L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Raimondi (2012a)
«Il libro rappresentava così una sorta di salvatore, un compagno che mi conduceva in un paesaggio diverso. Anche i primi libri di lettura sono stati i libri di scuola: quelli della scuola elementare prima e della scuola superiore dopo. In quegli anni il libro scolastico – il primo e per un certo tempo l'unico disponibile – non era contrapposto al libro di fantasia: era la fantasia ordinata, che permetteva di crescere via via, pezzo dopo pezzo. La prima immagine della biblioteca si lega nella memoria a una bibliotechina di classe: ricordo ancora una lettura azzardata de Il circolo Pickwick di Dickens, di cui capii molto poco; probabilmente gli insegnanti avrebbero dovuto optare per un'introduzione... ma comunque la letteratura ispirava lo stesso, dava le sue impronte, le sue ragioni, i suoi impulsi, i suoi movimenti, le sue aperture. Sta di fatto che il libro scolastico aveva per me questa funzione, anche fantastica, e non lo avvertii mai come alternativo allo sbrigliarsi dell'immaginazione infantile. L'immaginazione infantile si riversava nel libro scolastico e il libro scolastico diventava il luogo del colloquio con un amico maggiore. [...]
Il punto di partenza di questa avventura del senso, l'unico ancoraggio possibile, è la biblioteca, cui sempre si ritorna. Da questo punto di vista si è come il personaggio mitico che ritraeva forza dal toccare terra; la biblioteca è la terra del ricercatore: essa ridà forza, ridà idee, è l'umanità convenuta per servirti, per darti una mano. Solenne e domestica, la biblioteca sta a metà fra un tempio e una cucina.
La scuola mi aveva presentato le bibliotechine di classe, con letture fatte per comando o per scelta deliberata e personale, ma il rapporto con la biblioteca pubblica venne più tardi, quando entrai nel mondo dell'università. In verità il primo incontro risale agli anni dell'istituto magistrale. Ero andato all'Archiginnasio per consultare un libro segnalatomi da un professore – che era un professore colto: il libro era La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz. Entrai nella grande sala di lettura, con il lungo bancone dei prestiti in fondo, e mi trovai di fronte un bibliotecario arcigno che si chiamava Morara – era anche lui un uomo di qualità, un personaggio, a suo modo un'istituzione. Alla mia richiesta, disse in tono minaccioso: «Perché vuoi vedere questo libro?». Ed io, con una voce fievole – forse avevo ancora i calzoni alla zuava – risposi: «Perché me lo ha consigliato il mio professore!». Non poteva credere che fossi un attore così consumato e quindi il libro mi venne concesso. Quando lo ebbi in mano capii il motivo di quella interrogazione sospettosa: fra le tavole del libro vi era la riproduzione della danza di Salomé di Gustave Moreau. Ma dopo questo episodio isolato, l'esperienza della biblioteca in senso pieno, e la percezione iniziale di essa come di un mistero costruito, avvenne, dicevo, quando entrai all'università, nel 1941. A quel tempo facevo spesso supplenze da maestro elementare e le lezioni universitarie mattutine non le sentivo. Il caso volle che alcuni corsi pomeridiani fossero di grande qualità. [...] Costume di [Pietro] Ferrarino era di segnalarci i libri senza darcene la chiave, ma presentandoli semplicemente come possibili aperture culturali, affidate alla curiosità e alla buona volontà di chi ascoltava. Fra questi, citò un libro di Devoto, Storia della lingua di Roma [...]. Ricordo che mi presentai al bancone del prestito della biblioteca universitaria – era la prima volta che salivo lo scalone monumentale, che per me, che venivo da un mondo popolare, aveva qualcosa di aristocratico e di esaltante – e chiesi il volume di Devoto. Lo ottenni ed entrai nella grande sala di lettura, fra le arcate alte e le luci che si piegavano sui tavoli, con un odore unico di paraffina o di petrolio, di pulizia. E, di là dal libro di Devoto, di cui non capivo quasi nulla, mi resi conto che il rapporto con la cultura è sempre un rapporto col nuovo che ci permette di conoscere e, nello stesso tempo, di imparare ad accettare i nostri limiti e a combatterli. Prima e più dei libri mi colpì l'apparato che mi stava intorno: questa specie di solennità intima, silenziosa, con le teste chine sopra il libro e una sorta di stupore, dinanzi alla profusione architettonica dei locali, testimonianza di un grande Settecento che arieggiava il Rinascimento. Era come se la storia, consegnata a un edificio, investisse il ragazzo, non ancora diciottenne, che per la prima volta si iniziava al mestiere della biblioteca. «Che cosa passa per la testa di quelle persone che leggono, ostinatamente, piegate sul tavolo e immerse in un nuovo cielo, dimentiche di tutto il mondo circostante?», come avrebbe detto Rilke, di cui solo più tardi avrei letto le pagine straordinarie del Malte sulla Biblioteca Nazionale di Parigi. I gomiti poggiati sul tavolo, la tenacia e, magari, la comprensione limitata che mi veniva dal libro severo; e intorno a quel tavolo, un mondo fatato, dove le luci delle lampade, che sembravano provenire da un'operazione magica, proiettate sulle pagine, facevano uscire i libri dal buio e lo sfogliare lento pareva dettare il ritmo di un silenzio persistente, nel quale la parola tanto più parlava quanto più era muta.
Quella fu la prima conoscenza della biblioteca. Anche in quel caso, l'occasione era stata il piccolo dovere scolastico, una ragione modesta che schiuse una realtà nuova e produsse un evento i cui effetti erano destinati a permanere nel tempo; dopo di allora, a mano a mano che raccoglievo volumi e prendeva forma la mia biblioteca, c'era sempre quel profumo che mi portavo dentro, era sempre quella luce ad accendersi, quel silenzio gravido di parole nuove e di colloqui possibili a prolungarsi. Consegnato per sempre alla memoria, il primo incontro seguitò a ravvivare i nuovi contatti con i libri, e accompagnò il crescere di statura e di passo di un'esperienza che si andava facendo più diretta e più motivata. Così la biblioteca diveniva l'universo del sapere, da esplorare pezzo dopo pezzo, secondo le scoperte e le opportunità più diverse; il libro non era più quello scolastico, il manuale modesto, bensì l'opera del grande studioso, il grande classico. Ma il processo intellettuale, e l'innesco emotivo dello stupore e dell'avventura, restavano gli stessi.»
(Ezio Raimondi, Le voci dei libri, p. 10-11, 19-21).
Raimondi (2012b)
«Non ricordo esattamente quando ho parlato la prima volta con Giuseppe Guglielmi. Ricordo invece l'immagine di lui stazionante nella piccola biblioteca della facoltà di Lettere, poco più di un appartamento. Siamo nei primi anni del dopoguerra. Mi colpiva questo giovane non molto voluminoso che, rannicchiato, leggeva in una tensione continua, evidente nella pressione dei gomiti sul tavolo, neanche dovesse sfondarlo. Come passassi dall'osservazione al primo colloquio, non so dire. So dire invece che furono i libri a stabilire il contatto. Aveva alcuni volumi di Gallimard, di poeti e prosatori, che lasciavano intuire una cultura francese diretta ed estesa, fuori dal comune per un giovane laureando, in tempi in cui non era facile procurarsi libri stranieri.»
(Ezio Raimondi, Le voci dei libri, p. 81).
Ravera (1961)
«Ho conosciuto soltanto le carceri fasciste femminili e devo dire che, a parte i carceri giudiziari dove il trattamento fatto alle donne era pressoché uguale a quello degli uomini, nelle case penali femminili, invece, c'era una differenza di situazione abbastanza notevole. Gli antifascisti maschi erano molto più numerosi nelle carceri, quindi potevano fare una vita in comune, sviluppare dei dibattiti, studiare, continuare anche lì la loro vita e la loro lotta. Le donne invece, dato il numero esiguo delle detenute politiche, si trovavano in genere isolate e raramente s'incontravano.
Nelle case penali femminili di Trani, Perugia e Venezia la custodia e la funzione di guardia carceraria erano affidate alle suore. La madre superiora era capoguardia, mentre il direttore aveva un'influenza molto limitata nella vita interna del carcere. Come era questo mondo? Come lo trovai a Trani, dove arrivai con una condanna di quindici anni di reclusione? [...]
Alle antifasciste carcerate si presentavano due problemi: il primo era quello del libro. In queste case penali non esistevano biblioteche; le suore sostenevano che nessuna detenuta aveva mai chiesto un libro. In fondo esse erano contrarie all'introduzione di libri nel carcere. Anche all'ordine d'insegnare a leggere e scrivere alle detenute analfabete, le suore fecero una lunga opposizione: c'era in loro l'idea radicata e candidamente sostenuta che era meglio che le donne non imparassero nemmeno a leggere. Nell'opinione delle suore, noi antifasciste eravamo diventate ribelli all'autorità perché avevamo imparato a leggere e avevamo letto dei libri che ci avevano deviate e corrotte. La nostra divenne una vera battaglia, anche perché per il riconoscimento ad avere dei libri né il Ministero né l'Ovra, che ci perseguitava, avevano interessi ad aiutarci. Trovai aiuto nel direttore del carcere, che era in fondo un'onesta persona: potevamo richiedere dei libri a qualche casa editrice, ma i libri sarebbero stati conservati dal direttore e consegnati uno o due alla volta a me e alla mia compagna di cella [Felicita Ferrero]. Ci fu concessa anche un'ora di scrittura al giorno sotto la sorveglianza di una suora che ritirava poi il quaderno e lo portava al direttore perché leggesse e verificasse ciò che avevamo scritto.»
(Camilla Ravera, Nelle carceri fasciste, in Trent'anni di storia italiana, p. 142-144)
Rea (1979)
«Al Gabinetto Vieusseux mi lega un ricordo fondamentale della mia vita di uomo e di scrittore. Nel lontano 1950 vi andai a leggere un saggio che decise il mio rapporto con Napoli e con il suo complicato e misterioso mondo. Recava per titolo: «Le due Napoli» e per sottotitolo: «sul carattere dei napoletani». Uno stato di allegria e quasi di felicità si spezzava e veniva ribaltato in un emisfero tetro dove le cose da guardare non permettevano che impressioni drammatiche. Da quel momento capii che non potevo scherzare in alcun caso con gli orrori del luogo comune che gravitano su quella città, più che cantabile, canzonabile... E ad avviarmi lungo questa strada non erano stati gli scrittori e i filosofi napoletani, ma il Boccaccio, che da Napoli prese molto – certa grandiosa teatralità, alcune nervature rapide dei suoi dialoghi – e che a Napoli diede la più sicura e leale interpretazione, tuttavia valida, con quel terribile, brulicante spaccato che va sotto il nome di Andreuccio da Perugia.
Napoli, dunque, raggiunta via Firenze e il Gabinetto Vieusseux – un mito dei miei verdi anni – conquistato, attraversando Napoli sotto la vigile guida di Messer Giovanni.
A invitarmi era stata Donna Lucia Lo Presti Longhi, questa grande scrittrice italiana e lo stesso inimitabile e irripetibile maestro di prosa Don Roberto, suo marito. Furono giorni vissuti in sogno. Avevo gambe lunghe, leggere come quelle degli astronauti. Ospite della Villa dei Longhi in via Fortini 30 e animato alle più grandi speranze dai conversari folgoranti di Don Roberto e di Donna Lucia, la mattina andavo al Vieusseux dove mi legai anche di affetto, essendovi già la stima, con Betocchi, Bonsanti, Parronchi, Rosai, Umberto Benedetto, legame variamente interrotto dalla distanza, ma non illanguidito dal tempo, dai ricordi e dal comune e laborioso amore per le ingrate lettere.
Firenze per me significava la Villa dei Longhi e il Gabinetto sito in Palazzo Strozzi. E ogni qualvolta vi ritorno, anche in privato e come di nascosto, non mi è possibile non andarvi a passeggiare dattorno; casomai fingendo di recarmi a comprare una cravatta nella ditta Principe dirimpetto. Un così antico istituto dove i nostri bisavoli confabularono sul Risorgimento e trattarono di grammatica e di odi saffiche, alcaiche, tropeiche e anarime, a me sa di giardino incantato, di sfrenata, ardente giovinezza, ahimè, finita in uno sciupìo di giorni, di tra il cinico e il ferino, che nessuno ci invidia.»
(Domenico Rea, in: Testimonianze e ricordi sul Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux, 1979, p. 9-10).
Ricci (1914)
«Benissimo! la sua entrata nella Classense è una festa per me. Da parecchi anni io non mi sentivo più di frequentarla, quantunque avessi per quei libri e quelle sale, un'adorazione antica. Fra l'altro, io amavo di leggere i libri, che avevo chiesto, nella cameretta dei Ravennati, presso la finestra con d'innanzi il placido spettacolo della campagna fertile e i lontanissimi Appennini. Ebbene: mi si negava ciò come al primo capitato o al più indisciplinato scolaretto. Ciò mi disgustava: ma Ella mi lascierà a quel posto. Appena avrò ricevuto l'elenco delle cose mie che la Classense possiede, manderò le mancanti. E saranno molte. Garantito!».
(Corrado Ricci, lettera a Santi Muratori del 3 gennaio 1914, citata in Giuseppe Cortesi, Corrado Ricci amico del libro, p. 141-142. Muratori era stato nominato direttore della Biblioteca Classense poco tempo prima e in seguito Corrado Ricci donò alla biblioteca i suoi libri e le sue carte).
Ricci (1924)
«Nella magnifica biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna càpita, o almeno capitava a' miei tempi, un numero su per giù uguale di lettori, cui era grato, sollevando lo sguardo dai libri per un po' di riposo, riguardare i vivaci trionfi araldici che riempiono le pareti di targhe, di animali, di fronde, di stelle, di fascie, di cimieri, d'iscrizioni.
Invece nella sala di lettura della Biblioteca Universitaria (più che nuda, squallida) il numero dei frequentatori variava sempre (e certo varia ancora) a seconda delle vacanze e degli esami, del caldo e del freddo della stagione. Il freddo, più ancora degli esami valeva a riempire la sala riscaldata, di studenti, tolti spesso all'indugiare nelle vie da un metro di neve e da una temperatura siberiana; ma poi al primo tepore di maggio ben preferivano starsene per le vie piene di gente o andarsene pei bellissimi colli che fiancheggiano, dalla parte di mezzogiorno, tutta la città.
Col luglio, infine, l'Università rimane deserta, e deserta, di conseguenza, anche la sua Biblioteca. D'altronde il caldo, che là non è da meno, per ferocia, del freddo, caccia da Bologna quanti possono sfuggire a' suoi portici, che riparano bensì dai raggi del sole, ma anche dal benefizio di un po' d'aria mossa e ventilata.
Eppure v'era allora un uomo libero, ricco, padrone di sè, d'una villa e d'una campagna, il quale preferiva soffrire nell'afa cittadina e nel tropico d'una saletta della Biblioteca universitaria esposta a mezzodì, piuttosto che permettersi il più ragionevole svago, al solo scopo di registrare quanti più mostri poteva, ricordati o descritti dalle storie e dalle cronache.
Quell'uomo era Cesare Taruffì professore d'anatomia patologica nell'Ateneo».
(Corrado Ricci, Ricordi bolognesi, p. 39-40).
Ridolfi (1957)
«Finchè un giorno [Giovanni Papini] non sentì dire da un ragazzo più grande che c’erano dei luoghi dove si poteva leggere qualunque libro senza spendere nulla, e averne anche più d’uno per volta, e che quei favolosi Bengodi erano le biblioteche pubbliche, ricche non a centinaia, ma a centinaia di migliaia, a milioni di volumi.
Mosse allora alla conquista della Biblioteca Nazionale [di Firenze], che era quella che ne aveva di più; ma fu sulle prime ributtato a causa dell’età. La storia di questo assedio alla città dei libri bisogna sentirla raccontare da lui sulle pagine di un suo libro famoso [Giovanni Papini, Un uomo finito, Firenze, Libreria della Voce, 1913]. Quando, poco più che tredicenne, dopo un intiero anno di assalti e di temporeggiamenti, l’ebbe finalmente espugnata per inganno, fu come un lupo digiuno capitato in mezzo a uno sterminato armamento. Ma non se ne saziò mai: tutt’al più ne fece memorabili indigestioni. [...]
Così il primo libro che chiese quel memorabile giorno, come ebbe espugnato la Nazionale, fu proprio il trattato di Giovanni Canestrini, La teoria dell’evoluzione esposta nei suoi fondamenti. E valeva di prenderne nota, come conferma che solamente un’ansia, una curiosità sfrenata continuavano a regolare, o piuttosto a non regolare affatto, la voracità del bibliofago in erba. Senza voler precorrerne le opere e i giorni, questa tendenza onnivora fu per Giovanni Papini edificazione e distruzione, rovina e salvezza.
Basta vedere le prime prede che azzannò quando fu nel bel mezzo di quel chiuso che ho detto; senza una guida, senza una disciplina, senza un disegno nè, si può aggiungere, un’istintiva regola. Veramente un disegno l’aveva: «saper tutto»; e non sapendo nulla, neppure da che parte rifarsi, sfarfalleggiava da questo a quel libro, secondo le voglie e la fantasia. Finchè, ahilui!, imparò a sfarfalleggiare su quei surrogati di ogni libro che sono le enciclopedie; e tanto lo inebriarono che gli venne addirittura la voglia di compilarne una lui, da solo, a quindici anni. Ed eccolo, ogni giorno libero dalla scuola, o dopo la scuola, in quella o in altre biblioteche cittadine, alla luce dei finestroni o delle lampade ad arco, scarabocchiare enormi quantità di schede e di appunti che la notte nella sua cameretta di ragazzo povero ricopiava in bella scrittura a lume di candela, forzando gli occhi sempre più stanchi, sempre più miopi. Arrivato all’articolo su Achille, certe parole incomprensibili greche lo umiliarono: graecum est, non legitur! Fu un salutare ammonimento e per poco non si ritirò come l’eroe sotto la tenda. Lo salvarono del tutto la sopraggiunta stanchezza e, forse più che un rinsavimento, l’irrequietezza della sua indole. Lasciò dunque l’impresa dopo qualche mese di furioso lavoro; ma il gusto dell’enciclopedie e dell’erudizione raccogliticcia gli doveva restare per tutta la vita.»
(Roberto Ridolfi, Vita di Giovanni Papini, p. 27-30. La testimonianza riassume fedelmente il racconto autobiografico di Papini pubblicato in Un uomo finito).
Ridolfi (1983)
«L'autore è continuamente bersagliato dai suoi affezionati lettori del «Corriere» con richieste d'informazioni o anche con strane proposte: perfino di spedir loro il volume in prestito; senza sapere che ho un solo esemplare della prima edizione [de I ghiribizzi] e nessuno della seconda, tanto è vero che quando ho voluto (proprio per scrivere queste pagine) saperne la data precisa ho dovuto ricorrere a una pubblica biblioteca.»
(Roberto Ridolfi, Storia de I ghiribizzi, in I ghiribizzi, Firenze, Sansoni, 1983, p. 7; Ridolfi pubblicò la prima edizione de I ghiribizzi nel 1968, presso l'editore Vallecchi).
Rodari 1973
«Nell'inverno 1937-38, in seguito alla raccomandazione di una maestra, moglie di un vigile urbano, venni assunto per insegnare l'italiano ai bambini in casa di ebrei tedeschi che credevano - lo credettero per pochi mesi - di aver trovato in Italia un rifugio contro le persecuzioni razziali. Vivevo con loro, in una fattoria sulle colline presso il lago Maggiore. Con i bambini lavoravo dalle sette alle dieci del mattino. Il resto della giornata lo passavo nei boschi a camminare e a leggere Dostoevskij. Fu un bel periodo, fin che durò. Imparai un po' di tedesco e mi buttai sui libri di quella lingua con la passione, il disordine e la voluttà che fruttano a chi studia cento volte più che cento anni di scuola. [...]
Io allora, ripartiti i miei ebrei in cerca di un'altra patria, insegnavo nelle scuole elementari. Dovevo essere un pessimo maestro, mal preparato al suo lavoro e avevo in mente di tutto, dalla linguistica indo-europea al marxismo (il cavalier Romussi, direttore della Biblioteca civica di Varese, benché il ritratto del duce fosse bene in vista sopra la sua scrivania, mi consegnò sempre senza batter ciglio qualsiasi libro di cui gli avessi fatto regolare richiesta); avevo in mente di tutto fuor che la scuola. Forse, però, non sono stato un maestro noioso. Raccontavo ai bambini, un po' per simpatia un po' per la voglia di giocare, storie senza il minimo riferimento alla realtà né al buonsenso, che inventavo servendomi delle «tecniche» promosse e insieme deprecate da Breton.
Fu in quel tempo che intitolai pomposamente un modesto scartafaccio Quaderno di Fantastica, prendendovi nota non delle storie che raccontavo, ma del modo come nascevano, dei trucchi che scoprivo, o credevo di scoprire, per mettere in movimento parole e immagini»
(Gianni Rodari, Grammatica della fantasia: introduzione all'arte di inventare storie, Torino, Einaudi, 1973, pp. 3-4.
Rolland (1895)
«Je me permets d'adresser tous mes remerciements à ceux qui, au cours de ma mission en Italie, m'ont facilité, par leurs conseils ou par leurs collections, ces recherches artistiques; à M. le professeur Riccardo Gandolfi, bibliothécaire du R. Istituto musicale de Florence; au Rev.dmo Padre Priore Dom Ambrogio Amelli, supérieur du Mont-Cassin; à S. E. le prince Chigi. J'ai une reconnaissance toute spéciale à M. le cavalier Berwin, le savant directeur de la bibliothèque S. Cecilia, à Rome, dont j'ai mis si souvent à contribution l'érudition sûre et l'obligeance infatigable.
J'ajouterai un regret: c'est d'avoir pu constater dans trop de bibliothèques, un esprit étroit et hostile au travail, qui n'est plus de notre temps. Entre toutes, je nommerai celle du Conservatoire de Naples.
Février 1894.»
(Romain Rolland, Histoire de l'opéra, p. 1. Il volume costituisce la tesi di dottorato di Rolland, che era stato due anni borsista dell’École française de Rome e menziona varie altre biblioteche italiane, pubbliche e private, in cui aveva lavorato, fra le quali la Barberini di Roma).
«Au reste, c'est à peine s'il faut le regretter; car «quod non fecerunt barbari, fecerunt... bibliothecarii»; et (à l'exception de quelques villes, parmi lesquelles je m'empresse de nommer Rome, Florence et Venise), il est tout à fait indifférent pour les artistes que les oeuvres de [Giacomo] Carissimi existent encore en Italie, puisqu'il est défendu de les lire. C'est ainsi que le Liceo musicale de Bologne détient une Messe autographe de Carissimi à huit voix dont il est interdit de transcrire une note (2).
(2) Le veto s'étend naturellement à tous les manuscrits quels qu'ils soient, ou du moins à ceux qui ont «une certaine importance», comme le dit la lettre que j'ai eu l'honneur de recevoir du municipe de Bologne, et que je m'empresse de transcrire:
«Libertas. 19 maggio 1893.
» Ill.mo Signore,
»Sono dispiacente di doverle significare che la dimanda dalla S. V. diretta all'Ill.mo Signor Sindaco non può essere esaudita, non accordando questo municipio per deliberazionc di massima più volte confirmata, facoltà di trascrivere manoscritti della Biblioteca del Liceo Musicale che abbiano una peculiare importanza.
» Con distinta osservanza, dev.mo,
» Il capo-ufficio. »
On me donna de cette mesure une raison singulière: la Ville voulait se réserver le monopole de ses manuscrits ignorés, pour maintenir la célébrité de son conservatoire. Il me semblerait plus sûr de l'illustrer par de nouveaux chefs-d'oeuvre, que d'y enterrer les anciens. Il est vrai que cela est moins aisé.
Au Conservatoire de S. Pietro a Majella de Naples, le veto ne s'étend pas seulement aux manuscrits, mais à tout livre, quel qu'il soit. Je me suis amusé à demander la permission de copier une page du Barbier de Séville de Rossini (édition courante), pour me l'entendre refuser.»
(ivi, p. 183-184).
«Francesco Provenzale est né vers 1610. [...] C'est à peine s'il signait ses musiques [...]. Il n'est donc pas douteux que beaucoup de ses oeuvres ne soient perdues dans les bibliothèques et les archives de la province de Naples, sous l'anonyme, ou même sous un nom d'emprunt. Le manque de liberté du travail et l'ignorance des bibliothécaires les y maintiendra sans doute encore longtemps.»
(ivi, p. 188-190).
Romagnoli (1917)
«I tedeschi chiamati in Italia non furono moltissimi: l’Italia non è la Turchia, non è la Grecia, non è nemmeno l’America; e il più elementare sentimento estetico rendeva insopportabile un professore che veniva a raccontarci i fasti di Roma, balbettando e deturpando la lingua di Dante. [...] A Roma, alla cattedra su cui aveva seduto Ruggero Bonghi, Giulio Beloch era stato chiamato dalla fiducia del governo italiano ad esporre la storia Romana. [...] Adolfo Berwin dirigeva, con la brutalità d'un caporale prussiano, la Biblioteca di Santa Cecilia. [...] Ma in ogni grande città d'Italia c'erano poi istituti scientifici tedeschi, formicolanti, come s'intende, di persone altrettanto scientifiche, stabili o di passaggio. Per rimanere a Roma, e lasciando stare il padre Ehrle, direttore della Biblioteca vaticana, il quale dunque operava su terreno neutro, c'erano i due grandi covi dell'Istituto storico prussiano e dell'Istituto archeologico germanico.
Del primo, non so gran cosa. Le vicende del secondo sono note anche al gran pubblico, perché se ne è parlato nei giornali. Sorse come istituto internazionale; ma con uno dei suoi abilissimi colpi di mano, la Germania se ne rese padrona assoluta. [...]
Nei primi tempi dell'alleanza fu sede ai dottissimi idillî degli scienziati tedeschi e italiani. Questi frequentavano la biblioteca e assistevano alle sedute: quelli scendevano per tutta Roma, e massime nel Foro, a scavare e far da padroni. Largivano anche, ai più fedeli aficionados italiani, diplomi di soci corrispondenti, ricercatissimi e gustatissimi.
Ma col tempo, il miele diventa fiele, il vino diventa aceto, l'amore diventa uggia. Un bel giorno, a dirigere gli scavi del Foro fu mandato Giacomo Boni, il quale con molto garbo chiuse le porte in faccia agli ex padroni. – «Ma noi rappresentiamo la scienza tedesca». – «E io rappresento il buon senso italiano». – Da quel giorno gli scavi cominciarono a dare i risultati che tutto il mondo conosce ed ammira.
Ma anche da quel giorno cominciarono i malumori. La cortesia teutonica si appannò d'un velo. I direttori sì, rimasero corretti verso gli ospiti italiani; ma lasciarono mano franca ad un bulldog, inserviente ma spadroneggiatore, il quale invigilava gli studiosi italiani come il gatto guarda il sorcio, e piombava su loro alla menoma infrazione ai centomila regolamenti della biblioteca. I diplomi divennero più rari: fioccarono invece restrizioni su restrizioni. Ad un bibliotecario gentile se ne sostituì da Berlino, per direttissima, uno cerbero. E ad ognuno dei menomi incidenti agrodolci a cui dette origine la politica un po' oscillante degli ultimi anni, partiva dall'Istituto la minaccia di chiudere la biblioteca agli studiosi, e il rimprovero di ingratitudine agli Italiani, perché, avendo quel po' po' di agevolezza di poter usufruire d'una tale biblioteca, non erano abbastanza pronti a curvar la schiena ad ogni beneplacito del divo kaiser e dei suoi rappresentanti di Roma.
[...] Ma il semplice concederci l'uso di una loro biblioteca, era tal servigio da poterlo compensare solamente il nostro più assoluto vassallaggio. E quando al vassallaggio ci cominciammo a ribellare, ancora assai prima che scoppiasse la guerra, le porte di quel paradiso archeologico furono infine inesorabilmente chiuse ai reprobi Italiani.»
(Ettore Romagnoli, Minerva e lo scimmione, p. 142-146).
Romano (1960)
«Bari, [18 aprile 1957] ore 7
[...]
Riattraversiamo la città nuova, cosí milanese che c'è perfino «il Motta».
Lungo la via centrale Stefano mi mostra a dito l'insegna di un negozio. Leggo: G. Laterza e Figli. Dio mio! Come ho potuto scordarmene? Le edizioni Laterza sono state il latte, per noi. Vagheggiate, centellinate nelle biblioteche al tempo dell'adolescenza squattrinata, poi i primi gelosi acquisti: l'Estetica di Croce, la Nascita della tragedia.
Attraversiamo la strada, con la reverenza e la curiosità del caso. La vetrina è piena di Santi, di statuine della Madonna e del Sacro Cuore. Dunque tradimento è l'anima del commercio! Ecco una buona signora col suo ragazzetto, vanno ad acquistare da Laterza un catechismo o una Piccola Filotea.
Giriamo l'angolo, e nelle vetrine di là i veri Laterza stanno allineati, distanziati signorilmente, nel sottile rarefatto silenzio del pensiero laico.»
(Lalla Romano, Diario di Grecia, p. 6, 9. La prima edizione dell'opera uscì nel 1960 a Padova da Rebellato).
Romano (1969)
«P. alla Biblioteca Civica.
«– Nei luoghi troppo organizzati io non trovo niente –. (Io idem: sono stata a Palazzo Sormani a cercare le riviste e non le ho trovate: e io sono stata bibliotecaria!)
«Vede un Ufficio Informazioni. Non c’è nessuno. Trova schedari, solo per autore. Domanda a un tizio, che lo manda al I piano. Altro Ufficio Informazioni. C’è uno che gli mostra gli schedari. Sono anche per materie. Trova il testo che cercava, ma si accorge di non avere carta e penna, e cerca di imparare a memoria la sigla della posizione. Poi si accorge che i libri non sono lí. Non osa domandare ancora, e guarda quello che fanno gli altri. Guarda di sottecchi “per non dar nell’occhio” (dice) e si accorge che hanno paura di lui!»
(Lalla Romano, Le parole tra noi leggere, p. 239)
Romano (1979a)
«Nei pomeriggi lo zio [Giuseppe Peano] mi portava con sé alla Società di Cultura o in tipografia. La Società di Cultura consisteva in piccole sale buie tappezzate di scaffali: nel silenzio scricchiolavano i pavimenti di legno ai rari passi degli studiosi. Lo zio mi diceva di chiedere il libro che volevo e io non osavo confessare che non sapevo come si facesse.
La tipografia era in via Nizza, in fondo a un vicolo, fra due muri di fabbriche e vecchi steccati, che mi facevano pensare ai film di Charlot. Lo zio aveva comprato la tipografia per stampare i suoi libri.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 10).
«Con Nella andai anche a dipingere in collina [...]. Mi invitò a passare una domenica con lei e suo fratello Ettore: avremmo fatto insieme una passeggiata. Non accettai: avevo il solito appuntamento con A. [Franco Antonicelli] Eppure sapevo bene che l'avrei visto per poco. Andavo a prenderlo alla Società di cultura (dove ero andata i primi tempi di Torino con zio Giuseppe [Peano]); assistevamo insieme alla messa a Santa Maria degli Angeli: un pezzo di messa all'impiedi in fondo alla chiesa, poi un pezzo di strada fino al mio – o al suo – tram.»
(ivi, p. 193).
Romano (1979b)
«In quarta ginnasio avevo composto una poesia. [...] Quella poesia e altre che seguirono erano comunque poesie contemplative, non sentimentali. Però in seguito le rinnegai: era urgente affrontare «prima» i problemi ultimi. Il mio filosofo fu Spinoza, «trovato» nella biblioteca del liceo, dove si poteva pescare in libertà.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 14).
«Io disprezzavo la pratica (l'utile); pensavo che un aspetto pratico l'avessero anche gli studi, se di natura scolastica. I libri scovati nella felice stagione del liceo: Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche, erano stati ognuno un messaggio, che io avevo accolto con un turbamento un po' trasognato come di solito si ha da un romanzo.
Qui [a Torino], nei primi tempi, a parte il fatto che non avevo libri perché non sapevo servirmi della biblioteca, il mio smarrimento era cosí grande, la mia ansia cosí urgente e le mie pretese cosí assolute, che l'avventura di un libro mi sarebbe parsa limitata.
Uno dei primi giorni, non avendo ancora interamente afferrato il sentimento della mia nuova condizione, con una sorta di distaccato ottimismo avevo acquistato un libro: con lo stesso criterio con cui sceglievo le mie letture nella biblioteca del liceo, cioè obbedendo a un impulso, quasi a un richiamo. Fu ancora un gesto di quel tempo.
Il libro era L'essenza del Cristianesimo dello Harnack, che avevo scorto nella vetrina di una libreria di via Po. Lo portai con me per qualche giorno, senza leggerlo; poi lo riposi nella valigia.»
(ivi, p. 128).
