LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Gorresio (1980)

«Incominciava la mia clandestinità, che fu penosa ma non eroica. [...] Io però avevo un docunento che mi precettava come ausiliario di tipografìa, ed una carta di identità ben falsificata con le mie nuove generalità: Ariosto Ludovico del fu Giuliano e di Dalmasso Elisabetta, nato a Cortemilia il 18 luglio 1910. [...]
Divenni assiduo della biblioteca nazionale Vittorio Emanuele che stava allora al numero 27 di via del Collegio Romano. Presentandomi col nome di Ludovico Ariosto ebbi una tessera di ammissione alla sala A, quella riservata agli studiosi di professione. Ricordo il sorriso d'intesa dell'impiegata che consentì a rilasciarmela. Così potei condurre a termine il saggio sui Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini che il 25 luglio avevo interrotto a Genova e che l'editore Colombo mi pubblicò con il bel titolo La tirannide in berlina. [...]
Fare il topo di biblioteca mi dava pure altri vantaggi. La sala A della Vittorio Emanuele era allora frequentata molto bene, come un circolo exclusive o un ritrovo accademico. In quell'ambiente di grande rispettabilità era possibile fare la conoscenza di persone interessanti e autorevoli sul piano culturale e anche politico, poiché la sala A era un rifugio diurno abbastanza sicuro. Non era un covo di cospiratori nel senso proprio, ma un luogo di incontro fra gente di riguardo. Veniva Mario Vinciguerra a scrivere i suoi articoli per L'Italia lìbera, organo del partito d'azione clandestino. Facendomi onore mi chiese che collaborassi anch'io. Venivano molti altri, da Antonio Baldini a Bonaventura Tecchi a Enrico Falqui, non tutti disposti a presentarsi con il loro vero nome, e di quel sodalizio in biblioteca durante i mesi dell'occupazione tedesca della città mi è restato un ricordo gradito.
Veniva spesso Guido Piovene che in quei giorni si nascondeva a Roma in casa dell'attrice e scrittrice Flora Volpini, ed era ansioso di partecipare in qualche modo alla resistenza.»

(Vittorio Gorresio, La vita ingenua, p. 229-230).

Gozzano (1907-1908)

«Ora ti pregherei d'un favore: passa dal mio portiere, prendi un libro (del Mantovani) che troverai, e restituiscilo alla [Società di] Cultura; ti prego, fallo per amor mio: so che sei incatenato dagli esami, ma cerca un dieci minuti e un dieci centesimi per prendere il tram e precipitati all'uopo. Se vedi Colmo — e lo vedrai — digli che porti subito alla Cultura quel libro che gli avevo dato.»
(Guido Gozzano, biglietto a Carlo Vallini da Aglié, 22 [giugno 1907], in Lettere a Carlo Vallini, p. 32. Il primo libro da restituire è probabilmente uno dei manuali di diritto del prof. Domenico Mantovani Orsetti, usato dal poeta per un esame di giurisprudenza).

«Alla Cultura (lessi sulla stampa) si mulineggiò... quel buon Gianelli, l'ho trattato da cane anche lui: ma lo ricordo e gli voglio bene. Descrivimi quella serata letteraria. La Cultura! quando me ne parli, sento l'odore di certe fogne squartate per i restauri... Perché gettarvi i nostri volumi?»
(lettera a Carlo Vallini da Genova, 20 [dicembre 1907], ivi, p. 48-49).

«Mandami, quando ti capita, il Guerrin Meschino: lo puoi trovare alla Società di Cultura.»
(lettera a Carlo Vallini da Genova, 15 [gennaio 1908], ivi, p. 58).

Gramsci (1912-1913)

«Ho dovuto, perché proprio non ne potevo più, farmi fare il soprabito: oramai ero stanco di aver sempre i brividi addosso, e di non poter neppure recarmi in Biblioteca e alle lezioni serali, per non espormi al gelato venticello della sera, che mi faceva arrivare a casa un pezzo di ghiaccio«».
(Antonio Gramsci, lettera al padre Francesco Gramsci, Torino 19.I.[1912], p. 93. Gramsci frequentava soprattutto la Biblioteca nazionale di Torino).

«Scrivo in fretta, in biblioteca tanto perché la lettera parta subito.»
(Gramsci, lettera alla madre Giuseppina Marcias, [Torino gennaio 1913], p. 124).

Gropallo (1903)

«Prendendo, inoltre, a prestito da una biblioteca circolante opere di critica, di storia e di viaggi, la piccola Serao a tredici anni aveva già divorato un numero infinito di volumi.»

(Laura Gropallo, Matilde Serao, in Autori italiani d'oggi, p. 176)

Guareschi (1949)

«Non abbiamo vissuto come i bruti.
Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti.
Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire. [...]
Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà.
Sorsero i giornali parlati, le conferenze, la chiesa, l'università, il teatro, i concerti, le mostre d'arte, lo sport, l'artigianato, le assemblee regionali, i servizi, la borsa, gli annunci economici, la biblioteca, il centro radio, il commercio, l'industria.»

(Giovannino Guareschi, Diario clandestino 1943-1945, p. XII-XIII).

Guccini (2010a)

«Biblioteche e librerie, che argomento, per me, coinvolgente. [...].
Ma partiamo dalle biblioteche. Ho avuto a che fare con queste abbastanza presto, nella mia vita. Mi sembra ci fosse scritto Biblioteca della GIL (Gioventù italiana del littorio) in quei libri che un antico funzionario del PNF del paese, temendo l'imminente arrivo degli americani, diede frettolosamente a mia madre perché, in qualche modo, se ne sbarazzasse.
Erano belli da vedere, con copertine in cartoncino e il simbolo delle Edizioni Mondadori intrecciato in qualche modo sulla costa telata a un fascio dorato, pieni poi di pagine illustrate; mia madre non se ne sbarazzò. È stato quello quindi il mio primo incontro con una "biblioteca" anche se, devo ammetterlo, era un po' di parte, piena di comunisti "cattivi e sovversivi" e di italianissimi e fascistissimi eroi buoni (non è poi cambiato di molto, il nostro mondo, da allora). Non ricordo tutti i titoli, ma c'erano anche Il piccolo alpino e libri ugualmente edificanti, sulla guerra d'Africa che ci "dette l'Impero", i voli transoceanici di Italo Balbo, giovinetti che si immolavano per la Patria e cose così. Dico c'erano perché, nel tardo dopoguerra, fui costretto da momentanee disavventure economiche a "furarli" da casa e a venderli, uno a uno, a un bancarellista di Canal Chiaro, a Modena, che, forse comunista cattivo e sovversivo, ghignò nel vedere quei reperti del Ventennio.
La seconda biblioteca arrivò più tardi, e fu quella dei Postelegrafonici, sempre di Modena. Mio padre mi portava un libro alla settimana, cercando che fossero in qualche modo "educativi" (ma perché tutto doveva sempre educare?). Rammento le favole dei fratelli Grimm, in un'edizione credo originale, non edulcorata dai vari Disney e che, oggi saprei dire l'esatto perché, mi terrorizzarono; mio padre forse aveva ingenuamente pensato che le favole, in qualunque modo scritte o presentate, fossero roba giusta per ragazzi. Ma quelle foreste così nordiche, piene di tranelli e lupi e orchi e streghe pronti a ghermire bambini, funzionavano in me peggio di quei libri gialli che, diceva la pubblicità dell'epoca, "non vi faranno dormire". Fortunatamente, ogni tanto, arrivava un Salgari, e i mari esotici, i misteriosi Tughs (si scrive così?) e le Tigri della Malesia mi riconciliarono con la lettura. Che continuò fino all'età quasi adulta, frugando sempre nella Biblioteca Postelegrafonica ma cambiando genere; furono gli autori americani, naturalmente per noi allora i preferiti, Hemingway, Dos Passos, Caldwell e Steinbeck, a farmi scoprire, soprattutto gli ultimi due, un'America di emarginati che non si conciliava con il sogno americano intravisto nelle patinate riviste tipo "Life" o "The Saturday Evening Post" lasciate dalle truppe alleate; soprattutto quest'ultima rivista, con le copertine disegnate da Norman Rockwell colme di tipi caratteristici, simpatici, così diversi da chi ti circondava, e pullulanti di buoni, ironici (ma non più di quel tanto ironici), sentimenti; che cosa avevano a che fare con gli hobos steinbeckiani di Tortilla Flat?
C'era anche la biblioteca scolastica, con libri un poco ributtanti, in cui scoprii però un autore western, certo Pearl Zane Gray, che immaginavo, chissà perché (forse il nome), donna. Nonostante questa evidente lacuna mi piacque, forse perché si conciliavano con i primi sentori e fremiti adolescenziali quegli amori di rudi cow-boy che, solo qualche anno prima, avrei allontanato da me inorridito.
Anche il prete (ma da noi si diceva il sor priore), d'estate, su al paese, aveva una bibliotechina, ma era roba da disperati della lettura, da gente forzatamente in crisi d'astinenza, quando avevi ormai letto e riletto tutto attorno a te, anche i romanzi d'appendice della prozia, perché quelle pie storie un poco sadiche e iellatrici di santi o di missionari spesso alle prese con lebbrosi o martirizzati da feroci indigeni, non potevano certo sostituire un sano Sandokan. Ricordo, in particolare, un libro agghiacciante (non ricordo il titolo), la storia di due pii giovinetti, fratellino e sorellina, rapiti dai massoni (ma chi erano costoro, mi chiedevo allora?) e sottoposti a torture inenarrabili (ma come erano puntigliosamente narrate!) per costringerli ad abiurare la Vera Fede e a diventare, pensate un po', Liberi Pensatori. C'era anche una particola sottratta con subdoli sotterfugi all'uso dovuto e usata per riti blasfemi. Pugnalata? Non ricordo, ma mi piacerebbe pensare che sanguinasse. Ovviamente, come nei romanzi d'appendice, tutto in fondo si ricomponeva e c'era il lieto fine, con i cattivi puniti e i buoni a godere la meritata ricompensa (ma quale? I fratellini si monacavano entrambi?).»

(Francesco Guccini, Non so che viso avesse, p. 98-100. La testimonianza prosegue con esperienze successive).

«Non c'è più purtroppo quel Pinocchio sul quale hai imparato a leggere, prima della scuola, sogno perso legato alla primissima infanzia, ma c'è, di un Collodi che è suo nipote, Sussi e Biribissi, "Storia di un viaggio verso il centro della terra" (che è un altro libro che hai letto, Biblioteca dei Postelegrafonici, nella Città della Motta [Modena]), e su c'è scritto:
"Per essere ricordata da te
caro Franco. zia Rina,
t'offre"».
(Francesco Guccini, Croniche epafaniche, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 51).

«È noia, la noia quotidiana del poco spazio, l’aradio è di là, e se non c’è qualche famiglia che litìga o un libbro della Biblioteca dei Postelegrafonici da lèggere ti muori dentro, come il giorno. Ogni tanto c’è la luce di quei libri, Tarzan de le scimmie, uno che è un Lord inglese che poi i suoi muoiono e lui lo alleva una scimmia e diventa uno vasco da matti, Kammamuri [ma Caramuru] l’uomo di fuoco, che fa naufragio, come Robinson, e parla di frutta strana che neanche quella del frutaròlo, con pere che sembrano pere ma molto più buone, vuoi mettere, e il pao de fero che è un albero con un legno d’una durezza bestiale, che ci fai tutto anche delle scuri, La guerra del fuoco, con gli uomini preistorici e i mamut, le favole dei Fratelli Grimm, ma sono un po’ diverse da quelle che ti raccontavano, che fanno anche un po’ paura, e Sandocan col quale voli e trasvoli, scordi buio e compiti, che ti dici, ma se la vita fosse solo lèggere e senza compiti e altre balle non sarebbe più tògo?»
(Francesco Guccini, Vacca d'un cane, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 35).

Guccini (2010b)

«In città, a Modena, un po' più adulto, scoprii la Biblioteca Estense, e la sua confortevole sala di lettura. Non fu l'amore per la scienza a spingermi lì, a piazza Sant'Agostino. C'è da dire che chi "faceva cabò" (in lingua: marinava la scuola) d'inverno, e non aveva denaro a sufficienza per posteggiarsi in un bar a giocare a biliardo, doveva in qualche modo ripararsi dalle inclementi intemperie e là, nella sala di lettura, c'era caldo e libri da leggere e da guardare, senza la noia di dover chiedere a qualcuno. C'erano scaffali che potevi liberamente consultare, l'innovazione era grande, senza chiedere a nessuno di alzarsi, andare a cercare il libro, ritornare al posto, leggere.
Tre furono soprattutto i libri che la tendenza generazionale ci spinse a cercare, una Storia del Jazz, con i misteri della scala pentatonica e delle note blues, poi Spoon River e le poesie di Federico García Lorca. Si ignorava naturalmente tutto di Edgar Lee Masters e dello spagnolo, ma ci piacevano i loro versi, al punto da impararli a memoria, come la formazione degli Hot Five e degli Hot Seven di Armstrong, e ci compiacevamo di citare, alle ragazzine sicuramente annoiate, i nomi di Louis Armstrong, Jack Teagarden, Kid Ory e altri che a noi rimbalzavano nella fantasia, poi declamare "A las cinco de la tarde, eran la cinco en punto de la tarde. Un niño trajo la blanca sábana. Una espuerta de cal ya prevenida. Lo demás era muerte y sólo muerte...", martellati da quel "a las cinco de la tarde" che Arnoldo Foà declamava così bene in un disco posseduto dai più fortunati di noi. Per concludere, naturalmente, col dire che: "Tutti dormono, dormono, dormono sulla collina".»
(Francesco Guccini, Non so che viso avesse, p. 100-101. Potrebbe riferirsi alla Storia del jazz di Marshall W. Stearns, uscita nel 1957 ma che non risulta nel catalogo dell'Estense, o a Il mondo del jazz di Livio Cerri, uscito nel 1958 e posseduto dalla Biblioteca. La testimonianza segue direttamente quella sugli anni precedenti e continua con ricordi di Bologna).

«La via Emilia partiva, come minimo, a est, dal ponte di Sant'Ambrogio, si spingeva verso il centro, lo attraversava fiancheggiando la Ghirlandina, e arriva[va] a piazza Sant'Agostino, dove la città moriva (e mi piace ricordarla agonizzante nei tramonti rossoviola primaverili-estivi) avendo, da un lato la Biblioteca Estense, e dall'altro l'Ospedale.»
(ivi).

«D'inverno ci rifugiavamo alla Biblioteca Estense, dove c'erano caldo e molti libri di pronta lettura. A pensarci bene, credo fossimo gli unici studenti al mondo che saltavano le lezioni per rintanarsi in biblioteca a leggere poesie. I nostri due grandi amori erano Edgar Lee Masters e García Lorca. Ogni tanto interrompevamo per ripassare la storia del jazz, ovvero di quella che consideravamo allora l'unica vera musica.»
(Francesco GucciniUn altro giorno è andato: Francesco Guccini si racconta a Massimo Cotto, Firenze, Giunti, 1999, p. 29).

«La mia prima biblioteca è stata l'Estense di Modena, nella cui bellissima sala di lettura noi, che facevamo "fughino" d'inverno, passavamo intere mattinate. Ricordo con precisione cosa leggevamo: Edgar Lee Masters, che allora era di gran moda, storie del jazz. Molti di quella generazione erano legati al jazz [...]. Una volta, colto da curiosità, chiesi anche il Corano, con testo a fronte, naturalmente.»
(Rino Pensato, L'Eden è una biblioteca di libri non letti: libri e biblioteche nella realtà e nell'immaginario di Francesco Guccini, cantautore, scrittore, ma soprattutto lettore [intervista], «Biblioteche oggi», 11 (1993), n. 2, p. 54-59: 56).

Guccini (2010c)

«Altri anni e altre letture. A Bologna la biblioteca più frequentata negli anni Settanta fu quella della Johns Hopkins University, così più moderna rispetto all'Archiginnasio e informale come solo apparentemente gli americani sanno fare. Ci si poteva addirittura andare dentro con il caffè o la bibita, ci si poteva fumare (allora; si osasse adesso, si verrebbe linciati). Che bello scoprire che una biblioteca non era un temuto e claustrale luogo di pena dove diffidavano di te, molto restii nel consegnarti un libro, ma poteva anche avere piacevolezze mondane. Là ti prestavano i libri così, facile, con il solo dare il tuo nome, cognome e indirizzo, una pacchia sconosciuta alle più ringhianti biblioteche italiane. Si portavano a casa libri di colorati spartiti americani, e c'era in aggiunta la possibilità di incontrarli dal vivo, questi americani. Ma americane era meglio.»
(Francesco Guccini, Non so che viso avesse, p. 101).

«Un americano verace non lo incontravi tutti i santi giorni, se non quelli della Hopkins, ancora anco loro quasi tutti in giacca e cravatta, tu là a frequentare the Library dove, incredibile a dirsi, non solo potevi portar dentro cochecole ed altri generi di primo conforto ma ti permettevano anche di fumare le tue scarse paglie, una ceneriera per desco, cosa vietatissima nelle nostrali biblioteche, e allora a Cittanòva tutti i Giovani Leoni la conoscevano, la biblioteca dell'USIS (United States Information Service) un po' forse una succursale della CIA. Là ce n'erano a pacchi, di amerindi, ma non è che ti filassero tanto.»
(Francesco Guccini, Cittanòva blues: romanzo, Milano, Mondadori, 2003, p. 140).

«Ho un buon ricordo anche della biblioteca della Johns Hopkins University di Bologna, che frequentavo da studente, perché l'accesso era molto semplice, si prendevano i libri direttamente dagli scaffali e si portavano a casa esibendo soltanto un documento d'identità. Io amo le situazioni poco complicate e rilassanti [...].

E oggi, ti capita ancora spesso di entrare in qualche biblioteca?

A volte, ma non più come da ragazzo, quando la necessità di ricorrere alla biblioteca pubblica era anche di natura propriamente economica. Oggi, che non sono
ricco, ma almeno posso permettermi di comprare i libri che voglio e che mi servono, preferisco leggere e scrivere a casa mia».
(Rino Pensato, L'Eden è una biblioteca di libri non letti: libri e biblioteche nella realtà e nell'immaginario di Francesco Guccini, cantautore, scrittore, ma soprattutto lettore [intervista], «Biblioteche oggi», 11 (1993), n. 2, p. 54-59: 56).

Guccini-Macchiavelli (1998)

«Li accolse il fresco dell'Archiginnasio, il silenzio delle sue sale e il profumo dei libri.
Santovito non avrebbe saputo da dove cominciare e lasciò che se la cavasse Raffaella che ne sapeva più di lui. La ragazza prese il tagliando d'ingresso e fece segno a Santovito di seguirla. Trovò quasi subito la scheda nei cassettini dei vecchi mobili, schede vergate da una penna in un'elegante grafia in chiaroscuro, da chissà quanti anni. Compilò il tagliando con i dati della scheda, lo consegnò al bibliotecario e andò a sedere nelle antiche panche, sempre seguita da un Santovito silenzioso e quasi intimorito. Di tanto in tanto il passaggio di un tram per via del Pavaglione faceva vibrare i vetri delle enormi finestre. Per il resto, silenzio e caldo.
«Il Gozzadini» mormorò Raffaella «è stato fra i primi a impostare scientificamente lo scavo archeologico; di ogni tomba registrava le dimensioni ed eseguiva personalmente o faceva eseguire i disegni degli oggetti trovati... Vedrai. Scoprì la prima necropoli dell'età del ferro nella sua tenuta di Villanova, vicino a Bologna... Di là è venuto il termine di "civiltà villanoviana"...»
Si interruppe e si alzò per tornare al banco del prestito: il bibliotecario era appena rientrato in sala di consultazione con il grosso volume. Raffaella lo portò al tavolo, lo sfogliò rapidamente e si fermò alle belle illustrazioni.
«Stupefacente, sono identici, sono i gioielli che Stelio ha disegnato, non c'è dubbio!» mormorò.
«Sì, sono loro» e Santovito controllò il titolo di copertina: «Di un'antica necropoli nel Bolognese; 1865 l'anno di stampa».
«Ma come accidenti sono finiti fra le mani del Romitto e poi fra quelle di Stelio?» si chiese Raffaella.
Santovito tornò alle pagine disegnate e vi posò le mani come per accarezzare le riproduzioni: «Io credo proprio di saperlo» e sorrise a Raffaella che lo guardava sorpresa. Aggiunse, sempre sottovoce per non turbare il silenzio della sala: «Cioè, me lo immagino». Si alzò. «Vieni che andiamo a controllare».»

(Francesco Guccini - Loriano Macchiavelli, Un disco dei Platters, p. 284-285. Il romanzo è stato poi raccolto, con altri due, in Appennino di sangue).

Guccini-Macchiavelli (2002)

[Il maresciallo Santovito] «Passò in ufficio per fumare un sigaro prima di andare a letto a leggere qualche pagina del romanzo che teneva sul comodino. Prima di lasciare Bologna ne aveva comperati alcuni, non tanti perché sperava di non restare lontano troppo a lungo, in una biblioteca di via Galliera che, oltre ad essere biblioteca circolante, vendeva anche romanzi usati. Gli piaceva leggere, un piacere che gli aveva trasmesso suo padre.
Era arrivato al terzo capitolo di E adesso pover’uomo, di uno scrittore tedesco [Hans Fallada] che la libraia, un’anziana signora che accarezzava i libri prima di metterli nelle mani dei clienti, gli aveva consigliato perché «parlava di povera gente ed era pieno di sentimenti umani».»

(Francesco Guccini - Loriano Macchiavelli, Lo Spirito e altri briganti, p. 39-40).

Guerrieri (1963)

«In un angolo della vecchia Biblioteca Comunale di Catanzaro, al pianterreno del Palazzo del Municipio, presso una finestra, la figura di un vecchio signore dalla lunga barba, con un berretto in testa, una pipa in bocca, un plaid sulle ginocchia... Lì vicino un braciere, e, dall'altra parte, uno scaffale sulla cui fiancata era qualche fotografia eseguita con la tecnica di tanti anni fa. [...] E libri e libri, in mano al vecchio Signore e al suo interlocutore, sul muretto della finestra, oltreché in tutto l'ambiente oscuro, oppressivo, dagli scaffali lignei non sufficienti a contenere i volumi ad essi destinati, e con un grande tavolo a disposizione dei lettori. E libri anche nello sfondo di questa prima stanza della Biblioteca Comunale di Catanzaro, in altro ambiente che si raggiungeva scendendo qualche scalino e che ospitava anch'esso, ordinati sì, ma stretti, stretti negli scaffali altre raccolte di volumi...
Quando entrai per la prima volta in questa Biblioteca Calabrese vidi quel che sopra ho detto.
Il vecchio Signore era il Direttore della Biblioteca: cioè colui che l'aveva in realtà costituita e la reggeva con competenza e con amore, il Barone Filippo De Nobili, uomo tanto dotto e generoso con gli studiosi, amato e stimato, chiamato il Barone Dott. Filippo De Nobili solo nelle carte ufficiali, ma da tutti appellato più familiarmente, affettuosamente Don Pippo.
[...]
Analogamente del resto, egli volle una nuova sede per la sua Biblioteca, vi aspirò come ad un sogno che credette per lungo tempo non realizzabile [...], ma... come «Sua» Biblioteca, Don Pippo sentì sempre quella degli angusti locali che videro tutta l'opera sua; quel «suo angolo» dove pensava, dove esaminava i libri, donde li consigliava, dove trascorreva più ore in rievocazioni e commenti; egli intuiva che nella nuova sede ariosa, dall'arredamento metallico, dal grande magazzino a torre, con impianti moderni, non si sarebbe più ricostituito, non sarebbe più quello.»

(Guerriera Guerrieri, Un bibliotecario rimpianto, p. 75-76, 79-80).

Pippo De Nobili

Guttuso (1991)

«Andavo a Palermo. Frequentavo il liceo. E frequentavo anche un gruppo di pittori futuristi della seconda ondata: Pippo Rizzo, Vittorio Corona e Giovanni Varvavo. Varvaro suonava il frecaletto, il piffero di canna. [...]
Era il '27. Venne a Palermo Marinetti. Lo conobbi con quei pittori. Leggevo molto. Avevo letto la storia della pittura moderna della Sarfatti, Cubismo futurismo e espressionismo di Corrado Pavolini, i libri di Soffici: erano i libri che potevo trovare in biblioteca. E guardavo la pittura solo attraverso le riproduzioni. Dipinsi due quadri nell'anno della terza liceo. Era il '30. Una spiaggia col mare e una palma, e un gruppo di donne alla fontana. Erano due quadri del gusto del Novecentismo: un po' di Carrà, un po' di De Chirico, sempre visti e studiati sulla carta stampata. Mandai quelle due tele alla prima Quadriennale romana. Vennero accettate. Arrivai a Roma il primo gennaio del '31.».
(Enzo SicilianoMa tu che libri hai letto?, p. 134-135; l'intervista è datata al 10 marzo 1973)

Hirschmann (1993)

«Racconto di Eugenio – oltre che di me – perché so che egli amava raccontare, l'avrebbe certamente fatto lui stesso, se non gli fosse capitato di morire. Ho la presunzione di saperne parlare meglio di altri, perché lui ed io avevamo ed abbiamo conservato fino alla fine una cosa in comune, anche se per tutto il resto la nostra convivenza, con il nostro continuo cercare e non trovare, è finita male. [...]
Ho conosciuto Eugenio Colorni nell'autunno del 1932 a Berlino, quando studiavo Hegel nella Staatsbibliothek. Si era messo a sedere vicino a me per due o tre volte nel grande emiciclo, e io avevo osservato che studiava Leibniz su enormi volumi antichi, prendendo appunti minuti e ordinati. Dopo qualche giorno egli mi fece qualche domandina scherzosa sui miei studi hegeliani, e interrompemmo le nostre letture per fare quattro passi insieme nel grande salone d'ingresso della biblioteca. Nel suo modo diretto espresse subito tre o quattro giudizi che si era formato su di me, osservandomi da vicino; non ne ricordo nessuno, ma qualcuno di essi probabilmente mi piacque o mi colpì. Si rise insieme e così ebbe inizio l'amicizia.Era allora lettore d'italiano presso il professor Erich Auerbach a Marburgo e veniva qualche volta a Berlino per completare i suoi studi leibniziani iniziati sotto la guida di Piero Martinetti a Milano. Dopo l'incontro alla Staatsbibliothek continuammo a vederci ogni tanto, anche se non così spesso quanto avrebbe voluto lui, e ci scrivemmo qualche volta tra Berlino e Marburgo.»

(Ursula Hirschmann, Noi senzapatria, p. 131-132).

Huetter (1963)

«Conobbi l’incomparabile e desideratissimo amico [Giuseppe De Luca] nel 1923, sicuramente in qualche stamperia o biblioteca; ma ogni circostanza di quell'incontro iniziale mi sfugge. [...]
Seguono otto lunghi anni d’ecclissi totale. Inesplicabili: i registri della memoria sono in proposito affatto immacolati di qualsiasi rimembranza. Ma un giorno d’estate del ‘33 il felice ritrovamento si verifica – occorre dirlo? – proprio in una biblioteca. Entro alla Casanatense, e presso i cataloghi mi scontro con un pretino occhialuto. Ci guardiamo: – Tu sei Huetter – Tu sei De Luca – Viemmi a trovare – Dove abiti?...»

(Gigi Huetter, «Concors» et «discors», la perfetta amicizia, in Don Giuseppe De Luca: ricordi e testimonianze, pp. 203-207: 203; il volume di ricordi su De Luca ebbe una prima edizione nel 1963 presso i tipi della Morcelliana, per poi essere ristampato nel 1998 in anastatica con le Edizioni di storia e letteratura)

Jedin (1963)

«Fonti di luce nel lavoro quotidiano costituivano per me le conversazioni con quanti condividevano i miei stessi sentimenti nella Biblioteca Vaticana, in quell’incomparabile luogo d’incontro della scienza internazionale, che a chiunque si nutra per qualche tempo dei suoi tesori diviene una patria spirituale. Tra gli spiriti affini, con i quali era possibile uno scambio di idee quasi quotidiano, figurava l’allora segretario della Biblioteca, Alcide De Gasperi, figuravano l’indimenticabile Auguste Pelzer, il piccolo mons. [Enrico] Carusi, e molti altri: figurava anche Giuseppe De Luca. Lo vidi e gli parlai la prima volta nella Biblioteca Vaticana, e ricordo ancora che l’occasione fu la sua recensione al mio Girolamo Seripando su Rinascita, ma non mi è dato rammentare l’anno, tanto meno il giorno di quel primo incontro.»

(Hubert Jedin, Incontri con don Giuseppe, in Don Giuseppe De Luca: ricordi e testimonianze, pp. 208-226: 219; il volume di ricordi su De Luca ebbe una prima edizione nel 1963 presso i tipi della Morcelliana, per poi essere ristampato nel 1998 in anastatica con le Edizioni di storia e letteratura).