L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Mussolini (1939)
«Questo «ritorno di fiamma» [per Alfredo Oriani] si concretizzò tra l'altro, il 26 giugno 1939, in una visita d'omaggio di Mussolini all'«eremo» del Cardello, alla tomba e alla casa di Oriani. Nella biblioteca dello scrittore Mussolini volle vedere i manoscritti de La lotta politica in Italia e della Rivolta ideale e sottolineò l'importanza di queste due opere. Cfr. «Il popolo d'Italia», 27 giugno 1939. Al Cardello Mussolini era già intervenuto, il 27 aprile 1924, ad una celebrazione di Oriani pronunciandovi un discorso di esaltazione della sua opera e in particolare proprio dei due libri testé ricordati [...], che fu successivamente utilizzata come prefazione all'Opera omnia, curata dallo stesso Mussolini e edita da Cappelli.»
(Renzo De Felice, Mussolini il duce, 2: Lo Stato totalitario, 1936-1940, p. 287-288, nota 76).
Muti (2019)
«Tutto questo per ribadire la fama e gli unanimi riconoscimenti di cui all’epoca Napoli e i musicisti che alla sua scuola si erano formati godevano. E di cui oggi, purtroppo e colpevolmente, non rimane che una sbiadita memoria. Così nel Museo del Conservatorio di San Pietro a Majella è conservata con cura la sedia rossa su cui sedette Wagner nell’aprile del 1880, in estasi all’ascolto del Miserere per due cori di Leonardo Leo, eseguito dagli allievi dell’istituto, ma non si trova il modo di valorizzare, come sarebbe doveroso, il patrimonio di manoscritti, centinaia di tesori della storia della musica che giacciono silenziosi sotto una coltre di polvere e di oblio nella ricchissima biblioteca dello stesso istituto.
Una biblioteca che frequentavo spesso, quando studiavo in quel Conservatorio, e la cui ricchezza mi affascinava e turbava al tempo stesso, proprio perché coglievo quanto fosse ingiustamente trascurata.»
(Riccardo Muti, L'infinito tra le note).
Nalli (1940)
«Un po' più in là, prima timidamente, poi con sfacciataggine, misi piede nelle Biblioteche, e dovetti lottare a lungo con gli uscìeri, che non volevano farmi entrare perchè non avevo i diciotto anni prescritti dal regolamento. [...]
Fu forse per attenuare questo dispiacere che il destino mi condusse nelle Biblioteche: e da allora, purtroppo, non ho trovato più un usciere che mi abbia vietato l'ingresso: tutti mi salutano anzi, con molto rispetto e troppa gente mi viene a cercare. Bisogna che vada all'Ambrosiana, o che entri nella biblioteca pubblica di un'altra città, dove nessuno mi conosce, per avere l'illusione di essere un lettore qualunque.»
(Paolo Nalli, Bibliofilia di un bibliotecario, «Meridiano di Roma», 5, n. 18 (5 maggio XVIII [1940]) p. VIII. I suoi ricordi di gioventù si riferiscono a Palermo).
Negro (1945)
«Uno degli ambienti più pittoreschi che servirono di rifugio ai ricercati fu il tetto della chiesa della Minerva tenuta dai domenicani. E' l'unica chiesa gotica di Roma, questo vuol dire che, visto di sotto alle capriate coperte di una polvere secolare, il tetto è tutto un acrocoro di montagnole in miniatura. Tra le strida vicinissime delle rondini vi si respira un'aria magica e rarefatta; dalle vaste aperture senza impannate si guarda su una distesa di tetti che non ha soluzione di continuità [...]. In un certo periodo stettero sul tetto della Minerva anche sessanta persone suddivisesi naturalmente in vari accantonamenti: ricercati politici, militari italiani, prigionieri inglesi fuggiti dal campo di concentramento, ebrei, austriaci e tedeschi che non volevano servire Hitler. C'era una radio ricevente, una scuola di lingue, una rudimentale biblioteca circolante, e perfino un'orchestrina. I gruppi scaglionati nei vari angoli organizzavano visite, té, trattenimenti. Dal più giocondo buon'umore, ci ha raccontato uno dei rifugiati, si passava ad ore d'inquietudine e di angoscia spaventose; la lotta con il freddo era estenuante e per resistere essi andavano a turno a passare un'ora in una delle tepide stanze del convento.»
(Silvio Negro, Ebrei in clausura: a Roma, al tempo dei nazisti, vivevano nascosti sotto le cupole delle chiese; e qualcuno finanche nelle tombe, «Corriere d'informazione», 27 luglio 1945, p. 2).
Nicoletto (1930)
«Io sto benone: di giorno in giorno mi ambiento sempre piú al luogo e mi abituo alla nuova esistenza: quando sono stanco di star qui in camerone o dormitorio come vuoi chiamarlo, vado un po’ giù a Lipari a passeggio [...]; stanco di passeggiare mi riduco o in biblioteca oppure in riva al mare. E qui resto molto tempo canticchiando Madame Butterfly:
Un bel dì vedremo
levarsi un fil di fumo
là in su l’estremo
confin del mar...
e aspettando anch’io di veder levarsi il fil di fumo del piroscafo che dovrà portarti qui.»
(Italo Nicoletto, lettera al padre dal confino politico di Lipari, 19 luglio 1930, p. 56. Arrestato nel 1927 per attività sovversiva e condannato nel 1928 a tre anni di reclusione, Nicoletto scontò la pena presso il carcere di Viterbo, dove si legò al collettivo dei detenuti comunisti partecipando attivamente a varie agitazioni; scontata la pena fu considerato elemento politicamente pericoloso, quindi condannato a due anni di confino e destinato alla colonia di Lipari; qui, tra il 1930 e il 1931 fu incaricato di dirigere la biblioteca, e in qualità di direttore scrisse a Benedetto Croce chiedendogli l’invio de «La critica»).
«Ti hanno detto, quando sei andato a informarti in Questura che finora la mia condotta è buona. Lo credo bene io! E non potrebbe essere altrimenti. E ti dico subito il perché.
Alla mattina esco verso le nove per andare a prendere la mazzetta.
Vado in biblioteca dove resto un paio d’ore e ritorno a casa. A mezzogiorno vado alla mensa a mangiare e finito ritorno a casa, da dove non esco che alle sei di sera per andare di nuovo alla mensa. Dopo cena un’ora o due di passeggio sul corso principale di Lipari. Alle otto immancabilmente sono a casa; e di là fino alla mattina seguente alle nove non esco.
Come vedi tutto il mio tempo lo trascorro a casa o in biblioteca (qui esiste una discreta biblioteca dei confinati politici). Bere non bevo, a nessuno do fastidio o disturbo, m’interesso dei fatti miei e lascio gli altri sbrigarsi i loro.
Di più non so fare e non faccio.»
(lettera al padre dal confino politico di Lipari, 25 settembre 1930, p. 62).
«mai come nei giorni passati sono stato in una continua (non dico spaventosa perché sarebbe troppo) tensione nervosa che mi impediva di eseguire anche i miei più elementari doveri del giorno (come la contabilità della biblioteca, lettura dei giornali, rispondere alle lettere ricevute, ecc.). Ho trascorse alcune giornate che posso chiamare veramente nere.»
(lettera alla madre dal confino politico di Lipari, 28 dicembre 1930, p. 68).
Nicoletto (1981)
«Per la loro stessa natura, le mense, gli spacci, le biblioteche erano utili strumenti per tenere strettamente uniti i confinati; dimostravano la loro capacità organizzativa e la loro forza politica; rappresentavano in definitiva, la vitalità dell'antifascismo e dei partiti antifascisti. A Lipari nel 1930-31, ero stato per un anno direttore della biblioteca dei confinati e mi ero fatto una larga esperienza degli scontri inevitabili con la direzione della colonia nella difesa dei nostri diritti.»
(Italo Nicoletto, Anni della mia vita, 1909-1945, p. 108-109).
Nitti (1961)
«La nostra vita era regolata da norme precise e sottoposta al controllo continuo della polizia. La posta era passata al vaglio della censura, sia all'arrivo che alla partenza, e così ogni pacco o altro invio da parte di nostri familiari. Avevamo ottenuto il permesso di costituire una piccola biblioteca, ma con quale pavido spirito si censuravano i libri! Ricordo che molte opere erano sequestrate all'arrivo perché ritenute «pericolose» o avverse al regime fascista: Bernard Shaw perché era inglese, Carlyle perché filosofo e storico liberale (la sua poetica Rivoluzione francese fu considerata diabolica); gli scrittori francesi moderni esclusi perché ritenuti anticonformisti. Qualche volta potemmo giocare sulla crassa ignoranza dei sorveglianti, riuscendo ad avere libri che il fascismo avrebbe dovuto considerare ben più esplosivi! Organizzammo anche, con il permesso del direttore della colonia, una scuola: si davano e si ricevevano lezioni di storia, letteratura italiana, matematica e lingue straniere. Dopo alcuni mesi la scuola fu chiusa dalla direzione per timore che le lezioni servissero soltanto a riunioni di carattere «cospiratorio».»
(Fausto Nitti, La fuga da Lipari, in Trent'anni di storia italiana, p. 199-200). Nitti fu arrestato il 2 dicembre 1926 e giunse a Lipari nel marzo del 1927, riuscendo a evadere il 27 luglio 1929 assieme a Carlo Rosselli e Emilio Lussu a bordo di un motoscafo guidato da Italo Oxilia e proveniente dalla Tunisia. Sull'episodio Nitti ha rilasciato una testimonianza orale, poi pubblicata nel volume einaudiano, con lievi differenze: «La nostra vita era quella dei prigionieri ai quali si vietava tutto ciò che era sospetto. E per i fascisti, per il regime fascista, tutto era sospetto. Avevamo avuto, dopo molte insistenze, il permesso di organizzare una biblioteca, ma avremmo dovuto certamente segnare, annotare, per non dimenticarle, le atroci buffonate alle quali dovevamo assistere quando arrivavano dei pacchi di libri. Ogni libro era sospetto. Sospetto Bernard Shaw perché era inglese, dicevano. Sospetto l'altro inglese, Carlyle, che aveva scritto una Rivoluzione francese poetica e nient'affatto pericolosa. Pericolosi in gran parte gli autori francesi. Pericoloso tutto. Comunque noi riuscivamo, giuocando sull'ignoranza dei nostri sorveglianti, a organizzare almeno un piccolo scaffale di libri interessanti.». La registrazione, assieme all'intero ciclo di lezioni e testimonianze tenutesi a Torino presso il Teatro Alfieri tra l'aprile e il giugno 1960 e poi confluite in volume, sono disponibili all'indirizzo <http://www.metarchivi.it/dett_FONDI.asp?id=359&tipo=FONDI>.
Palazzeschi (1960)
«Non ho mai letto molto né con metodo, e la mia ispirazione letteraria venne suscitata sempre dall'osservazione diretta della vita e dalla mia naturale fantasia. La mia vera maestra fu la strada. Rare volte sono andato in biblioteca riportandone sempre un senso di oppressione e di malinconia. Ciò nonostante, oltre alla letteratura del mio Paese, ho amato molto i narratori russi dell'Ottocento e i narratori e poeti francesi dell'Ottocento medesimo.»
(Aldo Palazzeschi, testimonianza per Ritratti su misura, p. 314).
Palumbo (1957)
«Era uno dei primi giorni di febbraio. [...] Da giorni non riuscivo ad andare avanti. Ogni sera tentavo di fare un passo avanti con Dante, ma non mi riusciva. Seduto al tavolo tondo che fungeva anche da tavola da pranzo per la mia famiglia, tentavo tutte le sere di leggere qualche canto della Divina Commedia, ancora dell'Inferno; ma tutte le volte, dopo una mezz'ora, mi davo per vinto. [...] Il commento era antico, mi rimandava sempre ad un "Anonimo" o ad un "Boccaccio", e soprattutto citava molto spesso "La vita nova", l'amore di Dante, la sua poesia amorosa. Così s'era andato maturando in me il convincimento che, prima della Commedia, dovessi leggere e studiare almeno questa vita.
Quella sera uscii fra la sorpresa dei miei. [...]
Camminai col desiderio d'arrivare a scoprire e conoscere questo romanzo di Dante, e con lo stato d'animo di dare alla vicenda d'amore una trama tutta mia particolare. [...] Piazza Castello. Da settimane rimuginavo quel pensiero. Avevo saputo da Gaetano, il meccanico, il primo amico di mio fratello a Milano, che lì c'era la biblioteca, e che era aperta anche di sera. Ci avevo pensato spesso, ma mai per decidermi ad andarvi. Credevo che fosse un palazzo vietato ai ragazzi, adatto solamente per i grandi, per gli istruiti, per i preparati.
Quella sera però, man mano che m'avvicinavo, sentivo crescermi dentro una decisione nuova, ferma.
Ma dove fosse, non sapevo con precisione. Gaetano m'aveva detto solamente: «Al Castello Sforzesco ci puoi trovare tutti i libri che vuoi». Arrivai all'ingresso e vidi tutto chiuso, buio. [...]
Stavo tentando di leggere alcuni cartelli in ferro appesi alle porte del Castello, quando mi sentii dietro dei passi. Era un signore, piuttosto piccolo, anziano. Lo abbordai subito.
«Scusi, sa dov'è la biblioteca del Castello?» Mi guardò piuttosto sorpreso. Fece: «Qui». Ed aspettò che dicessi qualche altra cosa. Ma io lo guardavo e gli facevo comprendere che non avevo capito.
«Apre alle nove. Fra qualche minuto». [...]
Volevo arrivare a biblioteca aperta. Domandare m'aveva già dato fastidio, anche farmi vedere in attesa m'avrebbe dato fastidio. Poi quell'essere guardato con curiosità. Va bene che avevo un cappotto, striminzito, stretto di spalle, corto sulle gambe, che non avevo niente in testa, che insomma non ero un ragazzo molto indicato per una biblioteca, pure la curiosità di quel signore m'aveva dato un po' fastidio.
Tornai indietro che erano le nove e cinque. Sulla porta, nessuno. [...] Solamente nel fondo a destra tre grandi finestroni da cui usciva una luce schermata da tende. Pensai che dovesse essere lì. Una porticina su cui era scritto "Biblioteca", e l'orario per il giorno e per la sera. Aprii piano piano. Mi consideravo un intruso. Temevo che fra qualche sarei stato messo alla porta. Non ricordavo neppure più perché c'ero venuto, che libro avrei desiderato vedere, guardare, leggere, conoscere. Il Dante della mia "Divina Commedia", da lontano, m'invitava a tornare nella mia cucina [...].
«Avanti. Chi è?» sentii una voce. voce. Mi affacciai. Richiusi. Un tepore, ma ancora estraneo, mi arrivò in faccia. Un uomo magro, con grosse lenti, era dietro uno scrittoio, alto. Un altro uomo era in piedi, un poco più in là, quasi vicino ad una porta grande, sotto una lampada. M'avvicinai all'uomo seduto, che m'aspettava. L'altro continuava a sfogliare un libro aperto fin quasi sotto gli occhi.
«Desidera?» mi fece l'uomo seduto. Mi si dava del lei, là dentro. Che strano! Pensavo d'essere trattato come un ragazzo. «Forse non ha visto ancora come sono vestito», conclusi.
M'avvicinai lo guardai e riuscii a dire: «Vorrei leggere la "Vita Nova" di Dante».
L'uomo seduto mi guardò incuriosito. Ma io sentii su di me anche gli occhi dell'uomo in piedi. Lo guardai anch'io un momento. In lui c'era la sorpresa. Ritornò subito con gli occhi sul libro.
«Ma quale "Vita Nova"?» mi domandò il bibliotecario.
«Ma non so, quella di Dante», dissi io, e mi sbigottii, credendo che di "vita nova" ce ne fosse più d'una.
«Sì, siamo d'accordo», fece l'uomo, buono, gentile, «ma commentata da chi?»
«Ma non so», dissi di nuovo io. Mi pentivo d'essere lì, d'essere venuto; avrei voluto girare sui tacchi e di corsa uscire, scomparire. Che ne sapevo io di commenti e di commentatori?
Per fortuna sentii di nuovo su di me gli occhi del signore in piedi. Mi pareva che mi sorridesse. Disse: «Gli dia quella del... » (e mi sfuggì il nome).
L'uomo si alzò, uscì. Io guardai un momento il signore e non fui capace di dirgli neppure grazie. Lui riportò di nuovo gli occhi sul libro, aperto, quasi fin sotto il mento. Dopo qualche secondo mi fece: «Vada dentro. Aspetti lì». Questa volta riuscii a dirglielo il grazie.
Entrai. Un salone grandissimo, a malapena da intravvedersi il fondo. Pieno di scaffali tutt'intorno fino al soffitto. E silenzio, ma accogliente, religioso, di quello che avevo sentito quando qualche volta al mattino presto (ancora prima dell'alba) ero entrato nella chiesa dei cappuccini al mio paese. [...]
Lunghi tavoli rotti solamente da un corridoio al centro, e sedie allineate ai due lati di ogni tavolo. E luci riverberate proprio sui tavoli, in modo da lasciare la testa e il busto di chi leggeva nell'ombra. Ora ero contento d'essere lì dentro. Mi sentivo tranquillo, in pace con me stesso e con gli uomini. Forse perché lì non c'era nessuno, forse perché pareva un angolo di terra dimenticato dagli uomini, o forse perché finalmente dopo mesi scoprivo nella mia nuova città un angolo di pace, in cui non sentissi intorno a me il senso del vago, del provvisorio. Era finalmente il luogo che avevo cercato, che avevo desiderato, quello che m'avrebbe disancorato dal ricordo della città che avevo lasciato [...].
C'era al secondo tavolo il signore piccolo. Non alzò neppure la testa. Ma forse perché camminai in punta di piedi. L'oltrepassai. Nessun banco mi pareva che facesse per me. Camminai nel corridoio fino in fondo. Volevo non essere visto, dimenticato. Temevo d'essere ancora un intruso, un importuno. Credevo che sarebbero arrivati altri lettori, ormai di casa, e che m'avrebbero rimproverato d'essere venuto ad introdurmi nel loro ambiente, nel loro mondo.
Mi sedetti all'ultimo banco ed aspettai. Da lì in fondo la sala pareva più piccola, ma ancora più accogliente. Intorno a me le luci erano tutte spente. Vidi affacciarsi il bibliotecario con un libro in mano. Guardò in giro. Mi cercava. Cominciò a venire avanti. Io non facevo niente per farmi notare. Avevo paura che mi rimproverasse perché ero andato a finire là in fondo. Mi vide, mi fu vicino, alzò la mano all'interruttore sulla mìa testa e l'accese.
«Non la vedevo più», disse, e mi mise il libro davanti.
«Grazie e scusi», feci e lo guardai.
«Prego. Chiudiamo alle undici e mezzo. Ma la restituzione va fatta qualche minuto prima». Disse le ultime parole mentre già tornava indietro.
Aprii il libro a caso. Prosa e versi. Poi provai a leggere. Ebbi paura. No, non era libro per me. Non capivo niente. Avrei dovuto leggere quel libro almeno venti volte prima di sapermi raccapezzare. [...]
Mi sentii sfiduciato, avvilito. Se non fosse stato per il disturbo che avevo arrecato al bibliotecario, se non fosse stato perché lui e l'altro signore m'avevano visto, ora me ne sarei andato, di soppiatto, come un ladro. Non era luogo per me, benché sentissi il silenzio, la penombra aderire al mio spirito, al mio bisogno di pace e di tranquillità.
«Ora dico che non ci capisco niente, ringrazio e vado via», mi dissi. «E chiedo scusa per il disturbo».
Ma non mi decidevo ad alzarmi. Guardavo in giro i libri allineati, la spalla del signore, molte file avanti a me, sentivo il silenzio e non mi decidevo.
«Ci sto qualche minuto. Almeno faccio capire che l'ho guardato il libro». Ma questo sotterfugio mi dava già fastidio.
Alzai gli occhi. A due passi da me vidi venirmi incontro il signore alto. Forse mi osservava già da prima. Continuò a venire avanti ed a guardarmi. Aveva un sorriso delicato, affettuoso, che disarmava. Mi fu vicino e rimase in piedi.
«Te la cavi?» mi domandò, senz'ombra di presunzione. Lo guardai. Aveva un occhio vivo, dietro le lenti cerchiate di nero. Il mento affusolato, le labbra sottili. Si vedevano solamente quando parlava e sorrideva. Le mani da lungo i fianchi le portava dietro la schiena e poi le riportava lungo i fianchi.
«Ma, veramente, non molto», dissi. Ma avrei voluto scoppiare a piangere. [...].
«Ho capito», fece. Si guardò in giro e poi venne a sedersi alla sedia vicino alla mia. «Vediamo. Forse ti posso aiutare io», fece.
Lo guardavo e mi pareva di non capire.
«Cosa fai? Studi?» mi domandò, e s'avvicinò il libro. Ascoltò senza alzare la testa.
«Faccio il fattorino, di giorno», dissi. «Ma voglio studiare. Ho incominciato da due mesi la "Divina Commedia", ma nelle note ci sono sempre i richiami alla "Vita nova". Per questo sono venuto».
Continuava a sfogliare il libro. Pensai che volesse che dicessi qualche altra cosa della mia vita.
«A metà del secondo ginnasio dovetti lasciare la scuola e andare a lavorare. Da allora ho cercato sempre di leggere, quando ho potuto. Mi piace studiare. È una cosa più forte di me».
Alzò la testa e mi guardò. Mi sorrideva, ancora affettuoso, comprensivo. «Quanti anni hai?» mi domandò.
«Sedici».
«E puoi venire la sera?»
«Sì», mi uscì come un fiotto, improvviso.
«Allora forse ti potrò aiutare io. Sono il direttore qui dentro», fece, ma senza voler dare molta importanza alla cosa. «Vediamo. Cominciamo dalla prima pagina».
Avvicinò di più la sedia alla mia. Allungò fino a me il libro e lesse [...].
Sentivo il suo petto quasi sulla mia spalla, il suo alito sul mio collo. Ma non mi dava fastidio. Mi pareva di aver trovato un altro padre, quello che da anni cercavo. Lo ascoltai fino alle undici e un quarto.
Da quella sera cominciò la mia università.»
(Nino Palumbo, La mia università, nel volume con lo stesso titolo, p. 145-155: 147-155. Il racconto, pubblicato per la prima volta nel primo numero del giornale di Rapallo «Il Tigullio» (7 aprile 1957) e poi uscito anche altrove, è stato inserito dall'autore nel volume Oggi è sabato e domani è domenica (Roma, Canesi, 1964) e poi in quello del 1981 a cui dà il titolo. La scena si può collocare intorno al 1937 e il bibliotecario descritto richiama Giovanni Bellini, allora vicedirettore e probabilmente responsabile del servizio serale).
Palumbo (1960)
«Figlio di artigiano e maggiore di molti fratelli, cominciai a lavorare all'età di undici anni, interrompendo al secondo anno il ginnasio. A sedici anni passai a Milano con tutta la famiglia, dove continuai a lavorare e cominciai a frequentare le biblioteche e le scuole serali. Nel 1939 conseguii il titolo di ragioniere e mi iscrissi alla facoltà di Scienze Economiche e Finanziarie, riuscendo a trovare finalmente un impiego presso un ente parastatale. Nel 1941 fui chiamato alle armi come «volontario universitario». Nel 1946 mi laureai alla Bocconi e, per potermi iscrivere alla facoltà di Giurisprudenza, mi preparai per la maturità classica, che conseguii nel 1947. Dopo due anni di studi giuridici passai alla facoltà di Lettere e Filosofia.
Dal 1951 ha inizio, con difficoltà, la mia attività letteraria e il «recupero» di letture e di scoperte di autori italiani e stranieri, senza trascurare tuttavia gli studi filologici e, in particolare, quelli di storia della lingua italiana.»
(Nino Palumbo, testimonianza per Ritratti su misura, p. 314-315).
Pancrazi (1947-1952)
«Come può capire, ho accolto con molta festa la sua idea di ripubblicare nella collezione in ventiquattresimo l'Aristodemo di Carlo Dottori. Metteremo il testo in composizione appena Lei ce l'avrà mandato o indicato, e provvederemo noi con ogni cura alla revisione delle bozze. Intanto faccio cercare alla Nazionale di Firenze se c'è l'edizione del 1657, o quella del 1725: ma, ripeto, aspettiamo istruzioni.»
(Pietro Pancrazi, lettera a Benedetto Croce, Camucia (Cortona) 17 giugno 1947, in Caro senatore, p. 180. Croce possedeva la prima edizione).
«Caro Senatore,
Le mando un saluto dalla biblioteca di Giosuè Carducci. Vedo tra i libri l'Intermezzo di Heine, tradotto dal Del Re, donato da Lei il 15 agosto 1897.»
(Pancrazi, cartolina a Croce, Bologna 15 ottobre 1952, ivi, p. 203).
Pancrazi-Croce (1925)
«Eccellenza,
Mi permetto d'importunarla per un'informazione napoletana che soltanto da Lei potrei avere.
Venendo a Napoli, mi sarebbe consentito consultare le carte leopardiane? e all'occorrenza prendere appunti o copiare qualche brano?
L'origine di questa curiosità, come Ella immagina, è nelle voci contraddittorie che da qualche tempo si sentono sull'importanza degli scritti o appunti ancora inediti. Come giornalista e informatore letterario, ho pensato che sarebbe opportuno render conto chiaramente dello stato delle questioni, e dirlo al pubblico.
Ma esistono veti? A chi bisogna rivolgersi per superarli, se sono superabili?»
(Pietro Pancrazi, lettera a Benedetto Croce, Camucia (Cortona) 6 febbraio 1925, in Caro senatore, p. 31).
«Gentilissimo Pancrazi,
Nessuna difficoltà a vedere quei manoscritti e a prenderne appunti. Io tra giorni vado a Milano e a Torino, e non tornerò qui prima del 23 o 24. Ma, in ogni caso, Ella può far capo alla bibliotecaria dott. Maria Ortiz, che è stata informata da me, o (come si dice in Puglia) sta parlata.»
(Croce, lettera a Pancrazi, Napoli 9 marzo 1925, ivi, p. 32).
Pannella (2016)
«Giacinto è un nome che mi fu dato perché i miei volevano rendere omaggio a zio Giacinto, monsignore e zio di mio padre. [...] Persona colta, zio Giacinto. Stampava e diffondeva addirittura una rivista, della quale si occupava personalmente. Era distribuita a Teramo, forse pure in qualche paesino della provincia. Ma molti anni dopo scopro, quasi per caso, in una biblioteca di Parigi, e successivamente in una di Vienna, che sono conservate copie di quella vecchia rivista di mio zio. Sarà stata la nostalgia, sarà stato un pizzico di orgoglio familiare, ma confesso che da quelle biblioteche sono uscito commosso.
Quindi, dovevo per forza chiamarmi Giacinto, non poteva che andare così.»
(Marco Pannella, Una libertà felice: la mia vita. Lo zio omonimo Giacinto Pannella (Teramo 20 febbraio 1847-Teramo 15 dicembre 1927) diresse per molti anni «La rivista abruzzese di scienze e lettere»).
Panzini (1906)
«Nella Biblioteca di Brera in Milano è il volumetto dei Versi, l'edizione del 1892, tutt'altro che «illuminata di eleganze tipografiche», anzi ben umile stampa. Ora questa copia mi offrì materia di molto diletto, perchè un ignoto lettore, ben oculato e dotto di grammatica, lo ha segnato qua e là di postille, di ammirativi, di interrogativi, come dire: «ma si scrive così?». In verità l'ignoto pedante (grande è il numero dei malvagi in un paese sia pur così liberale come l'Italia nostra) si era sentito offeso a tutte le vivezze, gli scorci, le arditezze del parlar popolare, e le avea giudicate imperfezioni gravissime, se pur non errori.»
(Alfredo Panzini, Severino Ferrari poeta, 1906, in Per amore di Biancofiore, p. 177-194: 191).
Panzini (1924)
«Io non so bene dove mi fossi, se nella Biblioteca Classense di Ravenna, o nella Malatestiana di Cesena. Le finestrine sono in alto, lassù, e di giorno c'è una gran quiete conventuale nella Biblioteca di Cesena! A Ravenna è la stessa cosa, perchè tranne Sante Muratori che vigila con la lampada viva della sua anima, non si incontrava mai nessuno.
Ma quella linea bruna della rocca malatestiana, che si disegnava nell'azzurro lunare, sopra la collina, mi fece certo che io non ero nella città di San Vitale e di San Massimiano, ma nella città diletta al cuore di Cesare Borgia.
Senonchè una figura bianca, che apparve, io la credetti quella del vice-bibliotecario della Classense di Ravenna: lui, per delicatezza verso i libri, porta sempre un camice bianco, come un dottore dell'ospedale. Ma il detto vice-bibliotecario della Classense ha un volto sbarbato con un sorriso prelatizio, di magnifico papa del Cinquecento: la figura bianca che invece io vedevo, era assai più esile; era giovane; sbarbata pure in volto, ma sigillato di signorile amarezza.
Era Renato Serra!
Io era, dunque, nella Malatestiana di Cesena!
Renato Serra lentamente movendo fra le due file degli alti neri leggii, ove posano i codici alluminati, si avvicinava a me.
– Come – gli domandai – sei ancora bibliotecario qui? Tanti ragazzi hanno fatto così bella carriera, e tu sei ancora qui?
Ma ebbi appena detto questo, che mi ricordai che Renato era morto, e sono ormai nove anni [...].
[...]
La colpa di tutto è Sante Muratori, che dice che è la notte che la sua biblioteca classense rivive: si destano strani rumori: sembra che siano i bianchi frati antichi a risorgere, e sono i barbagianni!
I barbagianni, bianchi e solenni, escono dalle torri di Ravenna e vengono a vedere come vanno le cose; e col volo senza rumore volando per quelle sale fantastiche della biblioteca, inseguono e mangiano i topi vilissimi che si permettono di profanare nel loro sonno i libri e i poeti.»
(Alfredo Panzini, Poeti di Romagna, 1924, in Per amore di Biancofiore, p. 235-240).
