LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
Per testimonianze relative a singole biblioteche vedi l'Indice delle biblioteche, per quelle di/su singole persone vedi l'Indice delle persone, per quelle relative alle biblioteche di una singola località vedi l'Indice delle città.
Per fare ricerche sulle parole delle testimonianze usare la casella Cerca nella barra in alto a destra.

Risultati della ricerca

Chinello (1975)

«Passammo la notte sul 26 aprile (del '45), in attesa dell'ordine di uscire per l'insurrezione, nell'officina di Giacomo Tenderini in campo S. Tomà, pronte le armi che ci eravamo man mano conquistate nei mesi precedenti disarmando i fascisti per strada e pronta anche una bandiera rossa con su ricamato in oro «Battaglione F. Biancotto» [...] Nell'attesa, ad un certo momento cominciai a riassumere e a commentare – l'ombra di Marx mi perdoni – il «Manifesto dei comunisti» che avevo letto e riletto alla Marciana – chissà come tradotto – in un volume di una collana fascista di economia. Quelli che, con pazienza, mi ascoltavano erano tutti, o quasi tutti, giovani operai.»

(Cesco Chinello, Nella Resistenza: prime esperienze politiche, in: 1943-1945, Venezia nella Resistenza: testimonianze, p. 495-501: 498).

Ciccotti (1908)

«Se il visitatore non è già disilluso nella sua curiosità o non è già stanco; se l’accompagnatore non ha troppa fretta si sale ancora un ramo di scale per arrivare alla Biblioteca... I libri, cresciuti di anno in anno, addensati negli scaffali, salgono sino alla soffitta, mettendo a dura prova la ingegnosità del bibliotecario per trovar posto ancora a quelli che vengono e che verranno, suscitando qualche preoccupazione per la durata di un equilibrio che, turbato in un istante, seppellirebbe, dalle altezze ove l’hanno ricacciata, sotto una valanga di scienza immagazzinata, il nido e l’arsenale de’ legislatori d’Italia. I curiosi guardano stupefatti quell’apparato, mentre cercano di smorzare il rumore de’ passi sulla stuoia e di sussurrare più discretamente qualche loro domanda, nella tema di disturbare i rari frequentatori alle prese con qualche stenogramma da rifare o con mucchi di libri frettolosamente affastellati da compulsare. Di tanto in tanto si apre e si richiude, sbattuta, la porta delle scale o dell’ascensore, e arriva qualche deputato, che deve preparare il suo discorso, e domanda ansiosamente al personale della biblioteca de’ libri che lo illuminino sull’argomento, che, sfogliati o leggiucchiati qua e là, lo facciano apparire pronto, saputo, dotto anche, un pozzo di scienza se occorre, se è possibile, di fronte a’ colleghi o almeno davanti agli elettori. I distributori frugano i grandi cataloghi, girano le lunghe corsie, si arrampicano sulle lunghe scale tremolanti, vanno, vengono, tornano, messi sempre nuovamente a contributo per trovare un altro libro, un libro più riassuntivo più universale più scansafatiche; e, dopo un’ora, dopo mezz’ora, il deputato riparte; e qualche volta il grosso acervo di libri lo aspetta per una settimana, per quindici giorni, per un mese; documento se non testimone de’ suoi studî profondi, mentre il suo discorso forma già l’ammirazione degli elettori che non lo leggono, od egli stesso corre le ferrovie d’Italia dietro una causa da vincere, un affare da concludere, o, magari, una cocotte da conquistare. Ma qualche volta la Biblioteca si popola insolitamente, ne’ giorni di grande votazione, quando gli ascari, come si chiamano i deputati ministeriali con tutti i ministeri, accorrono chiamati dal telegrafo, e gli avvocati specialmente si rifugiano lassù per compilare a più agio le loro comparse conclusionali o sbrigare le corrispondenze con i clienti, intanto che i campanelli si mettono a squillare con strepito folle per annunziare l’appello nominale imminente, e gli uscieri sollecitano gli ultimi ritardatarî.
Qualche volta anche la Biblioteca vede visitatori insoliti: in tempo di crisi ministeriali.
Mentre ovunque si danno convegni, e le trattative e gl’intrighi si annodano si sciolgono fervono da per tutto, e ogni occhio che guarda e ogni orecchio che ascolta può essere quello di un indiscreto o di un concorrente che deve ignorare; gli aspiranti al potere, i cacciatori di portafogli, i questuanti di sotto-segretari si danno la posta o si mettono in agguato in Biblioteca, dove si aggirano circospetti, chiedendo un libro che non c’è, troppo impazienti per leggere o sedere; finchè l’atteso arrivo, e dopo una mezz’ora, un quarto d’ora di promesse bisbigliate, di sollecitazioni, dall’estremo fondo della Biblioteca esce un nuovo ministro, o un deluso, che dal suo banco di oppositore, cauto e tenace, accomodante o stizzoso, ricomincia il lavoro di approcci o di scalata al potere.
E subito la Biblioteca torna ad essere silenziosa, solitaria, frequentata appena da qualche studioso o da qualche ex-deputato che pratica e conserva le abitudini d’inquilino di Montecitorio.»

(Ettore Ciccotti, Montecitorio, pp. 18-20)

Citati (2004)

«Anch'io sono stato normalista, dai diciassette ai ventun anni: 1947-1951. Dal 1949 al 1951, ho abitato in una camera bellissima nel palazzo del Vasari, che dà su piazza dei Cavalieri: camera alta sei metri, vasta almeno cinquanta metri quadrati, con austeri mobili moderni e un letto francescano in un angolo. [...]
Della Normale, ho anche buonissimi ricordi. Alle otto di mattina scendevo quasi nudo, in pigiama e vecchie pantofole, in Biblioteca (eccellente, ma molto meno ricca di quella di oggi): firmavo frettolosamente diciotto o venti schede (ora tutto sarà molto più regolare) e tornavo carico di libri nella mia camera vasariana, grondante di ricordi dei Cavalieri cinquecenteschi. Avevo il sogno infantile della scienza pura: la ricerca appassionata, acuminata, spassionata della verità, quale essa sia, con tutta la bibliografia necessaria.»

(Pietro Citati, Scuola, storia di un disastro annunciato, p. 50-51).

Coccioli (1963)

«Durante i quattro o cinque anni dei miei studi universitari, la Biblioteca nazionale centrale di Firenze l'ho vista soltanto «da una parte». L'ho vista dalla parte di chi vi entrava per chiedere in lettura cinque o sei opere rare a trovarsi o troppo care per essere acquistate in libreria; dopo una decina di minuti d'attesa davanti a un austero banco semicircolare in una vastissima sala dalla luce fredda e dai marmi littori, mi venivano dati (o non dati) i volumi richiesti, coi quali entravo in un'altra vastissima e in quegli anni gelida sala; mi mettevo a sedere in una seggiolona di cuoio davanti a una lunga tavola o banco o leggìo che fosse (e certo continua ad esserlo: l'unica differenza fra l'oggi e l'ieri è che oggi quelle seggiolone son più flosce d'allora); passavo lì – tremando di freddo – tutto il mio laborioso pomeriggio.
A volte, autorizzato da una speciale tesserina che mi era stata rilasciata dalla direzione, andavo in una delle sale di consultazione del primo piano, bellissime, dalle grandi finestre aperte (o più esattamente chiuse) sull'Arno; ivi m'era concesso di prender personalmente dagli scaffali i libri di cui avevo bisogno, e che erano e sono opere d'interesse generale, come enciclopedie, dizionari, testi di bibliografia, monografie consacrate tutte ad un determinato argomento: la cosiddetta «sezione toscana», per esempio. Tale durante quattro o cinque anni, è stata per me – il mio ricordo, nonostante quel freddo, quei tremiti, è colmo di gratitudine – la Biblioteca nazionale centrale di Firenze. Ieri mi è venuta la voglia di vederla «dall'altra parte»: da dietro la facciata.
Ne sono uscito con le gambe stanche – dal gran girare – e con la fantasia accesa.»

(Carlo Coccioli, Usava per segnalibro una salacca il più brutto bibliotecario toscano, «Corriere della sera», 88, n. 284 (6 dic. 1963), p. 3. Il ricordo si deve riferire agli anni intorno al 1940).

Codignola (1910)

«Pisa è città di silenzio e di raccoglimento: quanto fu fervida, agitata, violenta la sua vita passata, nell’ora della grandezza, tanto è stagnante e monotona l’odierna: dorme essa, come un’antica divinità obliata, il sonno delle glorie morte. [...]
Non vi è una sola biblioteca circolante decente: qualcuno che tentò l’impresa fallì: l’unica è ora quella della libreria Bemporad, composta in gran parte di romanzi da popolino. Neppure riuscirono pochi volenterosi ad istituire le biblioteche popolari. [...]
Nonostante parecchie lacune gravissime anche la biblioteca universitaria è assai ricca e rifornita: ma la sala di lettura è inadattissima ed insufficiente: essa non solo è adibita anche alla distribuzione, ma è nello stesso tempo sala di passaggio di tutti gli studiosi e degli impiegati, che devono attraversarla per recarsi negli altri locali, dove sono riposti i libri. Siccome le migliori opere, specialmente filosofiche e giuridiche, sono comprese nei lasciti e doni Carrata, Piazzini, Ferrucci e Gabba e non sono date a prestito, quello sconcio riesce dannosissimo agli studiosi ed esige una soluzione pronta ed energica, che non dovrebbe offrire soverchie difficoltà ora specialmente che si sta riordinando tutto l’edifizio universitario. È assolutamente impossibile raccogliersi nella lettura di opere scientifiche e filosofiche in una sala, dove si è disturbati ogni momento da un continuo andirivieni, sbatacchio di porte e cicalecchio di passanti e di impiegati. [...]
In questo ambiente di indifferenza e di mediocrità sono falliti finora tutti i tentativi di svecchiare un po’ la coltura e di agitare qualche nuova idea. [...]
Un gruppo di giovani tentò qualche mese fa di scuotere questo torpore e fondò un Circolo di Coltura, che si prefiggeva, oltre che una più intima e spirituale comunione fra gli studenti, l’apertura di una biblioteca circolante, di una sala di lettura con buone riviste italiane ed estere e più tardi di un’università popolare: i fondi dovevano essere raccolti con un ciclo di conferenze e poi con una sottoscrizione popolare. Ma i promotori ebbero l’ingenuità di invitare a parlare uomini, che agitassero idee con serietà e coscienza, e non le solite celeberrime e nauseanti nullità dell’accademia e del giornalismo, e mal gliene incolse.»

(Ernesto Codignola, Pisa, «La voce», 2, n. 5 (13 gen. 1910), p. 245-246: 245).

Colombo (2014)

«[A. G.] Sono luoghi che oggi frequenta per lavoro, ma in passato ha utilizzato la biblioteca come lettore?
[G. C.] Io ho studiato veramente tanto, alla Sormani, quando facevo l’università, perché era un ambiente in cui si poteva studiare molto bene. Adesso non so come sia. Io prendevo un libro a caso e me lo tenevo, ma avevo i miei da leggere.
[A. G.] Ah! Dunque era l’ambiente-biblioteca che lei utilizzava in quegli anni! Ma avrebbe potuto essere anche vuota di libri, tanto leggeva i suoi.
[G. C.] Beh, qualche volta succedeva anche che prendessi un testo lì perché mi serviva.»

(intervista di Alessandra Giordano a Gherardo Colombo, pubblicata in C'erano un giudice, un ragazzo e Dostoevskij..., p. 64).

Ancora nel 2014, Colombo è intervenuto sul tema del ruolo e l'importanza delle biblioteche in un contributo pubblicato sulle pagine di «AIB studi», 54 (2014), n. 1, p. 5, <aibstudi.aib.it/article/view/10027>.

Compagna (1991)

«Non c'è tradizione che si continui se non attraverso contaminazioni. Il dato acquisito sull'Illuminismo dalla cultura moderna è che non si può partire da zero. Antonio Gramsci non è partito da zero: tutt'altro. Ha preso Croce per interlocutore di partenza, non a caso. La questione è anzitutto di metodo, ma un metodo sempre più rifiutato. Oggi gli intellettuali sono intellettuali da assemblea: dico che la loro cultura scaturisce dal lessico assembleare e non più dalle biblioteche. Non dico che bisogna disertare le assemblee: dico che non bisogna disertare le biblioteche.»
(Enzo SicilianoMa tu che libri hai letto?, p. 57; l'intervista è datata al 20 dicembre 1975)

Consolo (1994)

«C'è qualche episodio particolare della tua infanzia che può spiegare questa tua "fame" di libri?

[...] Non solo in casa nostra non c'erano libri, ma a Sant'Agata – il mio paese – non c'era nemmeno la biblioteca.»

(Attilio Mangano, "La mia doppia biblioteca": a colloquio con Vincenzo Consolo, p. 38).

«Qual è invece il tuo rapporto con le biblioteche pubbliche, con il loro funzionamento e con il loro essere istituzionale?

Devo confessarlo, è un sentimento tutto speciale, è proprio un senso di angoscia. Forse si potrebbe parlare di un trauma originario, di una "prima volta" che rimane impressa nel mio inconscio e mi condiziona per sempre. È l'angoscia di non sapere trovare e reperire un libro, di non sapermi orientare con le segnature. Quando ero militare ed andai per la prima volta alla Biblioteca nazionale a Roma ricordo che ne rimasi sconvolto, mi sembrò la biblioteca di Babele. Ma mi rendo conto che è in un certo senso colpa mia.

Non è un giudizio con cui vuoi chiamare in causa le biblioteche pubbliche?

Forse, anche. Non so bene. Certo, se ho bisogno di un libro da prendere in biblioteca chiedo aiuto a mia moglie e lei si reca in missione e va a cercarlo in biblioteca, io non ci riesco. Ma in questa mia resistenza ci sono certo non solo delle ragioni psicologiche, c'è anche una parte di fastidio, potrei citare in questo senso un trattatello di Umberto Eco, De biblioteca [ma De bibliotheca], che fa una serie di esempi e di proposte per rendere il libro assolutamente raggiungibile.»

(ivi, p. 41).

Contini (1940)

«’Iοῦ ἰοῦ, carissimo,
sono arrivato un paio d’ore dopo la partenza del tuo treno: incrociato a Stresa, mi pare. Ero stato un giorno e mezzo a Milano, per collazioni in Ambrosiana. M’è spiaciuto proprio.
In Friburgo continua la Begeisterung per te, dal padre [Jean] de Menasce e universale. Ho visto la stupenda Reinhart. Direi quasi che Chardin ne è il re, come Konrad Witz della sorella.
Ciao, forse arrivederci presto.»
(Gianfranco Contini, cartolina a Giorgio Pasquali, Domodossola 28 gennaio 1940; p. 397)

Contini (1972)

«Passando una mattina al principio del mese a Milano, ho fatto chiedere tue notizie, mentre ero in Ambrosiana, alla Gina. Riposavi, e non volli disturbare quando uscii (avevo studiato un codice francese che dobbiamo essere stati in tre a guardare, il cardinal Federigo, Pio Rajna e io; mi giunse tranciato, voglio dire col piatto anteriore della legatura perfettamente staccato: "labile barbaglio" di che cosa?).»

(Gianfranco Contini, lettera a Eugenio Montale, Ronchi 15 giugno 1972, p. 246).

Contini (1985)

«Quando io conobbi Montale, il suo studio alla Direzione del Vieusseux, allora in Palazzo di Parte Guelfa, era allogato al sottosuolo (vidi poi che anche la sua camera di via Varchi era in un seminterrato). Montale stava in piedi dietro un alto leggio, dove mi fece intendere che la sua filiforme scrittura annotava sul primo avanzo cartaceo che gli venisse a tiro le parole che un raro, improbabile suggerimento gli forniva [...].
Mi iniziò subito al rito bigiornaliero della sosta alle Giubbe Rosse nella piazza detta allora Vittorio. [...] E c'erano le visite del Vieusseux da
narrare: il nipote di August von Platen sulle tracce dell'antico congiunto; Luigi Foscolo Benedetto, che a colpo scopriva documenti stendhaliani; Charles Singleton, allora in cerca di canti carnascialeschi, di cui Montale ammirava il perfetto italiano, e che sarebbe comparso spesso negli ultimi versi in funzione di patrologo. In questi si ritroverà anche una squisita apparizione di Pio Rajna.»

(Gianfranco Contini, Istantanee montaliane, in: Eugenio Montale: immagini di una vita, a cura di Franco Contorbia, Milano, Librex, 1985, p. V-XII; poi in Amicizie, p. 99-117: 106-108).

Contini (1988a)

«Angelini fu, del canone degli scrittori contemporanei, il primo che frequentai; quello verso il quale nutrii perciò la maggior soggezione. [...] Nella sua antica città aveva una camera particolarmente arcaica, mi pare, in Seminario, che non saprei ricostruire se non come sede di amabili prestiti di libri. [...] Connetto con Angelini le prime letture dell'Esame di coscienza e anche, con entusiasmo, di Victor-Marie, comte Hugo, nel fascicolo dei Cahiers de la Quinzaine. Fossero prestiti suoi o dell'Universitaria [di Pavia], per quanto questa incertezza mi sia crudele, se ne ricava un indizio sicuro delle nostre conversazioni.
La quale Universitaria si raccomanda per copia di legno di noce. E sento il legno a sfondo di qualche battuta che ci scambiammo durante un incontro casuale, a bassa voce, sulla mia ultima passione, Tommaseo.»

(Gianfranco Contini, in: Per Cesare Angelini: studi e testimonianze, a cura di Angelo Stella, Firenze, Le Monnier, 1988, p. 117-119; poi in Amicizie, p. 133-137: 133-134).

Contini (1988b)

«Una cartolina postale francese segnò l'inizio della più rara simbiosi a cui la sorte benigna mi espose. Era un individuo d'una coppia scambiata, durante la scorsa guerra, fra due iranisti, residenti l'uno a Friburgo in Svizzera l'altro pro tempore dalle parti di Lione, che a prima vista (e ciò valga anche innocuamente per la più occhiuta censura) discutevano l'interpretazione di un passo in lingua pahlavī (il medio persiano, lingua dello zoroastrismo). Decrittate, le due cartoline contenevano indicazioni circa il passaggio della frontiera franco-svizzera per via di contrabbandieri. Era il momento in cui i Tedeschi, che da principio avevano occupato solo la parte della Francia a nord di Vichy, si accingevano a irrompere nell'altra metà, [...] dando fra l'altro la caccia agli israeliti (quali erano nella specie i due corrispondenti). L'ospitante era il padre domenicano Pierre de Menasce (ebreo ungherese d'Egitto, ovviamente convertito), l'esule era Émile Benveniste, il grande linguista delle Hautes-Études e del Collège de France [...]. Ecco dunque dietro la cartolina sorgere a Friburgo, e restarvi fino alla liberazione di Parigi, uno dei genî della linguistica di questo secolo [...].
Fui aiutato dalla circostanza che un amico, notabile della città, si era trasferito in una rustico-sontuosa villa di campagna, alloggiando Benveniste nella sua pristina casa perfettamente arredata, a distanza di due dalla mia, su un grande viale periferico. [...] L'appartamento era luminoso, piacevolmente ammobiliato e fornito anche di una simpatica bibliotechina francese (oltre al resto, il padron di casa, pro tempore direttore della Biblioteca Cantonale, era francese per parte di madre) [...].
Passavamo gran parte della giornata alla Biblioteca, dove Benveniste, per quel che potevo vedere, accumulava schede e appunti, non so anche se redigesse (si rifiutava alla macchina da scrivere): veniva preparando le grandi opere di dopo la guerra, di dove gli sarebbe venuta una gloria travolgente.»

(Gianfranco Contini, Émile Benveniste, «Leggere», 1 (1988), n. 7, p. 28-29; poi in Amicizie, p. 141-147: 141-143).

Contini (1989a)

«Ma a Domodossola non c'è, per esempio, un'ottima biblioteca? Quando la intervistai per l'uscita della Cronica dell'Anonimo romano, lei mi raccontava di aver incontrato per la prima volta l'Anonimo nella biblioteca di Domodossola... È così?

Verissimo. Purtroppo, se adesso dovessi andare lì a cercare il Muratori, non lo troverei. La biblioteca apparteneva a una fondazione; ora la fondazione è stata assorbita dal Comune, che per entrare attivamente in possesso della biblioteca doveva però versare una somma notevole all'erario. Questa somma il Comune di Domodossola, notoriamente povero, non l'ha o non l'aveva. E i libri giacciono tutti nelle casse. È una situazione assai triste. Ora mi fanno sperare che la cosa si muova.

E non ci sono altre biblioteche?

Sì: c'è l'ottima biblioteca dei Padri Rosminiani, della quale per la benevolenza dei Padri potei fruire. Quando uscii dal liceo, il Padre Generale, un uomo di grande venerabilità – io considero uno dei miei principali benefattori il padre Giuseppe Bozzetti – mi consentì la consultazione di questa biblioteca, che è in parte eccellente.
[...]
E io ho frequentato molto, per benevolenza del padre Bozzetti, la casa madre sul Calvario, dov'era una volta la biblioteca di Rosmini, che ora è a Stresa... è uno dei tanti Calvari del Piemonte e della Lombardia. [...] Io frequentai molto la biblioteca del Calvario – l'edificio era bellissimo: è stato costruito secondo lo stile di un Generale di grandissimo gusto, il padre Lanzoni –, e allora, lì, mi pareva di vedere i princìpi corporei, gli angeli.

(Diligenza e voluttà: Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, p. 30-32).


«Non mi ha spiegato, però, perché ha scelto lettere e filologia invece che matematica...

Le dirò che nel frattempo avevo cominciato a scrivere qualche recensioncina... [...] E siccome il padre Bozzetti, come già le dissi, mi aveva aperto le porte della biblioteca Rosminiana, lì trovavo cose umanistiche, e quindi l'incoraggiamento era tutto in una direzione. [...] Lì invece, tra quelle migliaia di volumi, veramente riuniti in modo insieme acuto e avventuroso, trovai pascolo per la scelta umanistica.»

(ivi, p. 127-128).

Contini (1989b)

«Lei ha ordinato la sua biblioteca secondo un criterio personale o ha seguito regole bibliotecarie, diciamo così?

No, no. Non ho seguito regole bibliotecarie. Sono regole che riguardano il mio uso, la vicinanza a me. Naturalmente faccio uso di qualche strumento elementare, come l'ordine alfabetico in certi casi, o l'ordine cronologico. Qualche volta divento puntiglioso per l'ordine alfabetico o cronologico. Per esempio, avevo ordinato i miei estratti, i quali ora sono nella più nera confusione – veramente una marmellata inestricabile –, avevo ordinato i miei estratti per ordine alfabetico e, entro l'ordine alfabetico, per ordine cronologico. Questo fu il massimo delle mie prestazioni biblioteconomiche. Ne ero abbastanza fiero, però. Per il resto, biblioteconomicamente, io sono nullo.»

(Diligenza e voluttà: Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, p. 192-193).