L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Mommsen (1864)
«Pregiatissimo Signore,
Rispondo subito alla domanda ch’Ella mi fa riguardo la quistione de’ manoscritti, se e sotto quali condizioni si possono dar fuori.
Sull’opportunità di tali imprestiti, come giustamente ella osserva, non possono essere due pareri diversi. Le biblioteche pubbliche debbono servire per gli usi pubblici, e l’uso dei codici spesso è praticamente impossibile, se non si mandano fuori; tanto più che molte volte bisogna avere due o più manoscritti insieme sotto gli occhi, per poter portarne giudizio pieno e certo. In questi giorni ho finito una nuova edizione di Solino, per cui ho avuto la rara fortuna di tener insieme per sei mesi interi sul mio tavolino, i tre manoscritti più importanti che se ne conoscano, appartenenti l’uno a Wolfenbüttel in Germania, l’altro a Leida in Olanda, il terzo a Parigi. Perciò, ella vedrà dedicata questa edizione alle tre suddette biblioteche, meritamente, e spero che questo precedente non resterà solo. L’esperienza poi l’ha provato, che il numero dei manoscritti malandati o maltrattati per conseguenza di tali imprestiti, è quasi nullo e forse minore di quei che si smarriscono o si storpiano nelle biblioteche istesse. Si rinnova anche per questo il noto rapporto delle disgrazie che accadono alle carrozze ed alle strade ferrate.
Ma vero è pure che bisogna usar di gran precauzione per tali imprestiti, e che val meglio non dar fuori affatto, che dar fuori indiscretamente.
Leggi certe e generali per questi imprestiti, non esistono né in Germania, né in Francia. È quistione proprio di dominio, ed ogni proprietario fa come vuole. Perciò, per esempio, le biblioteche comunali, molte volte sono assai più ritrose, che quelle dipendenti dai governi; ed io stesso ho provato, che è molto più facile ottenere un imprestito dall’imperatore dei Francesi, che dalla municipalità di Valenciennes. Ma siccome in Francia e più ancora in Germania, il numero delle biblioteche importanti per manoscritti e non appartenenti al governo, non è molto esteso, l’affare generalmente dipende dai governi, e fra questi praticamente si è stabilita la legge di reciprocità. Quel dotto, a cui occorre di riscontrar un codice di qualche biblioteca estera, tedesca, o francese s’indirizza al suo governo; questo poi, se la persona gli par degna, domanda il codice in suo nome a quel governo a cui tocca, ma aggiungendo / sempre chi lo domanda, e per qual uso e per qual tempo deve servire. Così l’affare si termina, e se la preghiera viene accordata, le spese dell’invio toccano ai governi: la diplomazia che ci fa tanto patire, almeno ci rende questi servizi gratis. Cauzione non si domanda mai, ed a ragione; perché lo smarrimento di un buon manoscritto, è una disgrazia che si può compensare bensì per chi tiene bottega, ma non già per lo Stato. Per regola il sì o no, dipende materialmente dal bibliotecario direttore dello stabilimento a cui appartiene il manoscritto, il governo a cui viene richiesto, rivolgendosi a lui per avere il suo avviso. Avviene anche molto spesso, che a persone conosciutissime e che offrono ogni sicurezza possibile, il capo bibliotecario manda i manoscritti senza l’intervenzione dei rispettivi governi, che non può non tirare a lungo: ma questo egli lo fa sulla sua responsabilità, ed è un uso piuttosto tollerato che ammesso, per cui sempre ci vuole somma discrezione.
Se ella mi domanda il mio avviso su ciò che dovrebbe stabilirsi in Italia, io consiglierei soprattutto a non far più che non facciamo noi avvezzi da secoli ad un uso molto liberale delle pubbliche biblioteche. Ogni italiano deve avere diritto di chiedere qualunque manoscritto al suo governo, il governo accorda o rifiuta le domande dopo aver preso il parere del bibliotecario. Ma le ragioni perché sì perché no, nessuno potrà domandarle, perché generalmente non si possono dire ad alta voce e tutto è affare di discrezione. Né è diritto civico di avere i manoscritti a casa, ma favore eccezionale accordato dallo stato ai letterati distinti e solleciti. Il bibliotecario vuol essere udito, ma non deve avere il voto decisivo, perché allora tali imprestiti facilmente o non si farebbero mai o assai troppo. Va senza dire, che la nostra usanza di risparmiare alle volte l’intervenzione del governo né deve introdursi né lo può: forse sarebbe anzi necessario di vietar ciò espressamente. Per l’estero sarebbe a desiderare che l’Italia entrasse in quella lega internazionale di cui ho parlato più sopra; riservandosi però sempre di esaminare le particolarità d’ogni domanda, e, comunque sia un governo che chiegga il manoscritto, sentir pure per qual dotto si chiede. Per tutto ciò al mio avviso basterebbe un regolamento semplicissimo. È affatto impossibile d’indicare au préalable i casi in cui si daranno i manoscritti e in cui si hanno da negare. Dipende tutto dalla qualità della persona e dall’oggetto degli studi; una impresa come i Monumenta Germaniae, il Corpus inscriptionum hanno diritto a ben altri favori eccezionali che i progetti di privati. Forse si potrebbe accennare che i veri cimeli non si daranno mai a casa; come, per esempio, le Pandette non debbono far altro viaggio dopo quello da Pisa a Firenze. Ma fissare legalmente, cosa sia cimelio, è cosa impossibile; come lo prova quello assurdo regolamento della grande biblioteca di Parigi di dar fuori tutti i manoscritti eccettuato per ogni autore il migliore, che fortunatamente per essere assurdo in se stesso si rifiuta ad essere messo in piena pratica. Quel che sarebbe a desiderare, sarebbe una estensione di un siffatto regolamento anche sopra le biblioteche maggiori che non sono pienamente di pubblica proprietà, specialmente sull’Ambrosiana. Ma tale estensione sarebbe una vera legge di espropriazione, e soggetta a tutte quelle gravi difficoltà che in ogni stato ben regolato accompagnano le infrazioni anche necessarie del diritto di proprietà, né tocca a me di entrare in questa discussione tutta di dritto pubblico italiano.»
(Theodor Mommsen, lettera a Domenico Comparetti, 14 marzo 1864, vol. 1, p. 470-473).
Mommsen (1871)
«Chiarissimo Signore,
Studiando i manoscritti di codesta Biblioteca universitaria affidata alla sua direzione per riguardo alle iscrizioni latine, di cui la nostra Accademia sta pubblicando la raccolta, mi sono convinto, che il volume E.VII.12, contenente gli adversaria dell'Oderici (sic!), gioverebbe assai per quella parte, che riguarda le iscrizioni di Roma e di cui la compilazione e (sic!) stata data al mio collega il Prof. Henzen, segretario dell'Instituto di corrispondenza archeologica a Roma. Perciò in nome del mio collega vengo a pregarla di interporsi presso il Ministero di pubblica istruzione, affinché il detto volume per breve tempo – due o tre mesi basteranno – venga mandato a Roma, per esser ivi spogliato pel Corpus inscr. lat. Se questa nostra pubblicazione riesce non del tutto indegna del grande scopo, che si è proposto, lo dobbiamo alla cooperazione di tanti e tanti dotti Italiani, e sono persuaso, che né il suo ajuto né quello del suo governo ci verrà negato.»
(Theodor Mommsen, lettera a Emanuele Celesia, Genova 12 aprile 1871, edita in Angela Franca Bellezza, Teodoro Mommsen: inedita, minima, varia, in: Poikilma: studi in onore di Michele R. Cataudella in occasione del 60° compleanno, La Spezia: Agorà, 2001, p. 129-144: 133-134).
Mommsen (1879)
«Teodoro Mommsen è in Firenze, andatovi a studiare nella Biblioteca Laurenziana per una nuova raccolta di documenti storici della Germania.»
(Notizie bibliografiche, «Bibliografia italiana», 13, n. 20 (31 ott. 1879), Parte seconda: Cronaca, p. 86)
Mommsen (1885a)
«Alcuni giorni fa, il Papa passava per la Biblioteca Vaticana ad ora insolita per lui, ad un’ora ch’è data agli studii dei manoscritti. Mi trovavo lì; ed essendo occupato nei miei lavori, mi alzai per fare il mio saluto, un po’ più tardi degli altri frequentanti la Biblioteca.
Da questo fatto i giornali cattolici tedeschi – che io non amo e che mi rendono la pari – hanno voluto fare apparire da parte mia una mancanza di riverenza al sovrano de’ cattolici, di cui in quel momento ero ospite, non meno ridicola che indegna.
Quelli articoli li ho lasciati correre. In Germania si sa quanto valgono; e non avrei creduto, non essendo io affatto sconosciuto in Italia, che sarebbero stati riprodotti qui.
Ora però, siccome questo è avvenuto, prego la vostra signoria di dar pubblicità a questa mia, non protesta, che non occorre, ma preghiera, affinché cotesti articoli non si ristampino ancora senza accennare alla fonte impura da cui vengono. Questo basta.»
(Theodor Mommsen, lettera a Michele Torraca, Roma 12 maggio 1885, p. 1013).
L’episodio, ricordato anche da Pierre de Nolhac nei Souvenirs d’un vieux romain, ebbe vasta risonanza sulla stampa tedesca e italiana. Tra gli articoli pubblicati in Italia, la vicenda venne segnalata sulle pagine de «L’Osservatore romano» del 14 maggio 1885.
Mommsen (1885b)
«Qualche giornale tedesco ha narrato che, trovandosi il professore Mommsen nella Biblioteca Vaticana nel momento in cui il S. Padre passava per recarsi a passeggiare nei suoi giardini, mentre tutti gli altri che erano colà si erano inginocchiati o almeno levati in piedi, egli era rimasto seduto, mancando in tal modo ad ogni più elementare riguardo verso l’augusta persona del Pontefice.
Avendo prese informazioni in proposito, ci avvedemmo che il fatto, semplicissimo per sè stesso, era stato completamente travisato; ma quanto a smentirlo, credemmo che non ne mettesse il conto.
Ora però che parecchi dei nostri giornali cittadini riportano la medesima narrazione, facendovi sopra, secondo l’indole di ciascuno, diversi commenti, stimiamo opportuno di rettificare le inesattezze degli uni e degli altri.
Il professor Mommsen era nella prima sala della Biblioteca, tutto intento ai suoi studi, quando, apertasi improvvisamente la porta, fu annunziato il giungere del S. Padre. Tutti si levarono in piedi, e il Prof. Mommsen cogli altri; anzi il piccolo tavolo innanzi a cui egli era seduto, fu dovuto trasportare alquanto da parte, perchè posto sul passaggio che mette all’aula vicina.
Frattanto il S. Padre traversò la sala; ma il professore, distratto come deve essere un buon scenziato [!], dimenticò affatto la ragione per cui si era levato in piedi e seguitò a sfogliare i codici che si trovava dinanzi.
Passato il S. Padre, tutti si rimisero allo studio, e niuno pose mente al contegno dell’illustre storico tedesco; e molto meno vi pensò egli stesso, il quale restò altamente meravigliato quando lesse il fatto, malamente narrato, nei giornali del suo paese.
E, forse sopportando a malincuore che venisse così mal giudicato ciò che non era stato che una semplice disattenzione, si recò immediatamente, e non richiesto da alcuno, da monsignor Ciccolini, custode della Biblioteca, per giustificare la sua condotta, e quindi la medesima giustificazione volle presentare all’Eminentissimo Bibliotecario, signor Cardinal Pitra.
Questo è il fatto nella sua genuina verità e rettificando crediamo far cosa grata al medesimo professor Mommsen, il quale, ne siamo certi, non sarà stato troppo lusingato della parte poco cortese che gli hanno voluta addossare i giornali liberali di Roma.»
(Il professore Mommsen, «L’Osservatore romano», 14 maggio 1885, p. 3).
Montale (1917)
«Da due giorni in Biblioteca (portici) ... vendita di zucchero, affollamento e impossibilità di entrare. È enorme. Vi fui Martedì e lessi in parte un profilo di certo Marchesi su Marziale.»
(Eugenio Montale, Quaderno genovese, p. 11. L'annotazione compare tra il 1° e il 6 febbraio 1917 e si riferisce alla Biblioteca civica Berio. Molti riferimenti a libri letti, in tutto il Quaderno, non specificano la fonte, ed è possibile che si riferiscano, in parte, ad altre letture di biblioteca).
«Biblioteca (dove entrai non ostante lo spaccio di ... zucchero). Sbirciai: l'Altare di Sem Benelli (Crip-fu, crip-fu, crip-fu...) e le poesie di Iacopo Sanvitale, con la celebre Nostalgia: roba da chiodi. Incredibile!!!»
(ivi, p. 13. L'annotazione compare tra il 6 e l'8 febbraio).
«Dò qui un po' di critica sui libri letti nei giorni passati: F. Jammes, Le deuil des Primevères: poèmes (della Biblioteca Universitaria). Non c'è male specie l'elegia seconda.»
(ivi, p. 19. L'annotazione compare tra il 3 e il 5 marzo).
«In biblioteca.
Sbirciato da capo a fondo e letto in parte:
J . Stuart Mill – Memorie – così, così.»
(ivi, p. 21. L'annotazione compare tra il 3 e il 5 marzo. Montale lesse presumibilmente una delle edizioni della traduzione francese, uscita col titolo Mes mémoires: histoire de ma vie et de mes idées, mentre non era ancora disponibile una traduzione italiana della Autobiography).
«Lunedì 5 Marzo 1917
[...] Oggi sbirciai in biblioteca (li conoscevo già) i Contemporanei di Jules Lemaître (Pietosi!)
[...]
Molti giorni fa lessi in Biblioteca un «referendum» (1) (120 risposte) del «Coenobium» di Lugano (1909?) intorno a questa domanda: Quali sono i quaranta libri che preferireste dovendo ritirarvi a vita cenobitica?»
(ivi, p. 22-23).
«Giovedì [8 marzo] [...]
Sbirciai l'altro ieri da Ricci (libraio) una Letteratura Italiana di un signor Karl Wossler [ma Vossler]. Esilarante e scandalosa. Parla del futurismo come un cuoco analfabeta. Questo libello esiste anche in Biblioteca. Disgraziatamente.»
(ivi, p. 27).
«Sabato [10 marzo] [...]
Biblioteca. Grandi insulti di Scherer a Baudelaire. Tempo perso, filistei!!»
(ivi, p. 28).
«Mercoledì 14.
Lessi ieri in Biblioteca i Poèmes Barbares di Leconte de Lisle. Ero mal prevenuto contro il semideo parnassiano; ma sono stato vinto.»
(ivi, p. 29).
«Domenica 25 [...]-
Firenzuola: una o due novelle delle dodici che ne scrisse (in Biblioteca). Robaccia.»
(ivi, p. 32).
«Letture. Maxim Gorki. I tre (romanzo) (in Biblioteca). Mediocre; imitazioni dal Dostoiewsky; di suo non c'è che un certo senso del vagabondaggio, più forte, del resto, nelle sue novelle che non qui.»
(ivi, p. 44. L'annotazione compare tra il 16 e il 19 aprile).
«Il giorno 26 [aprile] mi colpì – in Biblioteca! – come un raggio di luce, durante la lettura dell'Homme di Ernesto Hello: mi parve di aver ritrovato la fede del carbonaio. Tornato a casa avrei letto quante più vite di santi, libri mistici e agiografici, mi fossero venuti tra le mani: Amour di Verlaine mi deliziò. Questo stato dura ad oggi, un po' diminuito. Merito un po' dell'aria che si respira, o di letture di conversioni; o del libro di Hello che ha pagine stupende, io non so... forse tutto questo insieme.»
(ivi, p. 46).
«Oggi fui per la prima volta alla Biblioteca dell'Università. Presi un'Antologia Lemerre compilata da filistei.»
(ivi, p. 52. L'annotazione compare tra il 26 e il 31 maggio).
«Caragiale: Novelle Rumene (tre). C'è una certa vita e una certa – per noi non rumeni – originalità. [...] In totale non c'è malissimo.
Lessi pure alla Universitaria gran parte del Clairières dans le ciel di Jammes. Buono.»
(ivi, p. 53, annotazione del 31 maggio).
«Oggi Biblioteca Universitaria. Il distributore in nome della morale rifiutò di darmi le poesie del Marino nella nuova edizione Laterza!! Ahimè, morale, come minacciano di farmiti diventare antipatica! Sbirciai gli Essais de Psychologie contemporaine del Bourget.»
(ivi, p. 55-56, annotazione del 7 giugno).
«Domenica 17 [giugno].
Questo diario bisogna dire che non lo curo gran che; ma in fin dei conti ho poco e nulla da dire. Solito scagno, solita vita: il pomeriggio lo passo in biblioteca, dove mi annoio. Leggo stentatamente e vorrei... vorrei fare qualcosa di mio, ma... sono desideri; mi manca ogni volontà. La mia impotenza è prodigiosa. Passano i mesi ed io mi guardo vivere; e ne stupisco; tutto rimetto al domani.»
(ivi, p. 56).
Montale (1935)
«Darling,
ho qui due lettere tue, ma ti risponderò fra un paio di giorni, appena finito di mettere a posto alcune difficoltà del W.C. [Gabinetto Vieusseux] Questa d’oggi è soltanto per non lasciar passare più di una settimana senza mie notizie.
Comincia l’inverno, quello che può essere il più brutto o il più bell’inverno della mia vita. Fra breve sarò nel mio botteghino (non nella cellar) con una piccola stufa a petrolio e molta malinconia in corpo. È molto difficile acquistare libri e giornali stranieri, cose indispensabili al funzionamento del W.C., e non so che cosa faremo. Però c’è molta tranquillità, «e l’ordine regna a Varsavia».
Abbiamo finalmente una grande stazione ferroviaria, moderna, razionale, cubista, con affreschi, statue etc. È diventata subito la mèta di un enorme pellegrinaggio popolare. La bandiera che pende sopra è lunga 28 metri e solo il simun del deserto potrà farla sventolare.
C’è anche la nuova biblioteca Nazionale sui lungarni, con lusso di elevators, posta pneumatica ecc. e orribile architettura 1880. Il resto è tutto eguale. Parlo quasi soltanto con gatti e uccelli in gabbia.»
(Eugenio Montale, lettera a Irma Brandeis, Firenze 31 ottobre 1935, p. 186).
Cfr. Laura Desideri, Bonsanti e la nuova stazione di Firenze, «Il portolano», n. 88/89 (gen.-giu. 2017), p. 7-9.
Montale (1936)
«Caro Binni,
voglia scusare il breve ritardo. Le ho mandato dei bollettini. I cataloghi sono in vendita a prezzi varî, e costituiscono dei veri volumi; ma non sono recenti. Quale le interessa?
Sui prezzi d’abbon. segnati sui bollettini posso farle uno sconto del 25%, come “professore”, e dispensarla dal deposito garanzia; non però da un deposito per spese postali da liquidarsi alla fine dell’abbonamento. Per es. un abbon. a 6 opere alla volta per 3 mesi le costerebbe l. 23.65; in tal caso mandi l. 35 e per un pezzetto la posta sarà pagata. Ma se si abbona mandi liste lunghe di numeri o titoli, perché tutti vogliono novità, ed è difficile averle tutte sotto mano.»
(Eugenio Montale, lettera a Walter Binni, [Firenze] 6 nov. 1936, p. 156-157. Montale dirigeva allora il Gabinetto Vieusseux).
Montale (1945)
«Ho scritto anche articoli politici sulla Nazione del popolo e sono stato commissario del C.L.N. al W.C. Vieusseux e altri lieux d'aisance.»
(Eugenio Montale, lettera a Gianfranco Contini, Firenze 29 maggio 1945, p. 96)
Montale (1946)
«Le lezioni [del maestro di canto] cominciavano molto presto, alle otto e mezzo del mattino, e di solito erano di trenta minuti. Poco dopo le nove entravo già nella Biblioteca comunale, semideserta a quell'ora. Non c'era molta scelta di libri e il distributore non ammetteva di esser disturbato. Ma in uno scaffale sempre aperto trovai pascolo per parecchi mesi. (Ho letto là, in quel tempo, non so quanti libri del Lemaître e dello Scherer, lo scopritore di Amiel). Intanto le lezioni procedevano regolarmente. Pian piano mi andavo rassegnando a dare l'addio a quella ch'era stata la mia voce, diciamo così, psicologica.»
(In chiave di "fa", prosa narrativa, a sfondo autobiografico, nel «Corriere d'informazione», anno 2, n. 92 (17 aprile 1946), p. 1-2; poi in Farfalla di Dinard, p. 69-73: 70).
Montale ha ripetuto questo racconto anche in una conversazione televisiva con Leone Piccioni:
«Sì, io dovevo essere alle 8 del mattino da lui, per mezz'ora. [...] Dopo, alle 9, alla Biblioteca Comunale ero il primo ad entrare; e mi guardavano di malocchio, perché gli impiegati speravano di poter stare tranquilli, fino alle 10, alle 11? non so, e in genere tendevano a darmi un volume del bibliotecario, Cervetto, «I Gaggini da Bissone». Oppure «I Promessi Sposi», qualche cosa di simile. Ma io, cercando negli scaffali, soltanto quelli a portata di mano, trovai le opere di Jules Lemaître, per esempio, «I contemporanei», un classico; poi quelle di Edmondo Schérer che è stato il biografo, quasi lo scopritore di Amiel; così lessi molti libri francesi che dopo non avrei mai più avuto occasione dì leggere. Quello fu un periodo abbastanza fortunato.»
(Cinquant'anni di poesia: Leone Piccioni a colloquio con Eugenio Montale: dalla rubrica televisiva "Incontri", «L'approdo letterario», n. 35 (lug.-set. 1966), p. 107-126: 108-109).
Montale, Marianna (1915-1919)
«Sapessi come si fa intelligente Eugenio! E assai meno chiuso di noi. Tutto il tempo che ha libero lo passa in biblioteca. Tu lo avessi sentito discutere stasera, parlava di arte. [...]
Mi ha detto che in biblioteca ha sfogliato qualche libro di D'Annunzio, ma che non ne ha letto nessuno perché gli mettono nausea; ed è indignato di vedere le signorine chiederli e leggerli.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 14 aprile 1915, in Lettere da casa Montale (1908-1938), p. 211).
«Ma cosa vuol dire Bilychnis? Ho cercato nel vocabolario greco e nel latino, ma non vuol dire nulla e neppure è un nome. Per prudenza ho scritto il titolo in un biglietto per non pronunciarlo male.
Mi ha detto il libraio che è una rivista mensile che esce da due anni. [...]
Eugenio, che in biblioteca guarda tutte le riviste, non la conosce.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 21 giugno 1915, ivi, p. 235).
«Non so che cosa armeggi Eugenio; deve scrivere qualche cosa. Si chiude in camera a chiave e guai a chi vuole entrare! Diventa furibondo e scarica delle insolenze. Se esce va in biblioteca e stamane è uscito con un involto.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 30 giugno 1915, ivi, p. 239).
«Ora [Eugenio] sta leggendo dei saggi di filosofia contemporanea del De Roberto, ma questo lo ha trovato in biblioteca. Io sbircio tutti i libri che compra, ma non posso leggerli tutti con calma, posatamente ... son tutti libri da rileggersi per cavarne qualcosa, ed averne un'idea definita.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Torriglia 22 ottobre 1916, ivi, p. 332).
«Faccio dei sogni mirabolanti: di studiare insieme io e te! Penso che sarebbe magnifico frequentare insieme l'Università e poi aver del tempo da seppellirsi in biblioteca. Sogni al di là da venire!»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 8 dicembre 1916, ivi, p. 341).
«Ho preso l'altro giorno per Genio [Eugenio] in biblioteca un libro di versi di Francis Jammes. Se tu sentissi come graziosi!»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 16 febbraio 1917, ivi, p. 351. Iscritta all'Università di Genova dal novembre 1916, Marianna frequentava probabilmente sia la Biblioteca universitaria che quella della Facoltà di lettere e filosofia, creata alcuni anni prima).
«Se tu sapessi quanti libri avrei da leggere se avessi tempo. Genio ne ha portato una dozzina, dei generi più disparati; poi gliene prendo in biblioteca io; poesie, romanzi, opere filosofiche, di tutto un po'. Egli legge e nota brevemente poche parole per ogni libro, l'impressione complessiva. A volte così geniale e bizzarra! A volte profonda. E con una sicurezza e una decisione unica!»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 11 marzo 1917, ivi, p. 355).
[Ernesto Soleri] «Non è cieco nato, ma lo divenne parecchi anni fa. Ora abita all'Istituto dei Ciechi e dà già qualche lezione privata.
Ci troviamo in biblioteca dove ci danno una stanzetta particolare, per poter leggere ad alta voce. [...]
Lui gira per la città da solo, benissimo, per i suoi giri consueti. Tuttavia se è accompagnato è meglio, perciò, uscendo di biblioteca facciamo un pezzo di strada insieme.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 7 giugno 1917, ivi, p. 367-368).
«Che mondo!
«Crede che sia sciocco o cattivo?» mi chiese ieri Soleri appena fummo a tavolino.
«Credo piuttosto sciocco o cieco, Soleri, che cattivo. Ma perché, che cosa le ha fatto il mondo?».
«Niente ... In facoltà chi sa che noi due studiamo insieme?».
«Ma ... non saprei; non è un mistero; ci avranno ben visto in biblioteca, o per via ...».
«Perché ... in facoltà si dicono delle sciocchezze, debbo avvertirla».
Io ho fatto una bella risata.
«Si vede che non hanno da pensare ad altro, Soleri. Che cosa vuol farsene?».»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 3 luglio 1917, ivi, p. 374).
«Che matto [Soleri]! Sai che ieri, in biblioteca, gli impiegati non trovavano un dizionario filosofico e lui, cieco, lo ha trovato?»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova luglio 1917, ivi, p. 378).
«Al caffè, poi, passavo i soldi a lui [Eugenio] perché facesse da cavaliere, e lui prendeva un'aria così cara, da bamboccio. E mi raccontava che spesso incontrava il cameriere in biblioteca (faceva servizio solo di sera e la domenica, come cameriere) e che anche lui sentiva tendenza a far quella vita: di sera cameriere e di giorno topo di biblioteca. Ma cameriere senza troppi clienti, altrimenti avrebbe perso la testa. E le nostre risate per l'eloquio fiorito del vecchio cameriere!»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 21 febbraio 1918, ivi, p. 430-431).
«Poi ... mi pare che lo spiritismo proceda troppo velocemente. Ma il Signor Vignolo ha voluto che cercassi un libro in biblioteca; l'ho preso e non ho il coraggio di darglielo, perché è di uno spiritista fervente e adduce certi fatti che fanno pensare. Voleva poi che lo mettessi in contatto con un Prof. di astrologia dell'Università, teosofo e spiritista convinto, ma per fortuna il Prof. è a Trieste e ci starà un bel pezzo.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 18 dicembre 1918, ivi, p. 464).
«Debbo stare attenta a non lasciare scorgere i miei desideri, perché subito si offrono per appagarli. Berto [il fratello maggiore Alberto] mi ha fatto socio di una Società di Letture Scientifiche (mi sarà utile specialmente per la tesi) solo perché io gli ho chiesto, a titolo di curiosità, se potevano iscriversi anche le donne (lui è socio e Salvo [l'altro fratello Salvatore, primogenito] pure).»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 24 marzo 1919, ivi, p. 474. La Società di letture e conversazioni scientifiche aveva una buona biblioteca, con servizio di prestito, che fu utilizzata anche da Eugenio).
Montale, Marianna (1923-1938)
«Ho cominciato l'inglese, sai? ... avevo anche cominciato ad andare in biblioteca per la tesi, sono andata due giorni e poi più.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 25 novembre 1923, in Lettere da casa Montale (1908-1938), p. 553).
«Che cosa ne dici se io venissi a Firenze per un mese dalle suore a lavorare in pace?
Mi attira Firenze perché ci sei tu, perché dalle suore non c'è distrazione, perché son vicina a San Marco per i libri, perché non è un posto nuovo da tentarmi troppo a girandolare.
Sapessi che pochi libri filosofici ci son qui in Biblioteca! Su venti che cercavo l'altro giorno, ne ho trovati tre.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 5 marzo 1924, ivi, p. 558. Marianna aveva superato tutti gli esami del corso di laurea in filosofia ma non completò mai la tesi).
«Cara, non ti ho più scritto perché ho avuto molto da fare. Aiuto un po' Rosaria [figlia del primo matrimonio di Luigi Vignolo, che Marianna aveva sposato nel 1925] per la tesi che esige un lavoro preparatorio enorme. Ora Rosaria è a Roma da due settimane perché la Biblioteca Hertziana pare sia specialmente ricca sull'argomento. Sperava di finire in due settimane, invece ne avrà per più di un mese. Così vado via due giorni a tenerle compagnia, parto tra due ore.»
(Marianna Montale, lettera a Ida Zambaldi, Genova 25 febbraio 1938, ivi, p. 706).
Monti (1947)
«[Faustino] Curlo che sta cesellando a memoria un suo «sogno», Curlo che è in vena di buttar giù pagine su pagine della «Coppa», Curlo che è atteso a visitar la Commenda sulla collina del Pino, deve restar chiuso là dentro [nella Biblioteca nazionale di Torino], dalle 9 alle 12, dalle 15 alle 18 – le sue ore migliori – ad ascoltar la doglianza d'un collega sul mancato «scatto», a litigar con quella pettegola di studentessa che vuol per forza in prestito un libro «riservato», a «controllar» se le note d'accompagnamento dei librai rispondono al «contenuto»...? Ma figurarsi!»
(Augusto Monti, La corona sulle ventitre, p. 115. Curlo lavorò come sottobibliotecario alla Biblioteca nazionale di Torino dal 1898 al 1933, tranne alcuni periodi di aspettativa e brevi trasferimenti a Venezia e a Genova).
«Ma come quell'«albergo» non era cosa per Ser Ludovico [Ariosto] tanto inamena ch'egli non ne potesse ricavar materia per qualcuna delle sue «corbellerie», così il «servizio» non era per il Marchese Curlo cosa tanto «ripugnante» che egli non potesse desumerne argomento per qualcuno di quei suoi curiosissimi «sogni». [...] tra i «sogni» di Curlo uno ne ricordano gli amici, che [...] cominciava con una prodigiosa galleria di tipi, visti da Curlo e studiati alla Nazionale a Torino ne' suoi sì lunghi anni di «sottobibliotecariato».
L'altro sogno [...] lo si è potuto ricostruire fin nei particolari di su una lettera, serbata a noi, di Curlo a [Camillo] Franco, ma questo, ahimè, udito una sola volta da una piccola brigata di amici ancora in casa Pinelli, è svanito quasi tutto dalla memoria degli uditori; dei quali però nessuno ha dimenticato, pur dopo quell'unica audizione, quei «grotteschi» degni d'un Gavarni: il pensionato «treccanista» che attende con esasperazione il volume tot dell'Enciclopedia, in cui troverà certo spiegata la tal voce, fonte di tante discussioni e litigi e guai a casa al caffè al circolo; e il volume non viene mai; e quello si strugge; e quando viene... la sua voce non c'è. La signorina riccioluta che rincorre da anni l'opera fantasma; che certamente «esiste»; ma nessun distributore riesce mai a raggiungere; perchè una volta è in lettura, un'altra in prestito, un'altra in rilegatura, un'altra è spostata; quella strepita e scuote la zazzerina; ma l'opera non la raggiunge lo stesso. E l'indimenticabile Gandhista torinese, che si presenta all'ingresso della Nazionale ravvolto in un lenzuolo e scalzo, come il «maestro», e pretende d'entrar nelle sale con quei piedi nudi, e l'usciere, naturalmente, vi si oppone; e quello domanda perchè; e l'usciere, un meridionale, spiega: «La decenza – la descenza – signoria, la pulizia»; e la sfida del Gandhi: «Si scalzi anche lei, a veder chi li ha più puliti i piedi»; e l'allibito schermirsi del napoletano; e le didascalie di Curlo nel raccontar la scena in quel suo inimitabile torinese».
(ivi, p. 116-118).
««La signorilità grande del suo tratto, la sua offerentesi cortesia facevano di lui un elemento quanto mai decoroso del nostro Istituto»: è un collega che parla di Curlo; e meglio di così non se ne potrebbe dire. Il Marchese Curlo in Biblioteca «riceveva»: studiosi nostri, studiosi stranieri a lui erano affidati, Curlo diceva «rifilati»; Curlo, cosmopolita e municipale come un di quei nostri dotti nobili del Settecento, per gli studiosi sì nostrani che europei era il padron di casa ideale. Sapeva le lingue, non da lettore di Mitteilungen o di Reports o di Bulletins, ma da uomo di mondo: lo straniero con lui era a suo agio. Parlava il piemontese: il comprovinciale con lui era a casa sua. Storia di Torino, palazzi di Torino, storia del Piemonte, terre città castelli piemontesi, costumi piemontesi, grandi case piemontesi, origine, ramificazioni, trapassi, splendori e decadenze; Curlo era l'enciclopedia vivente, su tutto Curlo dava notizie, informazioni, indicazioni, senza opprimere il consulente, leggero garbato disinvolto e sorridente. Veniva uno straniero per non so che manoscritto o incunabulo o altra simile rarità dalla Nazionale posseduta, trovava in Curlo non «l'impiegato» che lo «serviva», ma il dotto che collaborava con lui, gli rimoveva ostacoli, gli risolveva difficoltà, lo faceva stupire per la sua sempre speciale preparazione e competenza. Se lo straniero ricercatore era uomo di cultura varia e diversa allora Curlo se lo traeva dietro, fuor dai recinti della biblioteconomia della bibliografia e della paleografia, agli orti dell'archeologia nelle sue più impensate applicazioni: tipografia, calligrafia, arte del ricamo, della rilegatura, del mobile, ai campi della pittura, architettura, della letteratura e della storia. L'ospite dimenticava il «motivo per cui», si distraeva dietro le coerentissime divagazioni di Curlo, ammirava stupiva, era «incantato» della conoscenza. Se, chiesta la lista delle opere di Curlo, ne riceveva in risposta un pittoresco suo gesto negativo, se interrogatolo sulla sua carriera non ne ricavava che un sorridente gesto di noncuranza, lo straniero tornava al suo paese pensieroso, «un uomo così da noi...», e là giunto narrava d'aver conosciuto di persona un «Italiano», uno di quei dotti dal candido e rinunziante animo francescano, il cui tipo fu fissato e diffuso per il mondo dall'autore del Crime de Silvestre Bonnard.
Invece l'ambulante studioso francese o tedesco o inglese o americano aveva conosciuto Curlo, il Marchese Curlo, il magnifico e un po' bizzarro signore ligure-piemontese, il quale, come le novelle, i «sogni», li componeva a memoria nei suoi ozi e li regalava post prandium agli amici, così le sue opere di varia erudizione le compilava a mente, e agli ospiti che riceveva ne' suoi domini le donava, come anelli tratti da uno scrigno, a suo souvenir, senza parere senza obbligare, senza bisogno di rispondergli «grazie».»
(ivi, p. 122-124).
Monti aveva iniziato a scrivere i suoi ricordi di Faustino Curlo subito dopo la sua morte, nel 1935, rivolgendosi anche a Cesare Pavese:
«Son tutte le vacanze che m'arrapino a distender quel necrologio del Marchese Curlo, che gli amici suoi han voluto accollare proprio a me: a un certo punto ci vorrei far entrare almeno in parte quel «sogno» che il Marchese narrò presente te pure, quello della biblioteca, con tutta quella galleria di tipi di avventori e impiegati: lo ricordi? ne ricordi questa parte? mi potresti di questa parte scrivere tutti i particolari che ricordi? Io uno solo son riuscito a ricostruire da me, quello del lettore che s'ostina a entrar in biblioteca vestito da Gandhi, avvolto nel lenzuolo e scalzo, e la sfida che lancia all'impiegato cav. Turiddu Locascio, di scalzarsi, a veder chi dei due abbia più presentabili quelle estremità. Se altri particolari siffatti tu mi puoi precisamente ricostruire, mi farai, ti ripeto, piacere.»
(Augusto Monti, lettera a Cesare Pavese, La Cordria 29 agosto 193, in: Augusto Monti nel centenario della nascita: atti del convegno di studio, Torino-Monastero Bormida, 9-10 maggio 1981, a cura di Giovanni Tesio, Torino, Centro studi piemontesi, 1982, p. 75-76. Il nome del custode è inventato).
Pavese non avrà però elementi significativi da aggiungere:
«Del sogno del Marchese Curlo ricordo appunto quanto lei; in piú, vagamente, un accenno ai lettori della Treccani, che ci lasciano dentro il moccio. E poi, mi pare, una scena di gelosia tra donne.»
(lettera a Monti, [Brancaleone] 11 settembre [1935], in Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 1966, p. 435).
Morandi (1984)
«Per me il primo anno di università era stato molto importante e significativo: mi aveva aiutata a chiarire le mie idee, a fare una precisa scelta politica. Ora la mia avversione al fascismo era ben radicata e motivata da convinzioni ideologiche e sociali, non soltanto da vaghe aspirazioni alla libertà.
A trasformarmi in questo senso avevano contribuito i lunghi colloqui con una mia insegnante di filosofia, la lettura di opere di Croce e De Ruggiero, libri quasi introvabili in periodo fascista, e la conoscenza di compagni più maturi e preparati di me.
Dopo i primi timidi accenni per tastare il terreno, una volta rivelato il nostro modo di pensare, ci eravamo lasciati andare a sfoghi, a lunghe discussioni nei giardini di Piazza S. Marco o negli angoli dei corridoi della biblioteca di facoltà, guardandoci alle spalle timorosi di essere ascoltati da orecchi indiscreti (anche nell'università non mancavano le spie dell'OVRA).
Dopo qualche mese ero riuscita a conoscere e ad avvicinare gli antifascisti della facoltà di Lettere e mi sentivo orgogliosa di essere considerata «una di loro» da studenti degli ultimi anni che facevano parte di movimenti politici clandestini.»
(Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano, p. 14-15. Il ricordo si riferisce al periodo 1942-1943, prima del 25 luglio, a Firenze).
Morante (1937-1939)
«Fra l'altro, devo fare una tesi di laurea, perché mi sono impegnata e cosí con questo bel sole devo passare giorni interi in biblioteca. Sembra una sciocchezza, ma credi che è una gran noia – specie quando si dovrebbe pensare a tutt'altro come nel mio caso.»
(Elsa Morante, lettera a Luisa Fantini, [Roma], 12 maggio [1937], p. 50).
«Qui sto sempre sola, non ci sono che dei vecchi tedeschi. Ho trovato dei libri e leggo. E tu leggi? C'è una biblioteca a Lucca? penso di sí.»
(lettera a Luisa Fantini da Villa Ceselle, Anacapri, 13 febbraio [1939], p. 69. Luisa Fantini (1907-1984), artista e illustratrice, soprattutto di letteratura per ragazzi, viveva a Lucca).
