccetto i festivi, dalle ore 9 a. m. alle ore 3 p. m.
Art. 39. Essa sarà chiusa al pubblico nella seconda metà di ottobre di ogni anno, ma gl’impiegati tutti dovranno intervenirvi per attendere a’ lavori di cataloghi, all’ispezione degli armadii, alle riparazioni e a tutto che potrà occorrere.
Art. 40. Gli studiosi possono richiedere fino a tre volumi in una volta. Essi sono tenuti di scrivere sul dorso di un polizzino, che ricevono all’entrare, il libro desiderato.
Art. 41. Il polizzino sarà consegnato ai distributori, i quali cureranno di portare il libro.
Art. 42. Gli studiosi e gl’impiegati serberanno il maggior silenzio nelle sale di lettura. È loro proibito di scrivere o disegnare in su’ libri o di lucidare. Saranno, contravvenendo a questi regolamenti, da prima avvertiti, e ostinandosi, potranno, col consenso del Prefetto, essere invitati ad allontanarsi.
Art. 43. Non potrà lo studioso uscire dalla sala, se prima il libro restituito non venga verificato per lo stesso del polizzino.
Art. 44. È vietato di portar libri e stampe nella Biblioteca, sotto pena della confisca delle opere in pro della Biblioteca.
Art. 45. È parimenti proibito di portare ombrelli e bastoni, e si dovrà lasciarli al portinajo, che li conserverà, senza ricevere per ciò mancia alcuna.
Art. 46. Vi sarà nella Biblioteca una sala destinata agli accademici ed altre persone notabili, i quali potranno studiarvi, senza limitazione del numero de’ volumi. Alla sala sarà addetto un distributore ed un bidello a scelta del Prefetto.»
(Vito Fornari, Notizia della Biblioteca nazionale di Napoli, pp. 33-38).

Fortini (1993)

«La lettura mi è stata quasi sempre conflitto e costrizione volontaria. So di essere stato capace di attenzione sostenuta, anzi fortissima, persino esasperata: lo 'studio' nel senso del modo 'studiarsi di'. Ma dopo aver fantasticato invidiosamente intorno all'agio delle biblioteche e del sapere libresco, so di non essere stato, in questo, né Faust né il Famulus. Qualche volta ho subito la tentazione, anche puerile, di travestirmi da erudito. Nella grande sala Secondo Impero della Bibliothèque Nationale, l'incanto della cerimonia di attesa del turno, tenendo in mano il tesserino plastificato, la discesa ai cataloghi, il paralume... Niente, non era stata altro che una vecchia musica di nostalgia e consolazione: ritrovarmi come quando ero poco più che ragazzo fra i legni scuri e i plutei delle biblioteche di Firenze. Meglio allora l'aria sportiva delle libraries anglosassoni, con le ragazze accucciate sulle moquettes.
Posso leggere seriamente solo a casa mia. A Milano, lavorare nelle biblioteche è impossibile, tutti lo sanno. Non ho rapporti con l'Università. Spesso sono costretto a chiedere alla cortesia di un conoscente un'informazione o una conferma per interurbana. Non è solo la mancanza di spazio a limitare il numero dei libri. È una deliberata rinuncia, una scelta ormai definitiva.».
(Franco Fortini - Paolo Jachia, Fortini leggere e scrivere, p. 9-10)

«Mia madre, invece, la ricordo leggere, sebbene di pochi studi, secondo lo schema ottocentesco che assegnava alla 'signora', piuttosto che alla 'signorina', il ruolo di lettrice di romanzi. Mia madre era abbonata alla Biblioteca Circolante Vieusseux. Leggeva molti romanzi, soprattutto francesi, tradotti o in originale. Volumi con la copertina gialla delle edizioni del “Mercure de France”, che stanno sui tavoli dei personaggi di Van Gogh, li ho visti per casa. Ma più spesso quelli della Biblioteca Vieusseux con la copertina rilegata, molto robusta e maculata di color grigio marrone con su incollato un biglietto a stampa, con un ex libris. Ogni tre o quattro giorni mia madre andava a cambiare quei libri alla sede del Vieusseux e vi prendeva in prestito anche libri per me. Certi libri che, come si diceva, non erano “adatti alla mia età” devono avermi raggiunto in quel tempo. Penso a Lucio D'Ambra o Luciano Zuccoli.».
(Ivi, p. 19)

«Lessi nella Biblioteca Marucelliana la collezione di “Lacerba”. Ero curioso di quel momento delle avanguardie che corrispondeva alla giovinezza di mio padre. Posso oggi credere che ne assorbissi assiduamente tutto quel che si riferiva ai confini politici, di cui altrimenti non si parlava.».
(Ivi, p. 28)

Franchini (1957)

«È noto che Papini giovane, avido di studio e di sapere, trovava il suo pane quotidiano nelle biblioteche fiorentine e nei gabinetti di lettura di quel tempo, e fu proprio in una biblioteca che trovò, una mattina, un duplice dono: il sapere e l’amore; cioè incontrò la futura compagna della sua vita, Giacinta Giovagnoli, la quale gli fu presentata da un amico comune, Giovanni Vailati. [...]
Ebbi la prova dell’elevatezza degli affetti di Papini verso sua moglie quando, molti anni or sono (nel 1947) per il suo genetliaco, volle che l’aiutassi in un paziente e segreto lavoro, allo scopo di prepararle un omaggio fuori dal consueto. Mi ordinò di comprare da Alinari un album artistico in pelle con fregi d’oro, poi egli stesso prese in biblioteca l’«Opera prima» ed insieme ci chiudemmo a chiave nello studio affinché nessuno ci vedesse e ci disturbasse.
– Ora mi detti queste poesie, – disse consegnandomi il volume aperto a una certa pagina, e aggiunse scherzando – lei è maestro ed è abituato a dettare...
Così dicendo aprì l’album alla prima pagina e con molta pazienza e con tutta la precisione e l’attenzione che il lavoro richiedeva, copiò tutte le poesie dedicate a sua moglie in gioventù, alle quali ne aggiunse altre scritte per la circostanza. Il lavoro, così impegnativo, durò qualche giorno e alla fine ne uscì un saggio calligrafico preciso, pulito, ordinato, come forse non ne aveva mai fatto in vita sua. Papini ne fu veramente soddisfatto e non lo vidi mai tanto lieto come il giorno della festa in cui poté offrire quell’album alla signora Giacinta.»

(Vittorio Franchini, Papini intimo, p. 22-23)

Gabrieli (1960)

«Leggo il Saluto alla Classense del vecchio amico [Manara Valgimigli], che per alcuni anni ne è stato il numen loci, prima di far ritorno alla sua Padova; e figlio qual sono di un bibliotecario, e amico di libri dalla prima infanzia, sento ancora una volta con commozione nella pagina di Valgimigli quella «religione delle lettere», che par così bene di casa in Romagna, tra la Malatestiana e la Classense, tra giovani pensosi e vecchi saggi. Di Renato Serra, io non ho fatto in tempo che a raccogliere l’eco, a contemplare la scia della luminosa meteora leggendo qualcosa di lui (tra cui quell’indimenticabile Dell’arte di leggere i Greci) e raccogliendo le testimonianze di chi lo conobbe e lo amò. Ma Valgimigli, grazie al cielo, ho fatto in tempo a conoscerlo di persona, dopo averne desiderata la conoscenza per anni, dagli ormai lontani anni di giovinezza.
Un pomeriggio di età preistorica, nell’oscura saletta della biblioteca della Facoltà di lettere romana a Palazzo Carpegna (oggi è scomparso, quel caro palazzo che tante cose ricordava di noi, e c’è al suo posto una rimessa di macchine senatoriali), passai più ore a divorare La mia scuola, i ricordi e le esperienze di quell’antico professore di liceo, rimasto educatore nell’anima anche dopo che fu salito alla cattedra universitaria.».
(Francesco Gabrieli, Valgimigli, in Abbozzi e profili, p. 111-113: 111; tra il 1919 e il 1926 la Facoltà di lettere ebbe sede a Palazzo Carpegna, che era stato unito all’adiacente palazzo della Sapienza con un cavalcavia provvisorio).

Gadda (1918)

«Francoforte sul Meno, 28 marzo 1918. [...] Intanto la nostra vicenda di schiavi senza conforto ha avuto un nuovo brusco mutamento. Il giorno 26, improvvisamente, si sparse la voce che noi avremmo dovuto lasciare Rastatt, per far posto ai prigionieri Inglesi. [...] E poi il campo era ora quasi sistemato; le camere del Ridotto 16, del Rid. 15, della Friedenscaserne imbiancate: i letti venivano portati, i pagliericci e gli armadi preparati. Ancora erano stati acquistati dei giochi (crocquet, tamburelli, bocce) e doveva esser messo un bigliardo, un pianoforte, altri strumenti musicali, e si doveva aprire tra di noi una biblioteca. A dirigere questi servizî s’erano eletti tra noi dei commissarî. Insomma ci avvicinavamo a una sistemazione discreta e definitiva del campo Friedrichsfestung, e i martirî della Caponiera stavano per ascendere ad abitudini di vita meno atroci. La partenza improvvisa ci priva di queste speranze.»

(Carlo Emilio GaddaGiornale di guerra e di prigionia, p. 327-328. Questi diari sono stati pubblicati per la prima volta, in parte, nel 1955; la prima edizione integrale uscì nel 1992).

 «Celle-Lager. Offiziergefangenlager, Blocco C; Baracca 15 B. – Note del 21 aprile 1918 (Natale di Roma). [...] 
Alla biblioteca si trova qualcosetta di interessante; è una biblioteca per modo di dire: quattro libri accozzati come si poteva. Ma è già un bello sforzo, se si pensa che i tedeschi impiegano dai tre ai cinque mesi per farci avere i libri che ordiniamo. L’organizzazione e la direzione della biblioteca sono dovute a benemeriti ufficiali italiani. [...]
Ogni blocco ha la sua biblioteca e la sua baracca di musica.»

(ivi, p. 335-336).

«Cellelager, 21 maggio 1918. [...] I due scorsi giorni 19 e 20 passarono, la mattina, nel calmo studio del tedesco; nel pomeriggio, parte tra il sonno, durante le ore più calde, e parte nella lettura. Ho per le mani un libro filosofico di Troilo: Il positivismo e i diritti dello spirito, opera di cui non posso ancor dare un giudizio. [...]
Cellelager; Blocco C. Venerdì 31 maggio 1918. [...] Lessi anche un po’ (Correnti di filosofia contemporanea; pubblicazione di conferenze di filosofia teoretica, morale, ecc. e di vario argomento, a cura di un circolo d’alta cultura genovese.) Trascuro invece il libro del Troilo. Lessi anche novelle e sciocchezze, per distrarmi. Giocai poco o nulla agli scacchi.
Studio del tedesco e attività intellettuale specifica. Lo studio è saltuario e irrazionale: leggo traducendo il giornale e un romanzetto, noto i vocaboli ignoti per studiarmeli, ma poi non li studio: quei che rimangono, rimangono. Causa: il mal dei nervi. Leggo e rileggo qualche poesia, il che mi riesce un buon sussidio per imparare e ritenere vocaboli. Non studio più matematica, ma forse riprenderò, in un tempo non lontano.»

(ivi, p. 356, 360-361).

Gadda (1944)

«Il positivismo non ha creduto di accattar miti qua e là. [...]
Noi possiamo oggi irridere alle concrezioni e alle superfetazioni retoriche che quelle idee direttrici hanno comportato – calami e sterpi fluitati dalla piena d'un fiume generoso. Possiamo farci beffe (oh, quanto facili beffe nella impossibilità d'una emulazione 1922-1944) del tempo nobilmente consunto: delle sue università popolari, delle sue biblioteche circolanti, delle sue pubblicazioni a dispense, dei circoli di cultura e di ricreazione, degli onesti baffi de' suoi molteplici e «brillanti» conferenzieri: noi che abbiamo assaporato il conferenziere unico e funerario con tibie in croce sul fez: noi che abbiamo riconosciuto la spia, e lo sgherro travestito, in ogni biblioteca e in ogni fabbrica.»

(Carlo Emilio Gadda, I miti del somaro, p. 47-49. Il manoscritto, pubblicato postumo, è datato "Roma 1944").

Galante Garrone (1998)

«[Adolfo] Omodeo mi propose, prima di tutto, un’ampia ricerca sulla stampa subalpina (oltre ai giornali liguri e savoiardi) del decennio cavouriano, attingendo a una copiosa e quasi completa raccolta esistente nella Biblioteca Nazionale di Torino, e poi andata purtroppo distrutta nel primo gravissimo bombardamento aereo del 20 novembre 1942, che troncò le mie ricerche. (Ricordo di aver visto la mattina dopo, in via Po, bruciacchiati e ancora fumanti, non pochi frammenti di queste gazzette, sul selciato). E naturalmente tale distruzione mandò in fumo anche la mia ricerca.»

(Alessandro Galante Garrone, Testimonianza su Franco Venturi, in: Il coraggio della ragione: Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita..., p. 415-424: 418).

Gallino (2001)

«l’istituzione fondamentale dell’azienda di Adriano è stata il Centro culturale Olivetti, ch'era parte integrante – va evidenziato – della sua struttura organizzativa. Aveva esordito nel 1950 organizzando a Ivrea una grande mostra dedicata a 25 anni di pittura italiana. Formalmente faceva parte dei Servizi sociali, che a loro volta erano alle dipendenze del direttore del personale. [...]
Tutte le sue manifestazioni erano in genere gratuite e aperte a tutti, con l’eccezione del prestito della biblioteca di letteratura contemporanea (che peraltro comprendeva anche classici e testi di storia e saggistica varia) che era riservato ai dipendenti della fabbrica.
La biblioteca aziendale, istituita nel 1940 e cresciuta senza posa negli anni di Adriano, quale parte integrante del Centro culturale, era collocata nella fascia dei Servizi sociali, dove si trovava anche il mio ufficio. Comprendeva, nella seconda metà degli anni Cinquanta, tre principali sezioni. La sezione di narrativa già citata, la sezione di scienze sociali che io stesso avevo contribuito a sviluppare, e una sezione di alta saggistica, forte di circa 30 000 volumi. Per dare un’idea di quale livello fosse quest’ultima, pur sempre parte di una biblioteca di fabbrica, basterà dire che giusto dinanzi al mio ufficio c’era uno scaffale contenente un’edizione imperiale completa delle opere di Kant (la Koeniglich-Reichliche Gesamtausgabe) dei primi del Novecento. Non lontano era collocata l’edizione critica del 1956 di Wirtschaft und Gesellschaft di Max Weber. Un’opera intimidente – due volumi di un migliaio di pagine – la cui traduzione, dottamente curata da Pietro Rossi con una fatica di anni, avrebbe inaugurato nel 1961 la magnifica collana dei classici della sociologia pubblicata dalle Edizioni di Comunità. Una collana che per l’impegno anche finanziario richiesto era stata programmata evidentemente quando l’ingegner Adriano ne era ancora il direttore.
Alla sezione di saggistica della biblioteca potevano accedere, su presentazione, anche persone che venivano da fuori. Tra gli altri era regolarmente frequentata da giovani studiosi dell’Università di Torino, dato che, soprattutto per quanto riguardava le nascenti scienze sociali, sociologia e antropologia, soltanto a Ivrea si trovavano i libri cercati. Credo che all’epoca non vi fosse nulla di paragonabile a tale istituzione posta letteralmente e simbolicamente all’ombra di un grande stabilimento industriale.»

(Luciano Gallino, L'impresa responsabile, p. 101-103).

«la fabbrica era davvero una parte della comunità, una fabbrica profondamente radicata nel territorio, dove il tecnico, l’operaio, l’impiegato e il dirigente abitavano spesso a pochi isolati di distanza e si ritrovavano alla mensa, alla biblioteca per prendere un libro in prestito, al cinema, alle conferenze del Centro culturale. [...]
Questo ha probabilmente contribuito ad alimentare la situazione che ricordavo prima, di un'azienda dove l'operaio che veniva a prendere un libro in biblioteca, o che si incontrava nella Commissione interna, con cui si scambiava qualche parola durante la mensa, si dimostrasse singolarmente bene informato su come andava la fabbrica, su quali erano i problemi di fondo e le situazioni contingenti da affrontare.»

(ivi, p. 75 e 77).

Gargiulo (1955)

«Passavo a quel tempo le mie intere mattinate in biblioteca, e non infrequente era il caso che mi trovassi là troppo presto; rimanevo con altri ad aspettare che la porta si aprisse al pubblico.
I miei compagni in questo zelo, gli «studiosi» fin dalla primissima ora! Non so come facesse a raggiungere la monumentale altezza di quel secondo piano, un tale, tremante d’inverno in un chiaro vestitino d’estate, tanto affannava e tossiva. E un giorno infatti scomparve. Immancabile v’era uno, noto a tutti gli assidui, che da un tempo non definito veniva ad immergersi nella lettura dello stesso libro; e sarebbe poco: alla stessa pagina.
Mi domando se la crudeltà dei vent’anni, essa sola, faceva apparirmi anche vecchi, in genere, i componenti la miserevole compagnia. Ma forse intuivo giusto, almeno in un certo senso: spirava da coloro, indistintamente, qualcosa che vorrei chiamare la «disoccupazione definitiva».
Né poi i vecchi d’anni mancavano. Due ne ho presenti, dalla cui attenzione io ero preso di mira; ed oggi sono in grado d’intendere il penoso significato di quegli sguardi che, partendo da un così lontano fondo, cercavan di raggiungere la mia gioventù. Negli occhietti sbiancati dell’uno, l’ammirazione nostalgica si traduceva in pura, sconfinata umiltà; in quell’altro, che mi risalutava quasi ogni volta che lo guardassi, l’umiltà torbida invece, voleva farsi lusinga, strumento d’approccio.
Attendere i libri, prenderli, e leggerli in una sala in comune, in presenza di altri, costituiva per me un punto alquanto difficile da superare. La ringhiera di legno della distribuzione, che ci riuniva tutti, mi diventava una specie di traguardo; e di essere fra tali «concorrenti», – con quell’urgenza ogni giorno di riattaccarmi ai vecchi libri, – mi pungeva una sottile vergogna.
Di fronte a chi? I benedetti scontrosi vent’anni non spiegano abbastanza quel senso di mortificato pudore. Contribuiva non poco al mio confuso disagio, questo è certo, la presenza dell’uomo dietro la ringhiera. Era soltanto l’usciere addetto al materiale passaggio da una mano all’altra, delle schede e dei libri. I miei compagni lo sogguardavano appena, con una soggezione sconfinante nella paura; io, sebbene potessi sorridere della paura, quanto capivo quella soggezione!
Penso a quando l’uomo veniva sostituito da un compagno: risento l’effetto assurdo che mi faceva il cambio. Il sopravvenuto si mostrava cacciato lì, misero anche nell’aspetto, a compiere una funzione scaduta da ogni dignità. O che forse tanto alta era la funzione? Una domanda simile, allora, mi avrebbe sorpreso prima che infastidito.
Subentrava nel posto uno qualunque: ebbene, per me era come quando non si tollera, perché neanche lo si «raffigura», il nuovo designato a rivestire l’autorevole carica di chi ci era sembrato personificare la carica stessa fino all’altezza del simbolo, legato a quella senza vincolo di tempo.
Talvolta pure mi accadde di vedere il nostro addetto alla distribuzione, fuori, per la strada, nel suo vestito privato e in cappello: una rimpicciolita figura tra l’agente di forza pubblica e il contadino; e sfuggente, perché tutto raccolto in se stesso, egli andava lestissimo. Ma nella memoria questa impressione è inerte; invece il personaggio vi resta vivo nella sua uniforme color tabacco sporco, filettata di giallo: inseparabile da essa nella misura della nobile naturalezza con cui la portava e, starei per soggiungere, la «superava».
Se è ovvio che talora io incontrassi l’uomo anche in altre sale o nei corridoi della biblioteca, ciò non toglie che la sua immagine mi si ripresenti, con la maggiore spontaneità, sempre al posto indicato. Anzi in un particolare momento: nelle soste; allorché egli, quasi sull’attenti, una mano appena poggiata al tavolo delle sue operazioni, lo sguardo fisso un po’ in alto, appariva come assorto unicamente nell’attesa di essere di nuovo richiesto del suo lavoro. Tale atteggiamento, provvisorio quanto mai, assume invece per me carattere permanente.
Non è meraviglia, del resto. Avevo allora l’ingenua, perfetta illusione che in quella immobile figura di profilo, «tutto l’interno» fosse palese alla vista come in un quadro: intendo appunto, senz’altro, «tutto» quello che qui ora vuole un così lungo discorso.
Ma intanto noto: una cosa essenziale certamente sfuggiva alla fervida attenzione del riguardante, data la sua età felice: cioè la condizione del pover’uomo, in quanto si guadagnava così il suo pane. Il pover’uomo intravisto per la strada; che avrà avuto moglie, figli; le cui corse preoccupate saranno state verso casa.
Ora un usciere, ora anche qualcuno degli impiegati circolanti per la distribuzione, un superiore quindi, si avvicinava al nostro personaggio per sussurrargli all’orecchio qualcosa; non prima peraltro che egli facesse cenno di poter dar loro ascolto. Evidentemente, nella consuetudine, colui doveva suscitare un bisogno di confidarglisi pari al rispetto. Lo volevano giudice a sfogo dei reciproci risentimenti, e non gli risparmiavano il racconto di un solo incidente increscioso o ridicolo del servizio. Tutto quel che avveniva nelle sale interne, credo, gli avrebbero volentieri riferito; quasi con l’inconscio desiderio di averlo in un modo qualsiasi onnipresente. Non chiedevano che di essere sentiti, per tornar via soddisfatti; o sentirsi, nel caso, più sicuri di sè e delle proprie ragioni. L’ascoltatore di solito rimaneva muto: che importa? Bastava ai ricorrenti quella sua pronta attenzione, proporzionata ogni volta, si sarebbe detto, al peso che ciascun di loro dava alla comunicazione propria. Sicché nessuno mostrava di avvertire, nel lieve commento mimico che teneva luogo di risposta, ciò che pure apertamente si leggeva. Erano le sfumature, appena, di una disposizione indulgente sempre eguale, e distaccata quanto più comprensiva.
Certo, da paragonarsi alla forza di chiusura degli uomini l’un contro l’altro, c’è solo, a questo mondo, l’intensità del loro fondamentale bisogno di spezzare la chiusura e aprirsi, affidarsi a qualcuno. Fate che ne intravedano la possibilità: vi si precipiteranno con lo slancio dell’assoluta fede. Ma se io non ero in grado, allora, di cogliere tutta la profondità d’un tale rapporto, non perciò l’eroe del mio giovanile ricordo grandeggiava meno nella mia ammirazione. Quella sua umanità! L’idea di «umanità multanime»: ecco appunto quale era, al tempo di cui parlo, fra le mie vergini idee la più alta e gelosa.
Se cerco di definire il senso che allora avevo di quel mio frequentare la biblioteca e dello studio e delle letture, non posso se non scrivere, così, con la maiuscola, la parola: Vita. Nei libri non perseguivo altro: trovarla, era ogni volta un rapimento; non importa se soltanto qualche rara opera, alla fine, sapesse darmi espressioni di vita alla profondità cui, oh, come ne ero sicuro! le avrei poi fermate io stesso. Era questo, anzi, il maggior motivo dello slancio e della gioia; e restava ancora al di là di tutto questo, ultimo magnifico termine di conquista, per se stessa, fuori dai libri, la vita, nella sua realtà; e, in essa, le persone vive con le loro qualità essenziali. Come quel mio personaggio, ch’io andavo così intensamente osservando.
A noi del pubblico, l’uomo dietro la ringhiera non dava intanto che rapidissime occhiate. Non di più gli occorreva per conoscere i frequentatori ad uno ad uno; né intendo solo per associare alle persone i nomi e i libri abituali.
L’«umore» degli assidui non gli restava ignoto di sicuro. E a me sembrava perfino che il suo tratto fosse, verso quelli, sempre opportunamente diverso.
Soprattutto avevo l’impressione che, porgendo i libri a qualcuno dei lettori «eccentrici», egli accompagnasse l’atto, in modo appena percettibile, con un sorriso: il sorriso dosato o più di benevola ironia o più di compassione, che quegli precisamente si meritava.
Ma la memoria, la pratica, che doveva posseder colui di tutta la biblioteca e del servizio, il suo prezioso intuito nelle varie ricerche: su ciò non credo davvero che potessi ingannarmi. Gli era sufficiente quella medesima attenzione, fuggevole in apparenza, alle schede, ai libri; ed ogni sbaglio dei distributori veniva chiarito davanti al suo tavolo, prima che avesse a riscontrarlo l’interessato. Alle difficoltà che i distributori gli comunicavano, egli rispondeva con indicazioni, suggerimenti; o infine cedeva il suo posto, nei casi più complicati, per intervenir di persona.
Non so da parte di chi, anche s’invocasse il suo aiuto nelle sale interne, allorché ve lo chiamavano con tanta premura, a volte un po’ misteriosamente; e non poteva comunque trattarsi che di questioni attinenti ad altri rami di servizio. Rammento una curiosa scena: un alto funzionario della biblioteca si affida urgentemente per una ricerca al nostro uomo; e rimane lui stesso frattanto, con una scherzosa bonarietà, tranquillamente in attesa, a sostituirlo.
Spesso risuonava poi l’allarmato appello: il Signor Direttore! L’usciere della distribuzione accorreva: l’appello era per lui. Ben giustificata, da quel che dirò appresso, era la mia certezza che il Direttore, il vecchio Abate, dovesse in molte occasioni desiderare di averlo almeno presente, là, sottomano. O allora, perché non gli lasciava addirittura la direzione della biblioteca? Sebbene non ricordi quando, fantasticando, ebbi a formularlo, mi restò fisso in mente questo allegro paradosso.
Eppure le meraviglie della capacità e attività di colui in tale campo, tutte alla fine per me rientravano, come naturali manifestazioni secondarie, nell’ordine stabilito dalla grandezza del mio eroe in quell’altro campo ch’io esploravo: l’umano.
Quasi tutti i giorni, verso le dieci, squillando non so dove, una campanella annunziava l’arrivo dell’Abate. Seguiva un movimento, o uno scappare, tra il personale; qualche voce ammoniva bassa, dava ordini in fretta. Afferrato uno sgabelletto pieghevole che teneva lì a portata di mano, l’uomo della ringhiera abbandonava il posto al compagno già sopraggiunto, e si precipitava per le scale. Soltanto a lui il vecchio si affidava, per la faticosa salita.
Quanto tardava quell’avvenimento sempre solenne: l’ingresso dell’insigne Abate, il suo lento passaggio attraverso la prima sala dei lettori! Non v’era certo da sbagliarsi, immaginando che il vecchio, aggrappato al suo sostegno, sostasse scalino per scalino, e lunghissimi fossero i suoi riposi sullo sgabelletto, ad ogni ripiano.
Finalmente la coppia appariva. Lo sguardo e il sorriso tremanti si sforzavano a significare una specie di luminosa bontà benedicente tutti noi; mentre solo riflettevano la soddisfazione, ancora un po’ incerta, della superata fatica. Perciò, quand’essi si rivolgevano alla persona dell’accompagnatore, si facevan più chiari nella espressione d’una elementare, quasi animale riconoscenza.
Ma anche nelle mani il vecchio tremava: tutto, veramente, pareva che in lui tremasse; sicché mi domandavo se le «idee» almeno, in tali momenti egli riuscisse a tener ferme. Non era ignota la sua irosa volubilità nei riguardi del servizio; e così, quale ora appariva su quella soglia, e sapendolo angusto, tormentato da manie, capace d’ogni animosità e ingiustizia, il «venerando uomo», il dotto di gran fama, lo «studioso all’antica», non suscitava soprattutto, un senso di commiserazione?
A contrasto, io consideravo l’altra figura. E non potevo dubitare: il «sapiente» Religioso, il «saggio» Abate si faceva reggere dal braccio di quell’ultimo fra i suoi dipendenti, vi si teneva così stretto, per ragioni in realtà a lui stesso oscurissime.
Saggezza, sapienza: grosse parole; e tuttavia si sarà inteso che le assorbiva e giustificava quel mio infervorato culto dell’«umanità». Ad esso sottostava, del resto, – e dirlo mi par quasi superfluo, – una più larga fede, non meno esclusiva: la fede, in generale, nelle qualità native e «sintetiche» degli uomini; col suo rovescio: una insofferente disistima dell’acquisto, dell’«analitico». Richiamo la vergogna, notata in principio, che mi dava la frequentazione dei libri tra la gente. Rievoco l’ex-compagno di scuola, che di solito in biblioteca mi sedeva accanto: perso sui libri intere giornate a tutto indifferentemente imparare, all’unico scopo di imparare. Il suo triste impegno mi faceva pena e ripugnanza insieme; e quale sollevazione d’orgoglio, se pensavo di poter essere paragonato a lui! Nessuno avrebbe mai sospettato, che là dentro io stessi ben altrimenti che da semplice «studioso»; e che i libri fossero per me, – o addirittura, Dio mi perdoni, per me solo? – un’«altra cosa». Ma ecco, prima, la necessità di una confessione. Mi piacque fantasticare, talvolta, intorno alla specie privilegiata degli eventi che sembrano in qualche modo legittimar l’idea di preordinazione ad un fine. E dico dunque che a ciò mi dette occasione anche il ricordo, sempre vivo negli anni, dell’uomo la cui figura mi son deciso infine a tracciare. Colui non mi si era presentato a testimoniare, personificandole meravigliosamente, alcune disposizioni fondamentali del mio spirito? e proprio nel tempo che di esse io prendevo un’inebriante coscienza, in condizioni favorevoli al loro imperioso risalto? Questo è certo: da una parte stava la genialità del mio umile eroe: dall’altra tutto quel mondo della faticata cultura.
Là intanto io creavo tutto un altro mio mondo da scoprire e conoscere con appassionato fervore. Stato di effettiva beatitudine, se ve n’è uno sulla terra, tale avidità intatta: non è essa la «gioventù assoluta»? Gli uomini esistiti ovunque e in ogni tempo, e forse quanto più accesi da passioni e lacerati da contrasti nelle pagine della storia; figure d’uomini, passioni, contrasti creati dal genio umano nei secoli; e l’umanità presente, viva e operante nella immensità e bellezza del mondo: tutto ciò, alla pari, perdeva ogni senso che non fosse di spettacolo, predisposto unicamente perché se ne esaltasse quest’ultimo venuto. Il quale credeva d’aver tanta ragione di riconoscersi fuori serie, fuori causa. Avesse potuto parlare; non glielo avesse impedito quel suo feroce pudore; sapremmo da lui stesso, anche da quale missione egli si sentiva fatalmente investito.
L’assiduità che posi nel frequentare la biblioteca, quella che mi si doveva poi imprimere nella memoria come la biblioteca per eccellenza, fu quindi una specie di sistemata frenesia. L’èmpito che ogni mattina me la faceva ricercare; l’èmpito che me la faceva lasciare!
Eccomi al mio posto. Davanti alle possibilità infinite, folgoranti in un unico momento, talvolta mi sentivo soffocare; e smarrito mi guardavo intorno. Pareva che la stessa sontuosità dell’immenso salone volesse sopraffarmi; attraverso le vetrate del balcone lì presso, al di là della via larga come fiumana, vedevo donne affacciarsi indifferenti a balconi e finestre, scomparire, ricomparire.
Ma sarebbe un bel raccontare, se potessero assumere forma comunicabile le mie occupazioni di allora, nel resto della giornata: i miei vagabondaggi, gli svagati itinerari. Fuori, dico, e dentro di me: slanci, stanchezze, cadute. E sempre quell’insostenibile struggimento a vuoto, verso sera, nell’ora che precede i lumi: d’estate, d’inverno; poiché le stagioni, infatti, m’era crudeli ciascuna a suo modo. E quel ritrovarmi poi d’un tratto con la mia felicità non solo ricostituita, ma ancor più splendida; dato che tutta l’affidavo, ormai, alle magnifiche «soluzioni» dell’indomani. La biblioteca entrava nel giuoco, e quanto. In me veniva addirittura a provarsi, che uno può pensare anche ad una biblioteca, dall’oggi al domani, come si pensa all’innamorata nell’attesa del prossimo incontro.»

(Alfredo Gargiulo, In biblioteca, a vent’anni, in Tempo di ricordi, p. 29-40)

Gariboldi (1944)

«Arriviamo così alla fine dell’inverno del ‘44: ultima fase della prigionia. Sapevamo dalle notizie provenienti ormai anche dai tedeschi stessi che il fronte si avvicinava. Seguivamo questo movimento sulle cartine che ci eravamo fatti noi stessi traendole da libri. S’era costituita una bella biblioteca nel campo con tutto quello che queste 15.000 persone si erano portate dietro, c’erano le cose più strane, dai classici ai fumetti, da trattati di archeologia o di astronomia a libri in varie lingue, si era messo tutto insieme e si poteva andare a prendere qualcosa da leggere quando si voleva.»

(Intervista a Mario Gariboldi sull’internamento subito nei campi di concentramento in Polonia e Germania, pubblicata in Deportazione e internamento militare in Germania, p. 127-138: 136. Il passo si riferisce alla permanenza nel campo XB di Sandbostel).

Garin (1996)

«Nella memoria, ed è ormai memoria di un periodo lungo e travagliato, il ricordo del Gabinetto Vieusseux si intreccia a tutte le vicende culturali che ho vissuto a Firenze dal '25 in poi. Ricordo che, poco dopo essermi iscritto alla Facoltà di lettere e filosofia dell'Università fiorentina, che da poco aveva preso il posto dell'Istituto di Studi Superiori pratici e di perfezionamento, ottenni di essere ammesso alla Biblioteca Filosofica allora diretta da Arrigo Levasti che conobbi così, e di cui rimasi amico fino alla morte, e, contemporaneamente, mi abbonai al Gabinetto Vieusseux. Mi pareva quasi un atto obbligato. Si era fra la fine del '25 e il principio del '26, in un momento cupo della vita nazionale. A Firenze, agli inizi di ottobre, le squadre fasciste avevano devastato studi di avvocati, bastonato e ucciso. Col '25 alla stampa era stato messo il bavaglio. Al principio del '26 la Biblioteca Filosofica, che allora aveva la sede in Piazza del Duomo, fu chiusa – e restò chiusa a lungo per una conferenza sulla libertà della cultura di Francesco De Sarlo, uno dei professori di filosofia dell'Università.
Per un ragazzo fresco di una 'maturità' faticosamente conquistata in anticipo, e ben deciso a laurearsi in filosofia, abbonarsi allora al Vieusseux non significava solo aprirsi alla possibilità di attingere a una biblioteca circolante d'eccezione, con la prospettiva di avere a casa e leggere in pace ogni sorta di libri. Era assicurarsi l'accesso, nei limiti del possibile, alla stampa europea: non solo alla consultazione di un deposito eccezionale di opere d'ogni genere uscite da più di un secolo in Italia e in Europa, ma alle 'novità' via via pubblicate dovunque. Era la possibilità di sfogarsi con un romanzo poliziesco inglese (ancora non erano 'gialli') come con una raccolta di versi francesi o tedeschi, col romanzo del giorno come con la biografia, col saggio o il libro di memorie di cui si parlava, con l'opera fresca di stampa come con gli autori di un secolo prima, italiani e no, che si scoprivano e che ci aiutavano a familiarizzarci con le lingue, che non imparavamo a parlare, ma alla cui lettura ci abituavamo.
Non so ricordare il Vieusseux senza ripensare alla 'biblioteca' di cui gli sono debitore, ai viaggi nel tempo e nello spazio che mi ha fatto fare, ai 'mondi' che mi ha reso familiari. La visita, prima al Palagio di Parte Guelfa e poi a Palazzo Strozzi, divenne quasi d'obbligo nel passare degli anni.
Certo il Gabinetto Vieusseux non fu solo questo. Col tempo scoprii sempre meglio il posto che nella cultura fiorentina dell'Ottocento, attraverso Firenze in tutta Italia, ebbe il Vieusseux. Capii come attraverso quei libri, quelle riviste che ancora potevo consultare, attraverso la circolazione di quelle carte, si era costruita una rete di rapporti e di interessi che aveva alimentato collaborazioni e ricerche altrimenti impensabili. Scoprii nelle mie ricerche curiose fra le carte della Biblioteca Nazionale dei grandi amici e collaboratori di Vieusseux un dialogo singolare che rendeva ragione della funzione di Firenze nella cultura e nel dibattito europeo fra Ottocento e Novecento.».

(Eugenio Garin, Ricordi di ieri, un invito per oggi, p. 5-7).