LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

N.B. La casella di ricerca qui sotto opera soltanto sul titolo della testimonianza (di norma, cognome dell'autore e anno).
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Risultati della ricerca

Romano (1979c)

«Al liceo avevo scovato un piccolo libro, una cinquantina di pagine, che conteneva due poemi (in prosa) di Ibsen. Il primo titolo era un nome norvegese che mi suonò bellissimo: Terje Vigen. Cominciava: «Lontano, nel mare, sulla piú alta rocca, viveva un vecchio, amante della solitudine». Tanto bastava.
L'altro era intitolato In alto, titolo che ricordava Excelsior o La piccozza, cose che ritenevo ridicole; ma qui nulla mi pareva ridicolo. Frasi come «Io salgo verso l'immensità» mi suonavano esaltanti; e il finale: «Io non obbedisco piú che alla voce che mi comanda di vivere sulle cime delle Alpi. Per sempre ho abbandonato la vita della valle. Qui sopra con Dio e la libertà. Laggiú striscino pur gli altri!»
Nemmeno di questo parlai con Giovanni [Ermiglia, nel libro Oneglia], perché avrei dovuto confessargli che non avevo mai restituito il libretto alla biblioteca del liceo; non che mi rimordesse la coscienza – sentivo di avere il diritto di tenere per me il libretto – ma non volevo scandalizzare lui.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 140).

«Quello che piú mi incantava in Maria [Marchesini] era la naturalezza nel parlare di argomenti tanto appassionanti, come di cose consuete. [...]
Si stupí moltissimo che non conoscessi Hedda Gabler [di Ibsen]. – È stata per noi un simbolo! – disse. Io conoscevo Casa di bambola, che non avevo ben capito; e il meraviglioso La donna del mare, senza contare lo smilzo libretto che avevo rubato dalla biblioteca del mio liceo. In quanto al fatale Peer Gynt l'avevo visto ormai, a teatro (con Giovanni).»
(ivi, p. 173-174).

«Al liceo scovai nella biblioteca un sottile libretto dal titolo Terje Vigen. Era un poemetto in prosa di Ibsen. Parlava di mare e di montagna, di solitudine e di libertà.
Lo considerai tanto «mio» che non lo restituii mai. Il nome privilegiato diventò Norvegia, e paesaggio il fjord: parola intraducibile, ardita come la prua della nave vichinga.
Col tempo, teatro e letture mi resero familiari Nora, Hedda e la misteriosa Ellida, la Donna del Mare. Mi identificavo con esse e le pensavo nei loro paesi, altrettanto emblematici che le loro stesse storie.»
(Lalla Romano, Un sogno del Nord, Torino, Einaudi, 1989, p. 5).

Romano (1979d)

«Quand'ero bambina zia Carlotta mi piaceva perché era elegante [...].
Abitava a due passi dall'università e io salivo da lei quando non avevo lezione e non osavo ancora andare in biblioteca.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 28)

«Dopo che ebbi ritrovata [Rita] Casetta, che mi istruí, frequentai la biblioteca di facoltà, dove per lo piú prelevavo testi filosofici; ma anche ne compravo. Non solo le opere di Pastore, o di Kant, o di Croce. [...]
Pastore parlava con ammirazione grave di Bernardino Varisco. Temendo di ripetere l'antica gaffe sul Martinetti, non mi informai se il filosofo era morto o vivo, e dove. Presi in prestito il libro Conosci te stesso. Diventò «il libro»: per le amiche del pensionato. Lo chiamarono cosí perché lo portavo sempre con me, per esempio quando andavamo ad ascoltare Giuseppina [Vergani] che preparava le sonate per la festa di Notre Mère.»
(ivi, p. 129-130).

«La biblioteca di facoltà, un salone lungo e profondo a cui si accedeva da un ampio scalone, prendeva luce dalle alte finestre che davano sul secondo giro del porticato a colonne. La luce era pallida, malinconica. Le dorature dei vecchi libri nelle scaffalature avevano un luccicore discreto.
Le persone non erano interessanti. Un giovane avevo notato, occhialuto, pallido, magro, che aveva un tormentoso tic: attorcigliava attorno alle dita della lunga mano nervosa una ciocca di capelli neri, lisci, che poi ributtava all'indietro; e ricominciava. Mi faceva un po' paura perché mi ricordava Nino.
Io sedevo sempre allo stesso posto, in fondo a uno dei lunghi tavoli; sovente alzavo il capo, guardavo davanti a me la porta a vetri. Cosí lo vidi entrare la prima volta, poi infinite (?) volte.  Un giovane, ma non uno studente: un uomo incredibilmente bello.
Un'apparizione insolita, un po' irreale in quel luogo. Posò sul tavolo davanti a sé – con un leggero toc – un bastone (di malacca?) che portava appeso al braccio, posò il cappello, leggero e insieme un po' solenne, non sportivo come usavano tutti; poi si sfilò, sempre senza fretta, i guanti e infine il cappotto, un impermeabile chiaro, ampio, che gli scendeva dalle spalle a cannelloni armoniosi, come un peplo. Si muoveva con gesti misurati, con grazia virile.
Era già strano che io notassi l'eleganza. È vero che avevo detto: – Mi piacciono i filosofi, ma che siano eleganti –; volevo dire non sporchi, non goffi; e poi scherzavo. Del resto quello che mi colpí era qualcosa di diverso, qualcosa di piú nobile della cosiddetta eleganza.
Tornò tutti i giorni e ogni volta si ripeté la cerimonia della svestizione; si rivestiva, alla fine, con un tempo piú rapido. Quando stava per uscire, prima che si voltasse, incontrai qualche volta il suo sguardo: dagli occhi un po' socchiusi veniva un'occhiata breve, fredda, e leggermente maliziosa, ambigua.
M'incantava il suo capo chino sulle pagine. Lo guardavo come avevo sempre guardato le immagini della pittura. I suoi tratti erano insieme forti e dolci, inscritti in una pura forma geometrica: come diceva Venturi del *San Sebastiano di Antonello da Messina. Il riverbero dei fogli dava al suo incarnato un chiarore insieme tenero e severo.
Sui miei fogli cercavo di tracciare le linee della testa, che vedevo un po' di lato. La fronte alta e convessa, le sopracciglia lineari, il naso diritto, sensibile, la bocca dal taglio deciso e carnoso, il mento rotondo. Era giovane, non giovanissimo: due solchi seguivano i lati del naso e della bocca, senza mutarne l'essenziale serenità o indifferenza, proprio come in una statua.
Era un sottile veleno, che sorbivo in quella contemplazione? Io provavo gratitudine per quella visione: piú che mai mi sembrarono orrendi i vari ospiti della biblioteca, per lo piú vecchi, labbra cascanti, testa insaccata, occhi acquosi, curvi a grufolare sui loro testi. Non c'erano giovani, all'infuori di quello del ciuffo; le ragazze noiose, sgraziate.
Da principio non pensai a lui, fuori; fin che non mi accadde di vederlo anche in giro per l'università. Allora mi venne la curiosità di sapere chi fosse.
Di questo inizio ci fu una versione un po' diversa; piú completa e insieme piú reticente, in una lettera per Andrée. [...]
«[...] La stessa sera ero al Regio con un'amica, e notai nei palchi un giovane biondo che baciava con grazia la mano alle signore. Mi resi conto di averlo visto già all'università. Lo rividi infatti ogni giorno, alla biblioteca. Tu conosci la piccola biblioteca raccolta come una chiesa, dalle alte ampie finestre con le tende bianche come amavano i pittori olandesi del seicento.
Lo guardavo lungamente, senza saziarmi mai. Sedevamo di fronte e posso dire che non speravo neppure di essere notata. Mi piaceva moltissimo; conoscevo tutti i piani e le linee del suo volto, dolci e duri a un tempo, mi piaceva il suo volto chino, reso soave dall'ombra, i capelli lisci color dell'oro verde.
Presi l'abitudine di alzare gli occhi ogni volta che la porta si apriva. Ero nei primi tempi arrabbiatissima con me, perché diventavo come tutte le altre. In fondo anche perché dall'eleganza e dai modi lo giudicai di condizione molto elevata ed ero convinta che non ci saremmo mai conosciuti. Del resto mi pare strano anche adesso».
[...]
Da principio ero stata io a provocarlo. [...] Però cominciò lui – o era un caso? – a consultare i cataloghi quando c'ero anch'io nell'angolo sotto la scala di ferro a chiocciola, che portava agli scaffali alti. Non lo guardavo, in quei momenti; mi disturbava il mio batticuore, e poi per dignità, data la vicinanza. Nemmeno lui mi guardava: per civetteria, siccome non era pensabile che fosse per timidezza. [...]
Ormai ero sicura che si era accorto di me. Anche se non mi guardava, notai che caricava leggermente i gesti delle mani parlando con qualcuno.»
(ivi, p. 156-160).

«Accettò, mi parve con perplessità - di venire a posare. [...]
Mentre lavoravo e lui posava – lo vedevo di tre quarti – aveva lo sguardo sottile e un po' diffidente della biblioteca di facoltà.»
(ivi, p. 169)

«Io non penso molto spesso a Pavese e nemmeno questo invito mi ha sollecitata a farlo: mi è costato un certo sforzo. (Sono restia alle occasioni ufficiali). La mia amicizia con Pavese è stata intensa, ma abbastanza breve nel tempo. Eravamo compagni di università, ma – come ho raccontato in un libro – per me era una figura soltanto simbolica, di studioso ispirato, bizzarro, nervosissimo. Lo vedevo ai lunghi tavoli della biblioteca di facoltà: si attorcigliava continuamente il ciuffo dei capelli. Non ci siamo parlati mai; lui era timido e io non ero certo incoraggiante. Del resto lui non guardava le ragazze. Ci siamo conosciuti dopo.»
(Lalla Romano, Un sogno del Nord, Torino, Einaudi, 1989, p. 71. In Una giovinezza inventata il giovane lettore nervoso non viene identificato).

«Provo disagio a considerare queste persone realmente vissute, persone «storiche», e poi diventate personaggi dei miei romanzi. Un disagio che sempre mi si ripresenta quando si confondono i fatti della storia con la poesia. Certi personaggi esistono nella mia fantasia o sono stati da me rivissuti fantasticamente; perciò non è il caso di parlare di riferimento storico. Con alcuni, come con Pavese, l'amicizia è nata in seguito. Sebbene fossimo compagni di università, ci vedevamo per modo di dire, ci ignoravamo piuttosto nella biblioteca di Facoltà.»
(Lalla Romano, L'eterno presente: conversazione con Antonio Ria, Torino, Einaudi, 1998, p. 93).

«In Una giovinezza inventata racconti che fu con gli occhi che tu all'inizio incontrasti Franco Antonicelli, in biblioteca, mentre si toglieva il cappotto...
C'era qualcosa di sacrale nell'ingresso di questo uomo giovane, non giovanissimo, meno giovane di me. Bellissimo, con movimenti studiati. L'ho raccontato. Poi anche lui ha notato me; come si usava allora, mi aveva seguita per strada. È nato un incontro: sono stata subito delusa. Da che cosa? Dal fatto che questo giovane era mondano. Io detesto la mondanità. Era anche molto sensibile, molto colto. Siamo poi rimasti amici.»
(Lalla Romano, L'eterno presente: conversazione con Antonio Ria, Torino, Einaudi, 1998, p. 77).

Romano (1979e)

«Mi imbattei in lui [Antonicelli] nel passaggio che immetteva dalla scala buia all'ingresso della Nazionale, coperto da una tettoia di vetro. Io avevo in mano il Ceccardo di Viani (regalatomi da Giovanni [Ermiglia, nel libro Oneglia]). Pioveva a scroscio e il battere dell'acqua sulla vetrata era un rombo che sul mio essere ormai troppo sensitivo produceva una sensazione tra angosciosa e voluttuosa. Mostrai il libro e domandai: – Com'è? – Estroso, – rispose. Non era uno sprovveduto, in queste cose.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 166).

«Maria Marchesini aveva un aspetto bizzarro [...].
Con lei presi a frequentare la Biblioteca nazionale, prima nella grande silenziosa sala di tutti, poi nelle misteriose «sale riservate».
Doveva laurearsi in filosofia.»
(ivi, p. 172).

«Avevo poi scoperto che il direttore delle «sale riservate», l'avvocato N., era mio lontano parente (anzi, l'aveva scoperto lui stesso). Era un ometto gentilissimo, ironico, pettegolo. Gli piaceva intrattenermi – in dialetto – sui comuni cugini, ricchi e avari.
Diventai assidua, quando scopersi che anche lí potevo incontrare A. [Antonicelli] (di tutto il suo nome e cognome usavo solo quella lettera).
Attraverso i passaggi – le sale erano infilate una nell'altra – vidi la Marchesini e lui che si festeggiavano: a sorrisi, risatine. Lui era un po' starnazzante come quella volta al Regio. Lei gli restituiva dei fogli. Lui mi aveva vista, mi cercò e mi trasmise i fogli, dai quali saliva il suo profumo leggero, che a me pareva femminile.»
(ivi, p. 174-175).

«Col mio innamorato – ma potevo, chiamarlo cosí? – accennai alla mia scelta [della tesi, su Cino da Pistoia]. Approvò. Alla biblioteca di facoltà, mi passava – come all'esame – foglietti dove aveva ricopiato frasi che qualcuno aveva scritto su Cino. Mi faceva piacere vedere la sua scrittura.»
(ivi, p. 177).

«Sulla scala ripida e semibuia della Nazionale i baci furono meno beati e tanto piú ingordi. Spesso venivano interrotti, e sempre allo stesso modo. Da una porticina sul primo pianerottolo appariva, senza far rumore, l'omino odioso dagli occhi melensi, che stava sempre seduto a un tavolino prima dell'ultima rampa, a distribuire le schede. Ci staccavamo, e lui nel passare ci dava una lunga occhiata sorniona e complice.
Impossibile sapere se non si era mosso dal suo tavolino (nel caso che fosse il diavolo). In fondo gli ero grata: ci legava, accomunandoci.»
(ivi, p. 195-196)

«“Fare lo stupido” era un'espressione che si usava anche a Cuneo. Era ben quello che lo avevo visto fare: al Regio, per esempio, o nella biblioteca.»
(ivi, p. 198).

«Ero arrivata fin davanti alla porta stretta della Nazionale, senza pensare ad altro che all'appuntamento. La porta era chiusa. Subito dopo vidi che il pavimento dei portici era coperto da uno strato grigiastro di polvere di neve mista a coriandoli, qua e là a piccoli mucchi. Era martedí grasso e io non lo sapevo.
Rimasi un po' ferma sul marciapiede davanti all'università.»
(ivi, p. 204).

«Alla Biblioteca Reale si entrava non da un portone antico, ma da una piccola porta scura. Nessuno del resto vi faceva caso. Il Manichino stesso vi entrava con naturalezza, saliva la scala buia. La sala principale era lunghissima e altissima e lungo un lato erano aperte alte finestre; tutt'intorno erano gli scaffali pieni di libri. Gli uomini e le donne sedevano ai lunghi tavoli lucidi. Prima che il Manichino arrivasse, si avvertiva un senso di disagio, di ansiosa attesa. L'aspetto delle persone e delle cose diveniva a poco a poco piú marcato e inquietante, l'atmosfera insopportabile. Toccando la materia fine dei vecchi libri, le mani apparivano di carne, orlate di unghie nere, i corpi simili ad animali mostruosi enormi o rachitici, le teste curve come musi alla greppia, con guance e labbra cascanti, o le bocche sottili e velenose. Rumore di sedie urtate, di passi pesanti, carta stridula, tonfi; il tempo tormentato, strozzato.
La porta si apriva e appariva il Manichino, con passo leggero. Sfila il soprabito, i guanti; depone con grazia il cappello, la sua roba ha un leggero profumo – le sue mani come farfalle sfiorano le carte, il suo capo è biondo e luminoso – allora dagli scaffali severi sorridono le dorature dei vecchi libri.»
(ivi, p. 212, dai frammenti de Il manichino amoroso).

«(in biblioteca)... prendeva un libro o una rivista – li sceglieva a lungo e meticolosamente – poi sedeva e leggeva, voltava regolarmente i fogli, ma non afferrava nulla e le parole e le pagine scorrevano sotto i suoi occhi fissi e intenti nell'interna passione, come l'acqua di un fiume a chi lo guarda dal parapetto di un ponte, rapito da quel fuggire fatale e sempre uguale, senza pensiero o forse col pensiero della morte.
Ma queste false letture la stancavano e la tormentavano; essa voleva talvolta riprendersi e seguire un pensiero, che subito perdeva. Il tempo passava lentissimamente.
Una volta pensò di cercarlo nelle altre sale, penetrò fino nell'ultima. C'era un vecchio dagli occhi terribili e mobilissimi, un ragazzo miope dalla testa rapata. Era la sala della Geografia.
Con timore e fatica estrasse dallo scaffale un atlante, lo sollevò tra le braccia e lo depose sul tavolo. L'aprí a caso.
Poi, ogni volta lo discese con fatica dallo scaffale, e si curvava sulle enormi pagine. La sua sofferenza che diventava acuta nella immobile lettura, ora leggermente impazziva e si allontanava. Fingeva di cercare un luogo e seguiva pazientemente l'intrico della carta leggendo ad uno ad uno i nomi fitti e minuti dal suono misterioso, nella lingua incomprensibile. Il suo occhio e anche il suo dito che scorreva febbrilmente nella ricerca vana, era simile all'animo suo e ne rifletteva l'ansia e la pena. Cosí in un certo modo si placava.»
(ivi, p. 216-217, dai frammenti de Il manichino amoroso).

«Quando Giovanni si era accorto che ero infelice, aveva scritto per me una lunga favola. La accompagnò con una lettera.
«[...] Io mi ricordo che un giorno (mi pare fosse nel tempo in cui Venturi le aveva proposto di darsi alla critica d'arte), mi congedavo da lei che stava per salire alla Nazionale ed ella mi disse come conclusione di una delle nostre solite chiacchierate, di avere molta fiducia in me. Ricordo il tempo l'ora e il luogo, vede che ho dato importanza a quella frase. [...]».»
(ivi, p. 225).

«Per la fine d'anno del '28 avevo mandato ad A. una piantina nana di edera (credo giapponese), senza biglietto. Mi abbordò in biblioteca: – Sei forse tu... – Sí. – Ah! – fece lui.»
(ivi, p. 229).

Romano (1998)

«Per quello che riguardava l'italiano, avevo una mia teoria: volevo che gli allievi amassero la lettura. Oggi si fa tanto affinché i ragazzi amino leggere. Ma la lettura è come l'istruzione: non si può imporre. Io avevo un mio sistema. Nelle biblioteche scolastiche, anche dopo la guerra a Milano, avevo trovato libri mediocri. Perciò facevo portare i libri dagli allievi o li portavo io. E soprattutto, anziché leggere qualche frammento di un libro, io stessa leggevo interi capitoli di grandi romanzi, per esempio la storia della monaca di Monza dei Promessi Sposi, oppure il capitolo della morte del principe Andrea da Guerra e pace. I ragazzi si appassionavano molto.»
(Lalla Romano, L'eterno presente: conversazione con Antonio Ria, Torino, Einaudi, 1998, p. 19).

Roncaglia (1945)

«La Biblioteca Estense (triste entrare nelle sue sale e non vedere più al suo tavolo di lavoro l'assiduo Giulio Bertoni...) ha già riportato in sede e rimesso a disposizione degli studiosi – non molti in verità (ma ancor meno sono i visitatori di una pure interessantissima mostra d'arte alla Pinacoteca) – tutto il prezioso materiale manoscritto, che non ha subito perdite né danni. Danni seri ha subito invece l’Accademia di Scienze Lettere ed Arti, la cui attività è pertanto sospesa; mentre lavoro silenzioso e paziente d'isolato è quello che si continua alla Casa del Muratori, per la Bibliografia Muratoriana.»

(Aurelio Roncaglia, Lettera da Modena, p. 59).

Roncaglia (1979)

«Ma poi, anche a chi lo riguardi sotto il profilo dell’erudizione, l’interesse del Bertoni agli studi provenzali si scopre radicato in una dimensione umana che salda la cultura alla vita. [...] A chiarire questo punto nel modo più elementare e diretto, mi si perdoni di condiscendere a un ricordo personale: ch’è poi il ricordo del mio primo incontro con il nome di Giulio Bertoni. Avevo otto anni, quando mio padre portò a casa il quarto fascicolo della «Cultura» diretta da Cesare De Lollis, e sulle sue pagine mi fece vedere un articolo del Bertoni, intitolato Un ignoto provenzalista modenese: Carlo Roncaglia. «Guarda qui – mi disse –: si parla del tuo bisnonno». [...] Mi accennò a un importante manoscritto di poesie trovatoresche conservato nella nostra città, alla Biblioteca Estense: il bisnonno doveva averlo visto e forse studiato, come ora lo stava studiando quest’altro modenese, il professor Giulio Bertoni, tanto bravo che lo avevano chiamato a insegnare in Isvizzera e poi all’Università di Torino, ma che veniva spessissimo a Modena, dove passava le giornate in biblioteca, e là mio padre lo incontrava.
Là lo incontrai io pure, alquanti anni dopo, quando, entrato al Liceo, cominciai a frequentare la biblioteca. Si interessò ai miei studi, con tanta affabilità e benevolenza che io osai chiedergli consiglio su qualche lettura adatta a introdurmi in quel mondo dei trovatori pel quale m’era rimasta e si veniva ravvivando la curiosità. Sorridendo (gli occhi chiari dietro gli occhiali a pinza), mi suggerì di leggere le Osservazioni del Galvani: un libro del 1844! Stupito, domandai se non esistessero, sui trovatori, studi più recenti. Mi rispose che molti ne esistevano, e tra gli altri i suoi, ma intanto gli pareva bene ch’io cominciassi da quel vecchio libro. Perché? Semplice: di lì aveva cominciato lui, perché Galvani era modenese. La cultura autentica non può essere un universale astratto, disponibile a incarnarsi non importa dove e non importa quando: essa ha sempre radici in particolarità concrete, in «occasioni», della natura e della storia. Questa press’a poco, la spiegazione; ma le parole, che non saprei ora ripetere, erano più alla buona.»

(Aurelio Roncaglia, Giulio Bertoni provenzalista, in Giulio Bertoni 1878-1978, p. 92-93)

Roncetti (1985a)

«Nella storia culturale della nostra città la Mostra d’antica arte umbra [tenutasi nel 1907] si colloca al centro di una felice stagione, contrassegnata dal rigoglioso fiorire di studi storici e artistici e all’accorrere a Perugia di illustri studiosi italiani e stranieri. Ma inevitabilmente le luci dell’esposizione si spensero, così come ben presto si spengeranno i lumi su tutta l’Europa. Ed allora anche la vita della biblioteca [Augusta] ne risentirà, vedendo contrarsi il numero dei suoi frequentatori [...].
Nel mese di maggio del 1922 la Biblioteca viene dotata di quel fondamentale strumento amministrativo che la scienza biblioteconomica definisce registro cronologico d’entrata o registro d’ingresso. La prima registrazione (il numero 1 della serie) riguarda l’annata 1920 della rivista «Napoli nobilissima». Dopo sessantuno anni, alla data del 31 dicembre 1983, le unità registrate ascenderanno a 131.035.
Ma un’idea precisa delle dimensioni operative dell’istituto nel periodo tra le due guerre mondiali si ha esaminando la composizione dell’organico del 1928 (un bibliotecario, un vice-bibliotecario, un segretario, un distributore, un custode inserviente, oltre ad un impiegato straordinario addetto ai lavori di riordinamento); mentre l’entità del servizio al pubblico si esprime nei seguenti dati statistici: media annuale dei lettori in sede di opere a stampa e di manoscritti: 7000; visitatori delle collezioni esposte (codici miniati etc.): 1500; richieste di prestiti a domicilio: 1500. [...]
Si provvide anche ad una ristrutturazione dei locali e ad una generale riorganizzazione del servizio, che implica tra l’altro la destinazione a sala di lettura dell’antico refettorio dei priori: dimodoché l’ingresso del pubblico non avverrà più attraverso il portone che si trova di fronte alla Pinacoteca, e che immette direttamente nel Salone Podiani, ma attraverso una porta di accesso situata al piano intermedio del palazzo.»

(Mario Roncetti, Appunti per la storia della Biblioteca Augusta nel secolo ventesimo, p. 205-206).

Roncetti (1985b)

«Il secondo dopoguerra, che vede l’istituzione presso la Biblioteca Augusta di un centro di lettura dell’USIS (primo esperimento a Perugia del metodo degli scaffali aperti, che tra l’altro consentì ad una generazione di lettori il primo impatto con i romanzi di Faulkner, di Steinbeck e di Hemingway) è contrassegnato anche dall’intimo collegamento che si stabilisce tra la Biblioteca e la chiesa suburbana di S. Bevignate, perfettamente in linea del resto, da un punto di vista architettonico, con la precedente esperienza di Montelabate. Solo che allora si trattò di una breve parentesi di pochi mesi: S. Bevignate invece significa per l’Augusta quasi vent’anni della sua storia.
La commissione di esperti incaricata di verificare la stabilità del Palazzo dei Priori, che specialmente nel versante di via della Gabbia dava qualche segno di cedimento, nell’intento di diminuire i carichi gravanti sulle strutture dell’edificio, oltre che ordinare l’alleggerimento delle volte della Galleria e lo svuotamento delle soffitte da tutti gli scarti e detriti che vi erano stati accumulati, dispose anche lo sgombero di buona parte delle raccolte librarie della Biblioteca, quelle appunto conservate nelle sale adiacenti alla parete occidentale del palazzo. Fu così che, nell’estate dell’autunno del 1950, tutto il fondo antico, tutti gli altri fondi chiusi e la raccolta delle miscellanee furono trasferiti nel deposito di fortuna allestito nella grande navata della chiesa templare, in condizioni ambientali abbastanza precarie. Provvisto di custodia notturna, detto materiale non fu tuttavia completamente sottratto all’uso pubblico, ma reso disponibile ai lettori mediante un servizio di prelevamento, effettuato con automezzi del Comune tre volte alla settimana, che prese il via nel mese di novembre dello stesso anno 1950. Il deposito di S. Bevignate rimarrà funzionante fino al novembre-dicembre 1968.»

(Mario Roncetti, Appunti per la storia della Biblioteca Augusta nel secolo ventesimo, p. 208-209).

Rosini (2003)

«Fra il 1953 e il 1958, pur continuando a lavorare per il Partito [comunista italiano] e per l’organizzazione dei contadini e per i partigiani della pace, dedicai tuttavia buona parte del mio tempo all’attività parlamentare, che mi piaceva soprattutto perché mi consentiva di frequentare la biblioteca della Camera, ricchissima e ottimamente organizzata. Fui nominato, senza competitori perché era una carica gratuita e del tutto innocua, membro della commissione di vigilanza sulla biblioteca. Fu quello il punto più alto della mia carriera politica.
I frequentatori della biblioteca erano pochissimi, quasi tutti comunisti o socialisti, e vi feci amicizie che durarono anche in seguito: Enzo Capalozza, che ricordo col naso sempre appiccicato al libro perché a distanza maggiore non ci vedeva, che poi fu nominato giudice costituzionale; Vincenzo Cavallari, che ci andava la mattina presto per preparare il concorso che gli fece conquistare la cattedra di diritto processuale penale nell’università della sua Ferrara; Giambattista Gianquinto, che era stato il primo sindaco di Venezia dopo la liberazione, avvocato anche lui.
La biblioteca della Camera mi servì per studiare il regime giuridico della laguna veneta e per proporre una legge che chiarisse le ambiguità e le contraddizioni che nei secoli s’erano accumulate sulla proprietà delle valli da pesca. La mia proposta non fu mai discussa ma mi divertii molto a prepararla e a scrivere una dotta relazione per presentarla.
Altre mie proposte di legge (sei, per l’esattezza, ma soltanto una memorabile) ebbero la stessa sorte.
[...]
Il lavoro serio, che facevo in biblioteca e nella commissione finanze e tesoro, era disturbato dai lavori dell’Aula: cioè dalle forzate lunghe permanenze nel grande salone di Montecitorio, il cosiddetto Transatlantico, dove si dissipava buona parte del nostro tempo in attesa delle votazioni, mentre i colleghi parlavano nell’aula vuota. Quasi tutti discorsi prolissi e inutili, perché le decisioni erano state prese prima che iniziasse la discussione.»

(Emilio Rosini, L'ala dell'angelo, p. 154-155, 157).

Rossanda (2005a)

«Alla fine di quell'anno [1942] avevamo perduto tutto, casa e indirizzo, si mormorava che quelli dell'Armir morivano di gelo in Russia, Stalingrado non era nominata e io studiavo e annotavo nella biblioteca vuota e odorosa di cera con la sensazione vertiginosa che non avrei fatto in tempo a leggere tutto, a vedere tutto, lo scintillante pensato, dipinto, lasciato, pozzo pieno di voci che percepivo di fretta temendo che qualcosa me ne tirasse via. In un presente dove non capivo nulla, non vedevo niente, tutto si chiudeva, una cosa dopo l'altra, tutto mi era impedito fuorché aprire un libro, essere rimandati a un altro prima di averlo chiuso, spalancare porte e intravvedere scorci del passato – mai avrei potuto fermarmi, andare al fondo, sapere davvero, e come si faceva a capire senza conoscere quel che è stato scritto prima?
Cosí un senso di incompiutezza accompagnava quel che mi veniva fra le mani, ma era un innamoramento. Come spiegare che ebbi un tuffo al cuore nel trovare inaspettato un Luca Pacioli a Brera, eccolo in quarto e pergamena, le nitide proiezioni, da quanto tempo nessuno sentiva l'odore di umido delle pagine che con precauzione scollavo? E come dire l'allegria del pescare fra le schede piú antiche della Marciana, ancora in inchiostro, l'acca svolazzante di Hemsterhuis? Sono piaceri solitari e contro il mondo e preziosi e non sapevo bene dove metterli, prendevo e lasciavo. [...]
La guerra cominciava a darci qualche morso ravvicinato, dovette perdurare a lungo l'illusione che dal peggio saremmo stati esenti se fino a tardi le biblioteche non vennero imballate e sfollate. Brera era in disordine ma a Milano avevo trovato una Fondazione Beltrami al Castello sforzesco. Traversavo la grande corte e poi il roseo cortile della Rocchetta, sul soffitto del portico correva il motto di Isabella d'Este, Sine metu nec spe, sine spe nec metu – naturalmente lo avevo fatto mio – e una porticina nella muraglia portava nel grande spazio alto e quadrato della torre a ovest. Là, nell'antica sala del Tesoro, stava la biblioteca del fondo Beltrami, non c'era quasi nessuno e potevo avere un lucido scranno tutto per me e sul piano a cera lasciare i libri, molti, e passare dall'uno all'altro confrontandoli. Mi pareva una grande liberalità, lo era. È come se fosse ieri che ho aperto il Riegl, la Kunströmische Spätindustrie [ma Spätrömische Kunstindustrie]. Titolo arcigno. E d'improvviso le gemme che mi erano parse imperfette e le monete irregolari si rivelavano un altro metro del corpo e dello spazio, andavano a posto, per dir cosi, classicità e alba del Medioevo. Fuori la città forse sarebbe stata devastata quella notte, ma intanto c'era silenzio e oltre i finestroni scendeva una gran pioggia quieta.»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 56-58).

Rossanda (2005b)

«Alla fine del 1942 [a Milano] ci trovammo senza casa per via del bombardamento, e in attesa di trovare due stanze da qualche parte i miei ci rispedirono un'altra volta a Venezia. [...]
Me ne stavo per ore alla Marciana, leggevo i Lehrjahre di Wilhelm Meister e poi la Theatralische Sendung, il solo Goethe che mi sedusse, mi vergogno a dirlo. O alla Querini Stampalia dove Manlio Dazzi teneva sulla scrivania una rosa nella boccia d'acqua e il sole si liquefaceva sul noce lucido dei grandi tavoli ovali.»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 63-64).

Rossanda (2005c)

«Non so chi mi disse: Ma [Antonio] Banfi è comunista. Ero cosí fuori di me che puntai dritto su di lui fra un esame e l'altro. Se ne stava in sala professori, appoggiato al termosifone freddo accanto alla finestra. «Mi hanno detto che lei è comunista». Mi guardò, mi aveva fatto già due esami, dovette concludere che ero quel che parevo, una in cerca di bussola, che non percepiva neppure il senso mortale di certe parole. «Che cosa cerca?» Gli dissi dei volantini che finora avevo visto, della confusione, del non sapere. Si staccò dal termosifone, andò alla scrivania e su un foglietto scrisse una lista nella sua grafia minuta. «Legga questi libri, – mi disse, – quando li avrà letti torni». Uscii, corsi alle Ferrovie nord, in treno apersi il foglietto. C'era scritto: Harold Laski, La libertà nello stato moderno e Harold Laski, Democrazia in crisi; K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Un libro di De Ruggiero, mi pare. Lenin, Stato e rivoluzione. «Di S. [Stalin] quel che trova».
Restai pietrificata. Era comunista, proprio comunista. Bolscevico. [...] Scesi a Como, andai alla biblioteca comunale. C'era un addetto non piú giovane, gentile. Gli tesi il foglietto. «Guardi nell'ultimo cassetto, – mi disse, – quello che non ha etichetta». Mi avviai al vecchio classificatore dai cassetti quadrati. In fondo, in basso, ce n'era uno in bianco, come fosse ancora da riempire. Tirai verso di me. Era pieno. In ordine. Trovai tutto, anche un K. Marx, Il capitale delle edizioni Avanti!, copertina di tela e una piuma rossa – o era una bandiera – sbiadita. Di S. non trovai niente. Sull'Urss c'era un libro di viaggi d'un ingegnere. Compilai le schede e il bibliotecario mi portò i testi. «Li posso portare a casa?» Annuí. Non ci dicemmo niente. [...]
A casa lessi tutta la notte, un giorno, due giorni. Non andai a Milano. Come rientrava, Mimma mi prendeva di mano gli stessi libri. Papà e mamma non chiesero che cosa leggessimo, non chiedevano mai. Da Laski saltai al 18 brumaio e da questo a Stato e rivoluzione. Mi venne la febbre, macigni interi cui ero passata accanto andavano a un loro posto, non potevo piú fare come se non ci fossero o fossero fatali. [...]
Lessi tutto, qualcosa rilessi. Solo Il capitale mi cadde dalle mani, come non fosse il piú urgente. [...]
Tornai a Milano, filai da Banfi. «Ho letto». Tutto? Annuii. Che cosa devo fare? Mi dette un nome, una signora, una professoressa di Como. Vi andai, mi aspettava. [...]
Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in un'avventura di molti, accettando di fare e andare dove mi era detto.»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 73-75, 78. L'episodio si colloca nell'autunno 1943).

Rossanda (2005d)

«Andavo e venivo da Milano e commisi un errore. [...] eravamo riusciti a mettere a punto un'operazione ai danni della X Mas, [...] era un giorno dei primi di ottobre [1944] e parve opportuno che mi togliessi di mezzo. Andai in bicicletta nei pressi di Varese, a Venegono, dove nella biblioteca dei Caproni mi si permetteva di vedere un libro dell'Alberti ormai introvabile, Brera era sfollata. Piú innocenti di cosí si muore.
Verso il tramonto tornavo in bicicletta e sulla piazza di Como mi intercettò la bella creatura. Era terrea. «Non tornare a casa, ho già avvertito tuo padre». Aveva dovuto denunciarmi, era legata a un ufficiale tedesco che la aiutava.»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 93-94)

Rossanda (2005e)

«Alla fine del 1945 avevamo schiodato a Brera le casse dei libri che tornavano in sede, erano stati imballati in fretta, lavoravamo nel giubilo e nel disordine, fermandoci a leggere accoccolati sui talloni se un testo agognato veniva infine in mano. C'era un'aria di trasloco, ricominciamento.
Tornavano a funzionare Pinacoteca e Biblioteca, mentre fuori al bar Giamaica convenivano pittori, fotografi, scrittori».

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 108).

Rossanda (2005f)

«Decisi di lasciare Hoepli e per far lavoro politico, dev'essere stato nel 1947. [...] Intanto avrei dato una mano ad avviare l'Associazione per i rapporti culturali fra l'Italia e l'Unione Sovietica. [...]
Ci installammo in via Filodrammatici, dove incrociavo sulle scale un ragazzo dagli occhi azzurrissimi, Gillo Pontecorvo. Montammo una biblioteca, presi contatti con università e centri di studio. Presi qualche lezione di quella melodiosa lingua ma mi arresi subito; in biblioteca officiò Vittorio Strada, allampanato e taciturno, non ricordo che nutrisse una passione politica, non so se nutrisse già i suoi dubbi. Raccoglievamo una messe di materiali e domande di scambi da istituti, università, musei e conservatori – erano interessati tutti.
Cosí partirono casse su casse, proposte su proposte, ma non ricevevamo se non giornali vecchi di due mesi, qualche settimanale come «Ogonëk» o «Donna Sovietica», qualche rivista come «Voprosy Filosofii» e «Sovetskoe Gosudarstvo i Pravo», dai quali ogni tanto Strada segnalava qualcosa perplesso. E una massa di fotografie di laminatoi e kolchoz spedite, credo, in modo equanime all'intero orbe terracqueo. In capo a un anno fu chiaro che nulla di quel che chiedevamo arrivava»

(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 121-122).