L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Rossi (1930-1931)
«Tu fammi un pacco di alcuni libri di studio. (Nel carcere c'è una bibliotechina, ma composta di romanzi che valgono ben poco).»
(Ernesto Rossi, lettera alla madre dal carcere di Bergamo, [1° o 2 novembre 1930], p. 30).
«Un po' di aiuto per passar la giornata l'ho avuto da alcuni libri del carcere. Così stupidi e falsi, però, da far venire il latte alle ginocchia; tutti meno uno: I Malavoglia, che ho riletto con grande interesse, apprezzandolo molto più di quando lo lessi la prima volta: è veramente un capolavoro.»
(lettera alla madre dal carcere di Regina Coeli – come le successive –, 11 novembre [1930], p. 32. Durante il trasferimento da Bergamo a Roma, alcuni giorni prima, Rossi era evaso ma si era poi costituito).
«Ho letto qualche libro del carcere, ma in quattro e quattr'otto li finisco, e valgono ben poco. Ne danno due alla settimana! Mi son fatto dare dal cappellano il Vangelo con gli Atti degli apostoli. Riconosco che aveva ragione [Carlo] Puini, quando si arrabbiava e diceva che "anche Gesù Cristo era un ebreo". Però è davvero meraviglioso che il cattolicesimo voglia ancora risalire al Vangelo: non conosco nessun libro che contenga una morale più anticattolica».
(lettera alla madre, 14 novembre [1930], p. 34).
«Non ho più nessun libro di lettura "amena" oltre quelli del carcere, ma son sicuro che me ne porterai presto. Cerca qualche romanzo voluminoso, che possa distrarmi per qualche ora, anche di autori vecchi, stranieri.»
(lettera alla madre, 27 marzo 1931, p. 62-63).
«Ho letto i primi due volumi delle Avventure di Martino Chuzzlewit del Dickens: il terzo lo leggerò quando me lo daranno, venerdì, dalla biblioteca del carcere. In gran parte è una caricatura dell'ipocrisia: abbastanza divertente. Ci sono, come al solito nei libri del Dickens, dei mattoidi molto buffi. Ce n'è uno ch'è sempre allegro e va in cerca delle situazioni più penose per aver più merito d'essere allegro. Mi farebbe comodo averlo con me nella cella.»
(lettera alla madre, 31 marzo 1931, p. 65).
«Oltre ai pochi libri che mi sono portati con me, ho da leggere quelli della biblioteca del carcere e quelli che mi prestano gli altri politici. Nonostante sian tutti operai, ad eccezione di un avvocato, hanno parecchi libri di storia e di filosofia interessanti.»
(lettera alla madre dal carcere di Pallanza, 13 luglio 1931, p. 75. Rossi era stato trasferito da Roma pochi giorni prima).
Rossi (1932-1933)
«Non so perché ancora ti meravigli che vengan cancellate delle righe nelle mie lettere. [...] So che potrei fare una lettera con sole definizioni del vocabolario da esser censurata da cima a fondo, e che mi basterebbe riportare dei brani dagli stessi libri della biblioteca del carcere per esser "deferito" al Tribunale Speciale.»
(Ernesto Rossi, lettera alla madre dal carcere di Piacenza – come le successive –, 22 luglio 1932, p. 139. Rossi era stato trasferito dal carcere di Pallanza a quello di Piacenza nel novembre 1931 e due anni dopo fu trasferito di nuovo a Roma).
«Ho dovuto portare molti dei miei libri, che ancora avrei desiderato rileggere, in magazzino; e pare che poco a poco ci verranno tolti tutti, meno qualche vocabolario, qualche grammatica e pochi altri libri di studio. Al resto dovrebbe provvedere la biblioteca del carcere, che verrebbe rifornita con i libri di storia e di scienza che più desideriamo. Per mio conto, non mi faccio molte illusioni, perché i libri costan cari e so che alla burocrazia sembreranno somme spaventose anche qualche centinaio di lire all'anno per ogni carcere. Speriamo. [...] Non mi è possibile far commenti a tutto questo, e consiglio anche a te di non farne. Contentiamoci di assumere anche questo come un indice della situazione.»
(lettera alla madre, 5 agosto 1932, p. 147).
«La restrizione per i libri e per i quaderni, che ci eran necessari per studiare, ci ha colpiti tutti in modo molto sensibile, ma ci facciamo coraggio e speriamo che vengano presto delle disposizioni meno restrittive.
Sono andato quest'oggi ad udienza, ma il ragioniere, in assenza del direttore, non ha potuto consigliarci altro che d'attendere. Per ora non ci vengon più consegnate neppure le riviste e i giornali illustrati di cui abbiamo pagato l'abbonamento. Dovremmo limitarci alla lettura della biblioteca del carcere.
La biblioteca di questo carcere è una della migliori e ne vanno assai orgogliosi, perché contiene 2.300 opere; un quarto di esse, però, son libri di religione, eredità della biblioteca di qualche vecchio seminario; un altro quarto son libri scientifici e di storia anteriori all'unificazione d'Italia; nella parte restante c'è una ventina di opere di studio interessanti, e poi romanzi, moltissimi polizieschi e d'avventure, e traduzioni nell'edizioni economiche da tre lire. Il direttore ci disse che per i nuovi acquisti avremmo potuto manifestare i nostri desideri, ma tutto lascia credere che rimarranno desideri.»
(lettera alla madre, 12 agosto 1932, p. 151).
«Purtroppo, mi resta anche ben poco d'interessante da leggere nella biblioteca del carcere, e ci son tante restrizioni per l'acquisto dei libri attraverso l'amministrazione che in tre mesi ho potuto acquistarne solo un paio. Dei libri mandati ultimamente dal Ministero alcuni ne conoscevo (Fustel de Coulanges, Sombart) e gli altri son quasi tutti di filosofìa di Gentile o di gentiliani; ho provato anche questa settimana ad assaggiarne qualcuno, ma non riesco a mandarli giù. Digerirei più facilmente l'olio di ricino. Adesso ho con me l'Antologia critica degli scrittori d'Italia del De Sanctis, a cura di L. Russo, in cui sono svolti più ampiamente gli stessi argomenti che già conosco per averli letti sulla Storia della letteratura dello stesso De Sanctis. È un bellissimo lavoro. Ma poi vorrei leggere qualcosa che corrispondesse di più alla mia forma mentis, ed al genere di studi che prediligo: economia, storia e diritto pubblico.»
(lettera alla madre, 9 dicembre 1932, p. 160).
«Non m'interessa che tu m'indichi altri libri di astronomia popolare. Ho letto volentieri quello del Fabre, tanto per avere qualche idea più chiara sull'argomento; ma non ho voglia di leggerne altri, almeno per ora.
Dopo il Fabre, Mario si è messo a leggere tutti i libri di storia naturale che ha trovato sul catalogo della biblioteca. Ce ne sono diversi, vecchiotti anzi che no, ma scritti bene.»
(lettera alla moglie Ada dal carcere di Piacenza, 6 ottobre 1933, p. 218. Mario era un detenuto comunista, romagnolo, non identificato. L'opera di Jean Henri Fabre, Il cielo, era stata acquistata da Rossi poco tempo prima).
Rossi (1933-1943)
«Sono stato cinque giorni senza niente da leggere. Ore eterne. [...]
Sabato ho potuto avere dal cappellano due libri: La storia del Regno di Napoli del Colletta e I colloqui con Mussolini del Ludwig.
La storia del Colletta era un pezzo che desideravo conoscerla e la leggo molto volentieri. È scritta bene e segue un indirizzo spirituale che corrisponde perfettamente al mio. I Colloqui del Ludwig sono interessanti press'a poco per le stesse ragioni per le quali ti dissi di leggere il libro dello Sherril. Mette conto di farlo conoscere a tutte le persone che hanno ancora un po' di senso critico.
Il cappellano ha per suo conto una discreta biblioteca, di cui ho visto il catalogo; ci son diverse "Storie universali" in parecchi volumi. Spero di poterne avere qualcuna da leggere, almeno fintanto che non mi siano arrivati i miei libri da Piacenza.»
(lettera alla madre dal carcere di Regina Coeli – come le successive –, 20 novembre 1933, p. 229- 230. Rossi vi era stato trasferito da Piacenza alcuni giorni prima).
«Quel che specialmente mi abbatte è lo stare senza far nulla. Ho avuto da leggere ben poco e di scarso interesse.
Il direttore mi ha consentito di scegliere qualche libro in una biblioteca, in cui son diverse opere storiche buone. Ma ancora non le ho avute. [...]
Ho letto i primi cinque libri della Storia del Regno di Napoli del Colletta, che m'imprestò il cappellano. Non son riuscito ad avere gli altri cinque, che completano l'opera. È una storia terribilmente triste, come son tutte le storie scritte da persone intelligenti, che hanno avuto una larga esperienza della vita. [...]
Non avendo altro, ho letto anche un grosso libro in cui sono stati raccolti tutti gli scritti e i discorsi di D'Annunzio aviatore durante la guerra. Ci sono delle pagine stupende. La commemorazione per la morte del compagno Fra Ginepro è veramente commovente. E dalla lettura di tutto il libro risulterebbe chiara l'impressione dell'alto valore che ha avuto l'attività guerriera di D'Annunzio. Ma poi, quando si legge che, scrivendo di se stesso, dice d'essere "un eroe che non può esser diminuito in nessun modo e che è predestinato a sempre più grandeggiare nel più remoto evo", e quando si legge nel libro del Ludwig che gli ha confessato, come artista, che a Fiume andò "solamente per agire", per amore della bella gesta, ci si domanda: tutto quel che ha fatto, anche senza guardare agli anni dopo l'impresa di Fiume, per i quali la nostra vista può essere offuscata dalla passione di parte, che vale? Dal punto di vista umano cosa ha affermato con la sua vita e con i suoi scritti? E si resta in dubbio, malgrado il riconoscimento dell'indiscutibile grandezza della sua arte.
In questo momento posso darvi una buona notizia. Il sottocapo m'ha portato sei libri che avevo scelti nel catalogo del direttore. Mi sembra di rinascere. Finalmente per parecchi giorni non sarò più solo.»
(lettera alla madre e alla moglie Ada, 1° dicembre 1933, p. 232-234).
«Leggo troppi libri stupidi e ne sono disgustato. Questa settimana: Eva ultima, di Bontempelli (che scemenza!), Cleopatra, d'un tedesco (nelle "Scie" di Mondadori: idem come sopra), e Dante vivo di Papini, che m'è piaciuto pochino, pochino.»
(lettera alla madre, 25 giugno 1934, p. 253).
«Riccardo [Bauer] mi parlava appunto giorni fa d'un libro della biblioteca "speciale" qua del carcere: La vita dello spirito [ma Il regno dello spirito] del Caird (edizioni Vallecchi), per dimostrarmi il valore completamente diverso del pensiero protestante antidogmatico, profondamente religioso, ma d'una religiosità in cui il concetto del divino tende a divenire immanente a tutti gli aspetti della vita, in confronto al pensiero cattolico, e specialmente al pensiero cattolico italiano.»
(lettera alla madre, 3 aprile 1936, p. 330).
«Il libro su Bismarck, di cui mi parli, fu uno dei primi che lessi della biblioteca del carcere, quando venni qua da Piacenza, e mi par d'avertene allora scritto a lungo.
Fra le biografie del Ludwig mi parve la migliore, non per quel che dice il Ludwig, ma per gli scritti che riporta del Bismarck, una delle più perfette realizzazioni che si sian conosciute nella storia moderna di quelle idee che più mi repugnano: superomismo, volontà di potenza, ragion di Stato.»
(lettera alla madre, 17 settembre 1937, p. 389).
«Ho anche letto una raccolta di novelle del Maupassant: Toine. L'ho avuto per combinazione. Mancando le prime pagine, nel catalogo del cappellano non c'era il nome dell'autore, ed io l'avevo richiesto, credendo fosse un saggio storico di Taine... Io sono un grande ammiratore del Maupassant: in questa raccolta c'è una novella: Les moustaches, molto frizzante, che, se tu la leggessi, credo varrebbe a farmi perdonare i baffi, quando me li farò crescere.»
(lettera alla moglie Ada, 12 febbraio 1939, p. 467).
«Sull'esistenza di Dio, ricordo, ebbi anche una curiosa discussione, se così si può chiamare, col cappellano d'allora, quando arrivai qua a Roma, subito dopo l'arresto. Non avevo niente da leggere e le giornate nell'ozio e nell'immobilità non passavan mai. Mi veniva voglia di batter la testa nel muro, tanto per far qualcosa. I due libri alla settimana della biblioteca del carcere, senza possibilità di scelta, servivano a poco meno di niente. Per disperazione chiesi il cappellano, pensando che avrei potuto ottenere da lui almeno i Vangeli.
– Vuoi il Vangelo, – mi domandò quando venne: uno spilungone giovane; – allora credi in Dio?
– No, no – precisai – ma il Vangelo è un libro che leggo sempre volentieri. [...]
E così ebbi un Vangelo piccino, piccino, senza neppure gli Atti degli Apostoli, ma sempre buono per tenermi compagnia.»
(lettera alla moglie Ada, 4 giugno 1939, p. 486-487).
«Ci hanno ritirato tutti i libri del carcere, perché devon fare un riscontro generale. Per noi non è gran male, ma per chi non ha libri propri, star senza per più d'un mese, specie se è isolato, è una sofferenza grave. Una delle cose, per mio conto, di maggiore importanza in un buon ordinamento carcerario, è proprio il servizio del prestito dei libri. È l'unica àncora di salvezza per impedire il completo abbrutimento di tanti poveri diavoli costretti all'ozio.»
(lettera alla moglie Ada, 16 luglio 1939, p. 495-496).
«A "Regina Coeli" siamo entrati verso le 21, e dopo le diverse formalità e il deposito della roba in magazzino, siamo stati condotti al quarto braccio, dove abbiamo passato sei anni. [...]
Questi primi giorni sono i più duri, perché ancora non abbiamo perso certe abitudini civili che avevamo riacquistate al confino, e perché nell'isolamento le ore non passan mai, se non si ha qualcosa da leggere. M'ero portato nella valigia due libri di studio – uno d'economia e uno di storia – ma, nonostante le mie insistenze, non sono ancora riuscito a farmeli consegnare. M'hanno portato il catalogo della biblioteca speciale del carcere: ma nei sei anni che sono stato qui li ho già letti tutti. Speravo ne avessero aggiunti dei nuovi, invece c'è solo qualche altro libro di religione. Ho, però, fatto un lungo elenco di quelli che rileggerò volentieri e spero oggi d'averne alcuni. Nei tre giorni passati ho avuto solo un paio di romanzetti Salani per signorine, idioti quanto mai, ma che pure ho centellinato più che ho potuto, per farli durare.»
(lettera alla madre, 13 luglio 1943, p. 526. Dal novembre 1939 ai primi di luglio 1943 Rossi era stato al confino, a Ventotene).
Russo (1912 e 1917)
«Ora è un anno, una grande felicità intellettuale m’invase leggendo l’Estetica e le annate della Critica (Nocturna versate manu, versate diurna!) e la Biblioteca della Normale opportunamente mi forniva di quei libri; quest’anno ho proseguito l’antico culto (mi appare già antico), e ora mi rileggo molti articoli della Critica in Problemi d’Estetica, che ho potuto avere di mio»
(Luigi Russo, lettera a Benedetto Croce, Vittoria 28 agosto 1912, p. 3)
«Fino a qualche anno fa non possedevo la sua Estetica, perché mi pareva di possederla in un’altra maniera più ideale, dopo che l’esemplare esistente alla Biblioteca della Scuola di Pisa era stata tra i miei libri, per quattro anni, compagna»
(Luigi Russo, lettera a Benedetto Croce, S. Leucio 11 settembre 1917, p. 19)
Russo (1958)
«Ma ormai la Biblioteca [nazionale di Roma], tra una chiacchiera e l'altra, tra una guerra e l'altra, era in stato di disgregazione, per l'impossibilità materiale di ospitare i libri, per il pubblico sempre più numeroso e assillante, che non trovava soddisfazione, dato il numero limitato degli impiegati, proporzionalmente sempre più scarsi e mal pagati.
La situazione della Vittorio Emanuele in questo dopoguerra era veramente pietosa. Gli impiegati, stipati in poche celle semibuie, non riuscivano ormai a tener dietro a nulla: montagne di materiale bibliografico giacevano senza schedatura e senza sistemazione. Trovare un libro recente a catalogo era un'idea comica che dava luogo a facezie, migliaia di lettori al mese si accavallavano nelle sale male illuminate e mal sorvegliate, i fattorini erano costretti a trascinare letteralmente, dalle cantine fino al terzo piano, per chilometri, i libri che arrivavano naturalmente dopo ore. Finalmente il 6 luglio 1953 la Biblioteca cominciò forse per un intervento della divina Provvidenza, a scricchiolare e a crollare. Dato che i crolli dei muri non sono previsti dal regolamento per le Biblioteche, apparve un cartello sulla porta con sopra scritto: «Chiuso per la consueta spolveratura annuale». I soliti eufemismi, che in ogni tempo hanno fatto la fortuna della nostra nazione. La spolveratura durò molti mesi, fino al 4 gennaio 1954; ci furono sopraluoghi del Genio Civile che dichiarò indispensabili lavori per più di 80 milioni, vennero sfondati pavimenti, puntellate pareti, sgomberate totalmente le scaffalature centrali in tutti i corridoi dei vari piani, furono trasferite 26 tonnellate di pubblicazioni non schedate nel sottosuolo del monumento a Vittorio Emanuele II, al Museo del Vittoriano, detto ormai «la tomba del libro ignoto».
Era veramente la fine: ma non sembrò ancora sufficiente ai nostri governanti per decidersi a costruire rapidamente la nuova sede. Le aree nel centro di Roma erano ormai salite a prezzi folli: si cominciava a parlare di zone lontane e scomodissime, si consigliava di costruire la nuova Biblioteca centrale all'EUR, a mezza strada tra Roma e Ostia, questo sempre per incoraggiare gli studi e gli studiosi, come li incoraggiava un tempo Teodorico o Alarico. Il Ministro Segni, che almeno è un professore universitario e un accademico dei Lincei, nominò una Commissione ministeriale per studiare quale poteva essere la zona di Roma più adatta per costruirvi la Biblioteca. La Commissione, dopo varie riunioni, indicò saggiamente l'intera area del Castro Pretorio, nella quale sorgevano e sorgono tuttora delle caserme. Nel frattempo la Biblioteca si riapriva al pubblico, cambiava la Direzione, si cominciò a vedere qualche muro imbiancato, un po' più di ordine e di pulizia, qualche scheda di più ai cataloghi.
Il posto riservato alle nuove pubblicazioni era però ridotto al minimo: i libri nuovi venivano spesso francescanamente sistemati sulla nuda terra, mancando le scaffalature; i carri funebri per il monumento a Vittorio Emanuele si susseguivano periodicamente rovesciando montagne di materiale inutilizzabile. Bisogna pensare che l'incremento annuo della Biblioteca Nazionale è di diecine di migliaia di volumi. I duemila lettori quotidiani erano costretti a chiedere in lettura parte delle opere un giorno per l'altro, in seguito ai dislocamenti di intere sezioni della Biblioteca in zone del palazzo sempre più scomode e distanti.
È certo comunque che la Vittorio Emanuele sarebbe rimasta per altri cinquanta anni a dormire i suoi scomodi sonni e a rivoltarsi nel suo letto, come la vecchia di Dante che suo dolore scherma, al Collegio Romano, se nel febbraio del 1958 non si fossero rotte simultaneamente quattro biffe applicate nel 1953 dal Genio Civile ad antiche crepe murarie. La rottura delle biffe dimostrò chiaramente che i muri continuavano a lesionarsi in maniera preoccupante. La Direttrice fece chiudere immediatamente la Biblioteca al pubblico, mentre il Genio Civile iniziava i sopraluoghi. Soltanto gli impiegati dovevano restare al loro posto, col pericolo di restare schiacciati e sotterrati come mastro Misciu e Rosso Malpelo nella cava di rena di una celebre novella del Verga. Apparve un cartello sulla porta con la scritta: «Per lavori in corso la Biblioteca rimane chiusa».
[...] I bibliotecari e i custodi della Vittorio Emanuele, finalmente tornati a una pace claustrale, iniziavano il riordinamento della Biblioteca, rendendosi improvvisamente conto che il loro numero era appena sufficiente a tenere in ordine gli uffici, la schedatura, insomma i servizi inerenti alla conservazione e alla sistemazione del materiale bibliografico. Le Biblioteche in Italia non prevedono quasi mai la frequenza del pubblico, e la Nazionale di Roma, nonostante l'enorme afflusso di studiosi negli ultimi anni, meno delle altre.
Nell'aprile del 1958 fu ricostituita la Commissione Ministeriale, presieduta dal Prof. Ferrabino e composta tra l'altro dai senatori Ermini e Ciasca, dai Professori Morghen, Levi Della Vida, dalla Direttrice della Biblioteca Dott. Laura De Felice, per indicare ancora una volta quale sede sembrasse più adatta per la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Dall'aprile al settembre la Commissione ha ristudiato tutte le possibili soluzioni, dalle più assurde (EUR, a 18 km. da Roma), alle più complicate (Ospizio di San Michele a Ripa sul Lungotevere, con la necessità di sfrattare centinaia di famiglie), fino a riproporre quella già adottata dalla Commissione del 1953: l'area del Castro Pretorio o del Macao. Questa area sembra veramente l'unica possibile, per la relativa vicinanza alla stazione centrale e alla Città Universitaria. Il centro storico della città è infatti ormai intoccabile e la futura biblioteca ha bisogno di molto spazio.
[...] La Biblioteca intanto è chiusa, e la decisione si fa attendere.»
(Pietro l’Eremita, Storia inverosimile ma vera della Biblioteca nazionale di Roma, «Belfagor», 13, fasc. 6 (1958), pp. 735-738. Nonostante lo pseudonimo, a firmare l’articolo fu Luigi Russo, come segnalato da una nota a piè di pagina inserita in coda allo scritto: «Queste notizie sono state raccolte diligentemente dal direttore di «Belfagor» in persona, e la noterella porta una firma generica per non invischiare i singoli informatori in polemiche superflue e nocive. La responsabilità è tutta dunque del direttore di «Belfagor». E a lui vanno indirizzate aggiunte o correzioni, o proposte, sperando che quella del nostro intimo amico Pietro l'Eremita non rimanga una vox clamantis in deserto.»)
Saba (1957)
«Mia cara Linuccia, nato nel secolo del dolore (quale fu l'Ottocento), vissuto (ed anche sopravvissuto) in quello che ebbe, oltre il dolore, l'angoscia, mi è singolarmente penoso ricordare, sulle soglie della notte, il passato. Ma voglio e devo rispondere ad una tua domanda: quali cioè erano i libri che leggevo quando, a 17 anni circa, incominciai a scrivere, con la coscienza di scrivere. [...]
Dei libri che possedevo, quello che piú leggevo era il Leopardi [...]. Ma un amico della mia età mi disse che esisteva, viveva ancora, un poeta ben piú grande del Leopardi: che egli considerava del tutto sorpassato. Il poeta si chiamava G. C. [Giosue Carducci] Pregai l'amico di prestarmelo: ma non ce l'aveva nemmeno lui. Mi consigliò di leggerlo alla B. C. [Biblioteca civica di Trieste], dove ce l'avevano sicuramente.
La B. C. non era nel 1900-1901 quella che è oggi: consisteva in una sala polverosa aperta al raro pubblico, e preceduta da un'anticamera, alle pareti della quale erano appesi dei ritratti (che si assomigliavano tutti) e rappresentavano personaggi in parrucca bianca ed incipriati. Entrati nella stanza pubblica, bisognava empire una scheda, firmarla, e presentarla ad uno strano inserviente (che attendeva in piedi davanti ad una finestra, dalla quale finí poi col buttarsi giú). Era una figura terribile, quasi agghiacciante: credo che l'avesse, in modo particolare, con gli scolari, che sospettava, a ragione, di firequentare la B., e quindi di togliere lui alla silenziosa meditazione di tristi pensieri, al solo scopo di copiare le difficili versioni dal greco e dal latino. Dopo una mezz'ora circa di attesa, mi portò le opere in versi del C.»
(Umberto Saba, Della Biblioteca civica ovvero della gloria, 1957, in Prose
Salvemini (1923)
«Mentre ero a leggere nella Biblioteca della Camera, è passato [Pietro] Baldassarre, mi ha riconosciuto, si è fermato a parlarmi. È salandrino, è antifascista.»
(Gaetano Salvemini, Diario 1922-1923, Roma, 1° maggio 1923, p. 355).
«Mentre lavoravo nella Biblioteca della Camera, è venuto [Giacomo] Matteotti. Ci siamo salutati molto cordialmente. Mi ha detto che sperava di rivedermi nel partito. Ho risposto che non c’era speranza: non ho fede nei vecchi uomini, e non ho fede che possano essere messi da parte. Così siamo entrati in discorso.»
(ivi, Roma, 3 maggio 1923, p. 358).
Salvemini (1949a)
«Non c'era nessuna biblioteca nè nella scuola [il Seminario di Molfetta] nè nella città. I soli libri che esistessero ufficialmente, erano i libri di testo. Fino a quattordici anni soffrii le forme più spaventose di inedia intellettuale. Mi toccò leggere finanche i romanzi di Padre Bresciani in una collezione della Civiltà Cattolica, che vegetava in casa di un compagno [di scuola].»
(Gaetano Salvemini, I miei maestri, in Che cosa è la coltura?, p. 31-60: 33. Discorso tenuto all'Università di Firenze il 15 novembre 1949 riprendendo l'insegnamento di Storia moderna, già pubblicato col titolo Una pagina di storia antica, in «Il ponte», 6 (1950), n. 2, p. 116-131. Salvemini studiò al liceo-ginnasio del Seminario di Molfetta fino alla licenza liceale).
Salvemini (1949b)
«Ai libri provvedevano la biblioteca dell'Istituto [di studi superiori di Firenze], la Nazionale e la Marucelliana. Quest'ultima badava d'inverno anche al riscaldamento, la sera, fino alle dieci; dopo di che correvamo a ripararci in letto, e dalla bocca e dalle nari si levavano colonne di vapore acqueo che era un piacere vederle»
(Gaetano Salvemini, I miei maestri, in Che cosa è la coltura?, p. 31-60: 39. Discorso tenuto a all'Università di Firenze il 15 novembre 1949 riprendendo l'insegnamento di Storia moderna, già pubblicato col titolo Una pagina di storia antica, in «Il ponte», 6 (1950), n. 2, p. 116-131. Salvemini iniziò gli studi universitari nel 1890, a Firenze, vincendo una borsa di studio).
Sandri (1963)
«Fu al Seminario Romano Minore che incontrai per la prima volta don Giuseppe De Luca.
Parlo di più che quaranta anni fa, novembre 1922.
Mi era capitata si direbbe oggi una piccola «grana».
Ero arrivato a Roma da Bologna, nel cui seminario per «i piccoli» tutto il mondo esterno di lotte, polemiche, risse si riverberava accesissimo; [...]
Ma ciò che rendeva vivissimo l’ambiente era il gran fervore di studi, la libertà nelle letture culturali; la biblioteca [del Seminario arcivescovile di Bologna] ricca e varia era aperta sempre anche ai più giovani, ad eccezione d’uno scaffaletto protetto da grate rugginose, sul quale un cartello sbilenco ammoniva «scomunica per tutti».
Quando arrivai al Seminario Romano trovai invece un ambiente ovattato: e se il mondo esterno vi entrava, era come se vi si movesse in punta di piedi, quasi per non disturbare, in quel palazzetto posto lì a due passi dalla Basilica di S. Pietro, una quiete di sempre. [...]
Gli studi erano curati, controllatissimi, il diario dei corsi avvertiva «prima nix scholae vacant» come negli orari scolastici di cento anni prima.
Può darsi che una biblioteca ci fosse, ma né in quell’anno né dopo vi misi mai piede. [...]
[De Luca] Aveva avuto il permesso di frequentare la Biblioteca Vaticana anche fuori orario; lo si vedeva uscire subito finito l’insegnamento, tra le undici e mezzogiorno, e rientrare verso le due o più tardi; in refettorio, alla tavola dei «superiori», nessuno pensava a fargli trovare qualcosa di caldo, sicché mangiava quasi sempre freddo.»
(Leopoldo Sandri, Ripetitore nel Seminario Romano Minore, in Don Giuseppe De Luca: ricordi e testimonianze, pp. 309-315: 309-313; il volume di ricordi su De Luca ebbe una prima edizione nel 1963 presso i tipi della Morcelliana, per poi essere ristampato nel 1998 in anastatica con le Edizioni di storia e letteratura).
Savinio (1943-1944)
«Ma se tu credi la nota bibliografica [su Luciano] necessaria, ti prego di scusarmi e di farla fare a un altro, per esempio a [Celestino] Capasso che in mezza giornata in biblioteca la metterà a posto, perché io, che come tu sai mi devo stare un po’ riguardato, non posso uscire per andare in biblioteca.»
(Alberto Savinio, lettera a Valentino Bompiani, [Roma] 12 novembre [1943], p. 193).
«Pregavo dunque Capasso di prendersi nella biblioteca il Luciano di [Luigi] Settembrini, ritrovare le parole greche omesse dal tipografo e trascriverle nelle bozze.»
(Savinio, lettera a Bompiani, Roma 2 giugno 1944, p. 235).
Scalfari (2012)
«Avevo scritto un saggio sulla politica finanziaria della Destra italiana nel periodo tra il 1862 e il 1865, quando la nascita dello Stato unitario aveva imposto come primo problema quello di edificare la struttura amministrativa e l’architettura finanziaria d’un Paese che aveva ereditato il pesante lascito di diversi Stati e staterelli. Quel tema mi affascinava e avevo fatto ampie ricerche alla Biblioteca Nazionale e in quella dell’Università, del Senato e dell’Istituto di Agricoltura. Attraverso alcuni suoi amici mio padre riuscí a far leggere il mio saggio al direttore della «Nuova Antologia», rivista culturale tra le piú autorevoli dell’epoca. Inopinatamente, visto che il mio nome era del tutto oscuro, il saggio fu accettato e pubblicato. Era il 1947, avevo ventitre anni e quello fu il mio battesimo da pubblicista dopo le esperienze adolescenziali di «Roma Fascista».»
(Eugenio Scalfari, Racconto autobiografico. Il testo è stato pubblicato per la prima volta in Eugenio Scalfari, La passione dell'etica: scritti 1963-2012, saggio introduttivo di Alberto Asor Rosa, racconto autobiografico di Eugenio Scalfari, notizie sui testi e bibliografia ragionata a cura di Angelo Cannatà, Milano, Mondadori, 2012, "I meridiani")
Scappini (1979)
«Coi suggerimenti dei funzionari, a Empoli riuscimmo a mettere in piedi una buona attrezzatura per stampare volantini, riprodurre giornali e materiali del partito. Tra Livorno e Empoli vi era una stretta collaborazione. I compagni di Livorno erano più attrezzati, ma anche noi riuscimmo a mettere in piedi una rudimentale stamperia nella casa di un simpatizzante [...]. In quel tempo furono organizzate anche delle piccole biblioteche con l'acquisto di libri di Gorki, Romain Rolland, Barbusse, Zola, Garibaldi. Inoltre furono organizzate letture collettive di materiali del partito».
(Remo Scappini, in: I compagni di Firenze: memorie di lotta antifascista, p. 1-108: 51).
«Verso la metà di novembre [1933], in treno, fui trasferito a Roma, a Regina Coeli [...]. A Regina Coeli fui messo in una cella da solo [...]. Avevo ricevuto del denaro dai miei a Forlì, e ne ricevetti ancora a Roma, così organizzai la mia vita di carcerato per una lunga durata. Richiesi i mezzi per scrivere, ma il giudice non me li concesse; non potevo fare altro che leggere e camminare, in una cella lunga 2,60 m e larga 1,80! La biblioteca del carcere passava soltanto 2 libri alla settimana, tutti di scarso valore culturale (Salgari, G. Verne, Guido Da Verona ecc.). C'erano anche libri di Flammarion, di Verga e di Manzoni, ma per avere questi occorreva l'amicizia con lo «scopino», e bisognava «ungere» (cosa che imparai a fare in seguito). Dopo molto tempo riuscii ad acquistare una grammatica tedesca, perché per acquistare i libri ci voleva l'autorizzazione del giudice di sorveglianza, e questa o tardava o non veniva.»
(Ivi, p. 89).
«Al carcere di Fossano (un vecchio convento) non si stava male, c'era aria e non molta disciplina. Fui messo in un camerone assieme ad un'altra ventina di detenuti, tutti comunisti, meno 2 anarchici [...]. Già funzionava il «circolo» di studio, con l'insegnamento di diverse materie (la storia d'Italia, il movimento operaio italiano e internazionale, la storia del P.C.d'I. e quella del P.C.U.S., l'economia politica, e anche la lingua e la letteratura italiana). C'erano testi legali italiani e testi illegali, come il saggio sul materialismo storico di Bucharin, un compendio di economia politica, la «Storia della socialdemocrazia tedesca» del Mehring, la «Storia del P.C.U.S.» di Jaroslaski, ed altri libri che venivano tenuti nascosti di giorno sotto il pavimento, dove era stata scavata una buca. Un giorno, ritornando dal passeggio, trovammo la camerata chiusa. Era successo che in una perquisizione avevano scoperto la buca [...]. Ne seguì un «processo» interno, e una quindicina dei compagni più in vista furono puniti e trasferiti a Civitavecchia (io fui punito con 35 giorni di pancaccio, con pane e acqua quattro giorni alla settimana, e senza potere fare la spesa. Una punizione dura, considerata la rigidità della vita carceraria, anche perché durante la punizione eravamo privati dei libri).»
(Ivi, p. 91-92).
Scerbanenco (1966)
«Poi venimmo a Milano, dove mamma cominciò ad ammalarsi e a entrare e uscire dall'ospedale, più tardi seppi che era un tumore, e dopo l'operazione rimase per sempre in una sala dell'ospedale in via Commenda, dove andavo a trovarla molto raramente. Dovevo lavorare, dovevo leggere i libri presi in prestito alle biblioteche, dovevo scrivere e non capivo niente della vita intorno a me, non vedevo nulla, ero come cieco e certo per questo soffrii pochissimo in quel periodo che pure fu così amaro.
[...]
Rimasi lì da Borletti un anno e mezzo. Feci anche carriera. Si accorsero che ero un poeta e mi misero al magazzino spedizioni, a scrivere l'entrata e l'uscita delle merci. [...] Come nelle biografie degli eroi americani, la sera studiavo. Soltanto non avevo lo spirito pratico degli eroi americani, e così studiavo filosofia. Prendevo i libri in prestito alla biblioteca del Castello Sforzesco, e li leggevo poi all'osteria dove mangiavo. Siccome l'osteria chiudeva all'una, smettevo di leggere i trattati di filosofia all'una, poi andavo a dormire all'albergo popolare. Lavorando, stavo diventando ricco, e non stavo più nel dormitorio comune, ma avevo la stanzetta che costava di più. In quella stanzetta, non più larga di un grosso baule, ho imparato la logica di Kant e la dialettica di Hegel e lo scetticismo di Hume.»
(Giorgio Scerbanenco, Io, Vladimir Scerbanenko [1966], p. 223-252: 229, 234).
Sciascia (1963)
«Lo stesso giorno, un prete del mio paese, casualmente parlando di libri, mi raccontò di quando, ragazzo di seminario, aveva assistito alla defenestrazione della biblioteca del vescovo Lagumina [...]. Il Lagumina, vescovo di Girgenti (io ho un vago ricordo di una sua visita pastorale al mio paese), era un grande arabista, e uomo di viva intelligenza; aveva una grande biblioteca [...]. E mi affiorò il ricordo di un saggio del Lagumina, una specie di perizia postuma, sui falsi dell’abate Vella: e subito andai a cercarlo in biblioteca.
La perizia del Lagumina mi portò a rileggere lo Scinà, e poi la prefazione dell’Amari alla sua Storia dei musulmani di Sicilia.»
(Leonardo Sciascia, Perché ho scritto «Il Consiglio d’Egitto», p. 177. Probabilmente lo scrittore andò a consultare lo scritto in una biblioteca di Palermo).
Cfr. Alberto Petrucciani, Don Giuseppe Vella, l’“ignorantissimo impostore maltese”: tra fonti, torchi e biblioteche, «Todomodo: rivista internazionale di studi sciasciani», 8 (2018), p. 75-118.
