L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Pasolini (1960)
«BIBLIOTECA NAZIONALE
Si vedono in scorcio le due o tre grandi sale di lettura della biblioteca nazionale: l'arredamento triste, pesante, le luci bianche e scarse sui tavoli, i grandi finestroni chiusi.
Nelle sale di lettura c'è un profondo silenzio: chi legge, chi prende appunti, chi cammina in punta di piedi entrando o uscendo.
Nella sala della distribuzione, e, prima, nella saletta del catalogo, c'è più confusione: si parla, si ride, ci si riposa. Marcello e il Commissario, entrano nella saletta del catalogo, salgono i due o tre gradini che portano verso le sale di lettura, passano davanti al banco della distribuzione, con pile di libri, e guardano verso il triste, semibuio spettacolo delle sale.
Marcello avanza in punta di piedi, guardando tavolo per tavolo.
Ed ecco, là in fondo, la Pina, seduta davanti a cinque o sei libri aperti, che sta prendendo degli appunti.
Marcello si muove verso di lei, cercando di vincere l'angoscia.
La Pina alza gli occhi, lo vede e lo riconosce. Si alza in piedi come per riceverlo, con la lieta sorpresa corretta nel sorriso dalla sua solita, mite discrezione.
PINA Buon giorno, Ravagli... È venuto a lavorare anche lei qui? E la prima volta che la vedo...
Marcello resta in piedi, sorride stentatamente, poi dice, a bassa voce, per non disturbare i vicini:
MARCELLO Signora... usciamo. Deve tornare a casa.
Pina guarda Marcello senza capire. Di colpo intuisce che qualcosa di grave è successo. Resta in piedi, immobile, aspettando una parola rassicurante. Con voce improvvisamente mutata, chiede:
PINA A casa? Perché?
MARCELLO Venga, parleremo fuori... È successo... Venga... andiamo...
Automaticamente – mentre qualcuno, attorno al tavolo ormai guarda un po' incuriosito – prende il fascicoletto degli appunti e lo mette nella borsa, con la penna. Tenta ancora di sorridere, ma già le labbra le tremano.
Guarda anche verso il Commissario, più indietro. Poi prende sottobraccio i cinque o sei libri, va verso Marcello, e con lui s'incammina verso il corridoio tra i tavoli. Ad essi si aggiunge il Commissario.
Al banco della distribuzione, Pina riconsegna i libri. Marcello, come ella ha finito, le indica il Commissario.
MARCELLO Il dottor Mazzella... Signora... È successa una cosa molto grave.
Pina fissa Marcello senza fiatare.
MARCELLO Usciamo... Parleremo in macchina...
Con voce atona, già spenta, Pina domanda, fermandosi:
PINA Cos'è successo?
Marcello la prende sottobraccio e la sospinge dolcemente attraverso la saletta del catalogo.
MARCELLO Venga... Non qui...
Pina si arresta, caparbia. Guarda prima Marcello, poi il Commissario. Con voce sempre più atona, dice:
PINA I bambini... È vero?
Il Commissario, pronto, con un gesto rassicurante del capo:
COMMISSARIO Li vedrà... Non subito... Sono feriti...
E sostiene lo sguardo di Pina. Costei ha un sorriso ebete, barcolla un attimo.
MARCELLO (deciso) Usciamo.
NELLO SCALONE DELLA BIBLIOTECA
Lo scalone si apre sotto gli altissimi archi barocchi, polverosi, scuri.
Pina scende meccanicamente i primi gradini.
PINA Ditemi... Ditemi la verità. (tace un momento)
Dov'è mio marito?
Il Commissario la prende per un braccio delicatamente.
COMMISSARIO Venga...
Marcello e il Commissario la spingono dolcemente giù per i gradini, che sembrano inabissarsi, nella triste luce meridiana, sotto le antiche volte.
Fondu.»
(Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, v. 2, 2327-2329)
Ultimata la prima stesura della sceneggiatura de La dolce vita, Fellini incaricò Pasolini di scrivere una versione alternativa di alcune scene del film, poi quasi tutte scartate. Tra i quattro episodi scritti da Pasolini (che non sarà inserito nei titoli di testa), la testimonianza si riferisce alla scena in cui Marcello (interpretato da Mastroianni) e il commissario annunciano la morte di Steiner alla moglie, nella versione cinematografica ambientata nei pressi della fermata di un autobus, e qui nei locali della Biblioteca nazionale di Roma (allora allocata in un’ala del monumentale palazzo cinquecentesco del Collegio romano).

Una delle affollatissime sale di lettura della Biblioteca nazionale di Roma nella sede del Collegio romano, in una foto degli anni Cinquanta-primi Sessanta tratta da: Cento biblioteche italiane, Roma, Palombi, 1964.
Pasolini (1961)
«Ma in questo mondo che non possiede
nemmeno la coscienza della miseria,
allegro, duro, senza nessuna fede,
io ero ricco, possedevo!
Non solo perché una dignità borghese
era nei miei vestiti e nei miei gesti
di vivace noia, di repressa passione:
ma perché non avevo la coscienza
della mia ricchezza!
L'essere povero era solo un accidente
mio (o un sogno, forse, un'inconscia
rinuncia di chi protesta in nome di Dio...).
Mi appartenevano, invece, biblioteche,
gallerie, strumenti d'ogni studio: c'era
dentro la mia anima nata alle passioni,
già, intero, San Francesco, in lucenti
riproduzioni, e l'affresco di San Sepolcro,
e quello di Monterchi: tutto Piero,
quasi simbolo dell'ideale possesso,
se oggetto dell'amore di maestri,
Longhi o Contini, privilegio
d'uno scolaro ingenuo, e, quindi,
squisito... Tutto, è vero,
questo capitale era già quasi speso,
questo stato esaurito: ma io ero
come il ricco che, se ha perso la casa
o i campi, ne è, dentro, abituato:
e continua a esserne padrone...
Giungeva l'autobus al Portonaccio,
sotto il muraglione del Verano:
bisognava scendere, correre attraverso
un piazzale brulicante di anime,
lottare per prendere il tram,
che non arrivava mai o partiva sotto occhi,
ricominciare a pensare sulla pensilina
piena di vecchie donne e sporchi giovanotti,
vedere le strade dei quartieri tranquilli,
Via Morgagni, Piazza Bologna, con gli alberi
gialli di luce senza vita, pezzi di mura,
vecchie villette, palazzine nuove,
il caos della città, nel bianco
sole mattutino, stanca e oscura...»
(Pier Paolo Pasolini, La ricchezza del sapere, in La religione del mio tempo, p. 20-21.)
Pasquali (1920)
«chiunque ci rifletta su un solo momento, vedrà che le fotografie non possono sostituire le trascrizioni e le collazioni, ma sono destinate a essere esse stesse trascritte e raffrontate, e che si preferisce avere a lavorare sulla fotografia invece che sul codice, per non dovere sudare o gelare nelle biblioteche quelle poche ore del giorno che restano aperte, tra il cicaleccio degli uscieri e dei frequentatori e con la fretta addosso, per potere studiare con comodo a casa nostra quando più ci piace, e aver facilità di riscontrare, ogni volta che ci viene un dubbio.»
(Giorgio Pasquali, Filologia e storia, p. 21. La prima edizione dell'opera fu pubblicata da Le Monnier nel 1920).
«Sesto Empirico, fonte importantissima per gli studi di filosofia greca, era svisato qua e là da lacune piccole ma non facili a supplire: ne ha colmate pur ieri gran parte uno studioso tedesco, morto in questa guerra, il Mutschmann [Hermann], valendosi di una versione medievale. Un altro tedesco, il Nebe [August], ha trovato qui a Firenze in Laurenziana un manoscritto del medesimo autore sfuggito anche al Mutschmann, che per certe parti del testo presenta lezioni nuove e giuste: vergogna per noi Italiani di non averlo trovato noi. Due diverse epitomi delle parti perdute della Biblioteca di Apollodoro, il testo forse più importante per gli studi mitografici, sono state scoperte non in archivi egizi ma in biblioteche, l'una delle due per opera di uno studioso tedesco in una biblioteca romana, in tempo non lontano, quando l'Italia era già da un pezzo entrata nell'agone della filologia scientifica. Chi vuol consultare un altro mitografo, Igino, deve ancora contentarsi di un'edizione mal fatta, poco pratica, e per giunta esaurita e difficile a trovarsi anche in biblioteche italiane.»
(ivi, p. 18).
Pasquali (1929a)
«I bibliotecari di tutto il mondo si raduneranno a Roma nel prossimo giugno e percorreranno poi il nostro paese, visitando biblioteche e archivi, da un capo, si può dire, all'altro di esso. [...] I bibliotecari stranieri ammireranno in Italia biblioteche ricchissime di manoscritti, fornite mirabilmente di libri antichi e tenute al corrente della produzione moderna in una maniera che appar miracolosa, se si riflette alla ristrettezza delle dotazioni; ma specie quelli tedeschi e per certi riguardi anche gli americani giudicheranno la nostra organizzazione alquanto arcaica.
Di biblioteche l'Italia ne ha troppe e troppo poche. In alcune città, a contare solo le grandi biblioteche pubbliche statali, le più senza un indirizzo particolare, senza una specializzazione facilmente riconoscibile, non bastano le dita della mano: in Roma la Nazionale, la Casanatense (questa per vero specializzata e specializzata bene), l'Alessandrina, l'Angelica, la Vallicelliana, la Lancisiana; qui in Firenze, la Nazionale, la Marucelliana, la Laurenziana, la Riccardiana. Una delle città del mondo nella quale si studia di più, Berlino, con un numero di abitanti sei volte maggiore di Roma, con popolazione poco concentrata, cioè con distanze enormi, ha solo due grandi biblioteche pubbliche, la Nazionale e l'Universitaria, e queste non per caso sono collocate una accanto all'altra. Troppe biblioteche dello stesso genere nella stessa città portano una doppia serie di inconvenienti: economici e di comodità di lavoro. [...]
Ma i danni per l'economia del lavoro dei frequentatori sono, secondo me, anche più gravi, perchè il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato: e sabato sarebbero in questo caso i libri e le biblioteche. Ora uno studioso non può, a Roma, esser sicuro che un libro manchi, se non ha prima consultato i cataloghi almeno di quattro o cinque biblioteche (e intendo anche qui come altrove per biblioteche solo quelle appartenenti allo Stato italiano e pubbliche, escludendo quindi la Vaticana e quella dei Lincei e quelle dei Ministeri, della Camera, del Senato, dei moltissimi istituti scientifici stranieri e così via), di quattro o cinque biblioteche separate l'una dall'altra da chilometri e chilometri di strada. [...]
Il rimedio? Fondere le biblioteche pubbliche minori con le maggiori della stessa città? [...] Opposizioni sentimentali non mi commuovono gran che: anch'io apprezzo la malìa dello studio in un'antica e venerabil sala, cui si giunga attraverso broli verzicanti e chiostri di architettura perfetta, ma mi indispettisco poi, se la venerabil sala ha troppo poca luce, e se d'inverno nonostante il termosifone vi si battono i denti, e se i silenzi dei secoli sono rotti dalla voce troppo alta di un impiegato romagnolo, brav'uomo probo e operoso, se altri mai, ma di carattere eccitabile e dotato da natura di voce troppo più sonora che non richiederebbe il suo ufficio. [...]
Ma la fusione e concentrazione non risolve ancora il problema. L'Italia, si è detto, ha troppe biblioteche; ma essa ne ha anche troppo poche: troppo poche di specializzate e troppo poche di popolari. Le specializzate si vanno a poco a poco formando: non c'è ministero, non c'è pubblica istituzione che non abbia ormai una sua libreria accessibile solo a una cerchia che offre garanzie particolarissime, ma a quella accessibile quasi senza formalità e senza limitazioni. E non c'è in ispecie Facoltà o scuola universitaria la quale, nonostante le presenti ristrettezze, non s'ingegni meglio che può di tener al corrente la propria biblioteca particolare a uso dei propri maestri e dei propri scolari. Che molte, forse tutte seguano in ciò criteri errati per pedanteria burocratica, e scemino così il beneficio che potrebbero recare, non si deve tacere, e si dirà brevemente più sotto. Ma una tale biblioteca, comunque organizzata, allevia il compito delle biblioteche pubbliche: lo studente che si trova un libro a portata di mano, lo consulta a suo agio tra una lezione e l'altra, e non si scomoda ad andare nella pubblica, cioè rinunzia a incomodare per cosa superflua i pochi impiegati di questa, distogliendoli da altri compiti, meno facilmente fungibili. Ma di biblioteche popolari si vedono in Italia appena appena i princìpi, e invano par combattere per esse da molti anni un bibliotecario davvero illuminato e moderno, Luigi de Gregori. In Italia le funzioni delle biblioteche statali, che non possono essere se non funzioni scientifiche, e quelle delle biblioteche popolari non sono ancora distinte, e s'intralciano a vicenda. Alla Nazionale si recano del pari il dotto per studiare e lo scolaro, lo sfaccendato, il fiaccheraio che vuol passare un'ora in letture dilettevoli. Si deve dire che, se del sistema presente soffrono tutti e due, quello che alla fine si accorge di aver fatto peggio i suoi conti, è non il dotto ma lo scolaro o lo sfaccendato? Una disposizione generale del regolamento vieta di concedere in lettura, tranne per fini scientifici, opere di amena letteratura. Romanzi, dunque, nelle biblioteche pubbliche non se ne possono leggere; eppure v'è un pubblico al quale un romanzo, diciamo, di Alessandro Dumas padre o anche i Pirati di Mompracem sarebbero nutrimento spirituale più confacente che p.e. l'Igiene dell'Amore, che pure non tutti i bibliotecari s'accordano nel comprendere tra le letture amene. [...] Si è rimediato inventando una sala a parte per studiosi, la quale non semplifica davvero il servizio. A me pare strano che nelle biblioteche, che sono fatte per studiare, ci sia una speciale stanza nella quale sola si possa studiare. E per eliminare questa contraddizione proporrei di sostituirla con un'altra, che è più grave solo nella forma verbale: nelle biblioteche pubbliche non ci dovrebb'essere sala pubblica. Così è in paesi che pure si credono ormai più democratici che l'Italia: in Germania per avere accesso alle biblioteche occorre avere certi requisiti, p.e. quello, che anche da noi dovrebb'essere pienamente sufficiente, di essere scolaro di scuole superiori; ma, una volta ammessi, si è in possesso di tutti i diritti, non si è esclusi da nessun locale, si possono senza garanzie sussidiarie ottenere libri in prestito.
Ma, perchè questo procedimento sia tollerabile, occorre che siano create finalmente le biblioteche popolari. Per una tale istituzione i tempi corrono, mi sembra, meno sfavorevoli di quel che parrebbe a prima vista. Non c'è circolo fascista di cultura che non si vanti della propria biblioteca circolante. Basterebbe che le istituzioni di una città si coordinassero tra loro e rendessero accessibili le proprie raccolte anche a chi non è iscritto al partito, perchè le fondamenta per le biblioteche popolari fossero bell'e gettate. In molte città le Case del Fascio hanno esercizio pubblico di ristorante e di albergo diurno; in molte esse si sono date speciale cura dello scolaro medio e dello studente. Nè ci sarebbe forse neppur bisogno di allargare la concessione dell'uso di tali biblioteche a tutto, indistintamente, il pubblico. [...] Che tali biblioteche siano destinate in larga misura al prestito, non mi par che guasti; che siano distribuite in rioni diversi, anche periferici, mi sembra piuttosto un vantaggio: così è, se sono bene informato, anche nelle grandi città dell'America del Nord. [...]
La maggior parte delle biblioteche pubbliche sono aperte dalle nove alle quattro, cioè nelle ore nelle quali proprio quelle classi sociali che per la loro professione hanno più bisogno della biblioteca, studenti, maestri di scuole medie, professori, hanno di solito lezione. E quelle medesime sono anche le ore di ufficio per professionisti, avvocati o medici, che cercano a spizzico di soddisfare impulsi e curiosità scientifiche. E chi, con uno sforzo, magari saltando il desinare, provi a recarvisi tra il mezzodì e le due, troverà che proprio in quel tempo quasi tutti i servizi sono o sospesi o rallentati, perchè una buona parte del personale si è allontanata per la refezione. In altre parole, con l'orario presente le biblioteche servono solo a chi non se ne serve. Non è necessario che sia così: la maggior parte delle biblioteche tedesche è aperta, almeno per quel che è sala delle riviste e sala di lettura, dalle otto di mattina alle dieci di sera. E non si vede perchè questo debba rimanere appannaggio della Germania, tanto più che simili prolungamenti di orario sono stati attuati sia pure in misura un po' minore e con qualche limitazione che in Germania non c'è, nella Marucelliana di Firenze e, se non m'inganna la memoria, anche a Brera. [Un orario ottimo, pomeriggio e sera, ha a Venezia la Querini-Stampalia; uno buono, pomeridiano, la piccola Comunale di Belluno.] [...]
Nelle biblioteche italiane si scrive troppo, e il troppo scrivere rallenta il servizio. Io penso a quel che avviene nelle cosiddette sale del prestito, che ancora nelle biblioteche maggiori sono per lo più stanzuccie rimediate. Chi vuole un libro, scrive nome di autore, titolo e segnatura sur una scheda, consegna questa a un impiegato e aspetta che il libro gli sia portato. Intanto arrivano altre persone che riportano opere avute in prestito; fanno calca allo sportello irrazionalmente unico del prestito, si urtano con gli aspettanti. Quando il libro richiesto arriva, il richiedente è chiamato allo sportello, dove lì per lì deve riempire e firmare una scheda a due o tre divisioni, identiche tranne nell'ordine delle indicazioni. L'impiegato esamina la scheda, la corregge, la ritira, e poi scrive anche lui a sua volta un lasciapassare. E intanto la folla aumenta e non entra più nella stanza, e il servizio ristagna. In questo campo il governo presente, che pure ha bandito guerra alle scartoffie, non ha ancora mutato nulla; una biblioteca almeno ha di suo reso più complicata la scheda di ricevuta. [...]
Nelle nostre biblioteche la sala pubblica di lettura è anche in questo veramente sala di lettura che il libro riconsegnato deve la sera per lo più ritornare a posto: non si riesce a immaginare che esso possa normalmente rimanere oggetto di studio per parecchi giorni di seguito; e anche dalla maggior parte delle sale di studio o riservate il libro deve essere rinviato al suo posto nei magazzini almeno a fine di settimana. [...]
In Italia il numero di opere delle quali un lettore può contemporaneamente fare uso, è almeno nella sala pubblica strettamente limitato; in altre parole, in sala di lettura è impossibile qualsiasi lavoro scientifico. Limitazioni, ve ne sarebbero teoricamente anche per le sale di studio: in pratica i bibliotecari, più assennati dei loro regolamenti, sanno passarci sopra con leggerezza. [...]
E non limitato è per lo più in Germania il numero delle opere che uno può prendere in prestito. Introdurre questa libertà nelle biblioteche italiane, rimettersi alla discrezione degli studiosi, che sono spesso egoisti, significherebbe secondo taluno spogliare le biblioteche, rendere impossibile una consultazione rapida. Questi tali avranno ragione. Ma conviene dire che per gli studiosi il prestito è necessario, anche perchè la maggior parte dei dotti dai venticinqu'anni in poi non può per nervosità lavorare in biblioteca, può, cioè, scorrere libri e prendere appunti, ma non pensare, quando v'è troppa e troppo rumorosa e mobile gente nella stessa stanza. [...]
E agli stessi fini di render possibile il prestito e insieme di alleggerire altri servizi, quelli della distribuzione, servono le sale di consultazione delle grandi biblioteche, dalle quali opere che vi hanno posto permanente, non dovrebbero potere esser allontanate se non eccezionalmente. Ma la sala cosiddetta di consultazione, e s'intende di libera consultazione, deve, se vuol giovare a qualche cosa, essere veramente tale. Se no, serve anch'essa ad aumentare il numero delle scartoffie. Dev'essere lecito a ciascuno tirar giù libri a sua posta senz'appunti e senza schede, e solamente esser vietato di rimettere a posto le opere consultate, che non avviene mai senz'errori. Si costringano gli studiosi a scrivere il loro nome in un registro, ogni volta che entrano in sala di consultazione, si stabilisca un controllo rigoroso alla porta, ma nulla di più, o si renderebbe illusoria l'utilità. Questa necessità non è, mi pare, ancora intesa bene in Italia. Ancora nella estate scorsa io avevo vantato l'utilità somma che gli studenti ricavavano dalla grande, luminosa, comoda e ben fornita sala di consultazione della biblioteca della Facoltà di lettere di Firenze. Mentre io a Kiel scrivevo questo in un articolo, il rettore e il consiglio della Facoltà di lettere, turbati dai troppi libri scomparsi negli ultimi tempi da quella sala, deliberavano di assiepare gli scaffali, sinora aperti, con una rete di filo di ferro e di non concedere nessun libro in «consultazione» se non contro scheda regolarmente firmata. Una sala di consultazione nella quale i libri sono resi intangibili e invisibili, una sala di consultazione con schede: due bell'e buone contradictiones in adiecto. [...] E, per quanto la discrezione del valente e dolce collega che regge ora quella biblioteca, si adopri al solito a mitigare la rigidità, come a me pare, non del tutto giustificata di quelle disposizioni, nella cultura degli studenti e nelle loro dissertazioni si mostrano già gli effetti di questo non avere più quasi un'intera biblioteca davvero sotto mano. Nella biblioteca della Facoltà di lettere di Firenze nessuno va ormai più per mero piacere. Si deve esigere che i giovani studino, ma si deve anche procurar loro modo di studiare comodamente. [...]
Nelle nostre [biblioteche] i nuovi acquisti rimangono a lungo a ciondolare in direzione; sono catalogati solo dopo mesi; divengono accessibili alla lettura piuttosto tardi e clandestinamente; solo molto più tardi, per una disposizione del regolamento, possono essere dati in prestito. [...] Ma il male è che una esposizione al pubblico dei nuovi acquisti, poco importa se rapida o tarda, non è nè prevista dai regolamenti nè, che io sappia, praticata in alcuna biblioteca dello Stato italiano.
D'altro ancora avrei voluto parlare, p.e. di certe limitazioni poste alle fotografìe dei codici, che, senz'esserci utili, ci recano pregiudizio nell'opinione degli scienziati stranieri. Ma ho voluto per questa volta limitarmi ad argomenti d'interesse generalissimo. [...]
Il problema dell'alta cultura è da noi, lo ripeto ancora una volta, in primo luogo, un problema di biblioteche.»
(Giorgio Pasquali, Biblioteche, «Civiltà moderna», 1, n. 1 (15 giu. 1929), p. 46-61. Poi in Vecchie e nuove pagine stravaganti di un filologo, [Firenze], De Silva, 1952, con piccole varianti, l'aggiunta sulle biblioteche di Venezia e Belluno – presumibilmente inserita nelle Pagine stravaganti di un filologo, Lanciano, Carabba, 1933 e qui riportata in parentesi quadre – e una Postilla finale scritta per la nuova edizione).
Pasquali (1929b)
«Gentile Signorina, Ier sera non potei esaurire le parecchie riviste che nonostante il prudente ostruzionismo del Suo chef si erano accumulate in questi giorni al mio posto sul tavolone della stanza da studio. E oggi non potrò venire perché stamani ho a erudire i fanciulli e le fanciulle negli elementi della nobile lingua centrale, e stasera parto già al tocco per Vallombrosa. Ora io temo che la bestialità burocratica dell'ossequiosissimo usciere Veneto («Mei doveri, Sior Profesore»!) mi mandi al posto, conforme ai vostri regolamenti, le riviste che una settimana è bastata appena a raccogliere. Potrebbe la Sua gentilezza intervenire presso il Cav. (m'immagino) V. E. Baroncelli perché questa iattura mi sia risparmiata cosicché possa lunedì, al mio ritorno, ritrovare le riviste non tocche? Io manderò a Lei un pensiero grato d'in cima al Secchieta.
Voglia esser così buona da farmi avere una risposta per mezzo del molto giovanile latore della presente Dev.mo Giorgio Pasquali.»
[Sul margine:] «Altre volte con la Mondolphia ottenni lo stesso favore».
[Sulla busta:] «Per favore del Signorino Luigi Terzaghi All'ornatissima Signorina Teresa Lodi. Biblioteca Nazionale».
(Giorgio Pasquali, lettera a Teresa Lodi, Firenze 30 novembre [1929], in: Gli archivi della memoria e il carteggio Salvemini-Pistelli, p. 92. Il riferimento a Vittorio Emanuele Baroncelli dev'essere un errore (a meno che non sia errata la datazione del biglietto) perché Baroncelli aveva lavorato alla Biblioteca nazionale di Firenze fino alla morte, avvenuta nel maggio 1923. Non è chiaro se nella nota a margine Pasquali volesse riferirsi ad Anita Mondolfo – che in quegli anni non lavorava più alla Biblioteca nazionale – o ad Adele Mondolfi, collega della Lodi).
Pasquali (1934)
«Qualche errore e molte più lacune dipenderanno dalla mancanza di libri specialmente della prima metà del secolo XIX nelle biblioteche di Firenze. [...] Debbo riconoscere con animo grato che i direttori della Biblioteca Nazionale, di quella della mia Facoltà, della Laurenziana, della Marucelliana hanno gareggiato nell'aiutarmi largheggiando nel prestito, facendo venir libri di fuori o acquistandoli quand'era possibile; che l'Istituto Archeologico Germanico di Roma, con una liberalità che io conosco fin da quando, trenta anni fa, ero studente, mi spedì opere che non avrei trovato altrove; che mi procurarono in prestito libri da Roma L. De Gregori, da Torino L. Ginzburg, da Halle C. Wendel. Senza l'aiuto degli ordinatori, distributori, custodi della nostra biblioteca di Facoltà, sempre solleciti a ricercarmi e a mettermi insieme i numerosi libri di cui avevo bisogno, avrei impiegato molto più tempo a finire il mio lavoro, o forse avrei desistito dal proposito, per disperazione. Ma nessun aiuto poteva cavar di sotto terra, per virtù d'incanto, libri che in Italia mancano; e non tutto le biblioteche straniere mi potevano mandare in prestito, nonostante la buona volontà dei loro direttori.»
(Giorgio Pasquali, Prefazione [alla prima edizione, 1934], p. XII-XIII)
Pasquali (1940)
«Caro Gianfranco,
io non ti posso mandar nulla, perché qui [a Firenze] le biblioteche sono chiuse e è chiuso il prestito fino a posdomani. Ma provvederà posdomani il dotto, spaventosamente dotto e ameno fanciullo [Dino] Pieraccioni.»
(Giorgio Pasquali, cartolina a Gianfranco Contini, Firenze 30 luglio 1940, p. 400)
Pasquali (1952)
«Nei 22 anni che sono trascorsi dalla prima pubblicazione di questo articolo [1929] la situazione delle biblioteche è in complesso piuttosto peggiorata che migliorata, certo principalmente per colpa della guerra, ma anche per inerzia di uomini. Di nuovo v'è stato principalmente quel compimento dell'edificio della Biblioteca Nazionale di Firenze del quale io allora disperavo: la Nazionale, nonostante certe scarsezze di personale, funziona ora perfettamente sotto la direzione di una donna di cuore e di intelletto, Anita Mondolfo, e mostra in un mirabile esempio come una biblioteca dipenda principalmente dai locali. Anche, è stata approvata dai due rami del parlamento una legge che dispone che dentro 25 anni sia compiuto un catalogo unico delle biblioteche: io, vecchio, invidio i miei nipoti, ma concedo che non si poteva scegliere un termine piú vicino, temo anzi che quello scelto dovrà essere prorogato; ma sono lieto che un giorno anche nella nostra patria chi non trovi un libro nella sua città, non debba brancolare nel buio per sapere dove esso si celi (p. 255). Qualche altro miglioramento si è qua e là ottenuto grazie a iniziativa ardita di singoli bibliotecari, non certo per ordini partiti dall'alto: Enrico Jahier ha trasformato di suo la Marucelliana, ristretta nello spazio tra due case e, se bella, parecchio antiquata, in una biblioteca moderna corredata di un giardino accessibile agli studiosi. Qua e là i libri arrivati di fresco sono esposti per un mese agli studiosi; altrove almeno una lista di essi è accessibile ai frequentatori, che è rimedio molto inferiore; ma insomma si è fatto sporadicamente qualcosa per adempiere questa esigenza mia e non soltanto mia (p. 267).
Tutto il resto è, nel caso piú favorevole, rimasto quale era prima. Qui nella nostra Firenze, nonostante le prescrizioni dei regolamenti, non si è mai riusciti a ottenere che le biblioteche si mettessero d'accordo tra loro per la compra dei libri stranieri, ora che essi costano tanto di piú di quando scrivevo (e a me sembravano già allora carissimi). Io avevo proposto (p. 254) di fondere biblioteche troppo piccine con maggiori per diminuire le spese fisse. Almeno in un caso si è fatto il contrario; una biblioteca minima, contro il parere della direttrice di una molto maggiore, è stata ricostituita indipendente, benché sia pochissimo frequentata, e per quanto la maggiore, amministrandola, potesse soddisfare esaurientemente e con pochissimi mezzi i bisogni dei due o tre lettori giornalieri; ma cosí una bibliotecaria e qualche impiegato hanno trovato un posto piú indipendente e meno laborioso, questo in un momento nel quale le biblioteche maggiori (tranne le romane) scarseggiano di personale.
Gli esemplari di diritto, come io lamentavo a p. 267, arrivano pur sempre alle biblioteche in ritardo e decimati dalla Procura della Repubblica, per la quale devono necessariamente passare, mentre sarebbe tanto piú semplice che le tipografie fossero obbligate a spedirli direttamente alle biblioteche territoriali competenti.
Ancora oggi gli studenti universitari non sono ammessi al prestito se non in virtú della malleveria di un professore, e ogni professore non ne può rilasciare altro che dieci. Immaginiamo una facoltà di trecento studenti con dieci professori: duecento studenti saranno necessariamente esclusi dal prestito. Le università hanno moltiplicato il numero degli studenti, ma il regolamento è rimasto intatto. E qui non ci sarebbe bisogno di denari, ma basterebbe che la direzione generale delle biblioteche si lasciasse consigliare dai competenti. Siccome uno studente non può essere ammesso all'esame di laurea, né ottenere il trasferimento se non dimostra di avere reso i libri presi in prestito dalle biblioteche della città, si potrebbe con poco o punto rischio delle biblioteche ammettere gli studenti al prestito sul fondamento della loro tessera universitaria.
E nulla si è fatto per migliorare e aumentare le biblioteche popolari; nulla per indurle ad accordarsi tra loro. Un bibliotecario audace che lo ha tentato, per poco non ne usciva con le costole rotte: in una città che è poco piú che un paese i bibliotecari delle sette piccole e nella loro isolatezza inutili bibliotechine non sanno far altro che guardarsi in cagnesco. Eppure lo sviluppo delle biblioteche popolari avrebbe un vantaggio positivo e uno negativo: scaricherebbe le biblioteche maggiori dal peso di lettori per le quali sono inadatte e fornirebbe al popolo una cultura meno ristretta e meno ciarlatanesca di quella che offrono a loro i partiti. Ma il ministro Gonella e il suo partito sono evidentemente contrari a tali istituzioni: i bibliotecari hanno piú volte proposto, l'ultima nel novembre 1949, di imitare la legge belga che impone a tutti i cittadini un contributo minimo per la cultura, ma attribuisce a ciascuno di essi il diritto di frequentare, anzi pro rata parte di amministrare le biblioteche popolari; le quali dipenderebbero cosí meno dal governo, cioè ormai dal partito.
Per l'orario unico si è piuttosto tornati indietro che andati avanti: l'esigenza impiegatizia dell'orario unico complica la situazione. E non si vuole neanche accettare la proposta che i libri siano fin dalla mattina cercati e messi da parte per l'utente pomeridiano e serale il quale potrebbe mandare la sua richiesta anche per posta. La biblioteca funzionerebbe cosí pomeriggio e sera con un velo minimo di impiegati. Che differenza dai paesi scandinavi e dalla Russia che tengono aperte le biblioteche dalla mattina a mezzanotte! Da noi l'orario consente di adoperarle soltanto a chi non abbia ufficio o a persona il cui ufficio consista nello studiare, vale a dire a un'infima minoranza, mentre le sbarra a impiegati, a professionisti, a insegnanti.»
(Giorgio Pasquali, Postilla a Biblioteche, in Vecchie e nuove pagine stravaganti di un filologo, p. 268-271).
Pavese (1929)
«Egr. Profess.,
il Prof. Aldo Ricci, cui mi sono rivolto per aiuti bibliografici intorno a una tesi di laurea sulla poesia di Walt Whitman, mi ha scritto dell'assoluta insufficienza in materia delle biblioteche di Firenze e mi consiglia di rivolgermi a Lei che, mi dice, ha relazioni colla Biblioteca Americana di Roma.
Le sarei gratissimo se Ella volesse interessarsi a questa mia ricerca e vedere se esistono in Roma, – ed eventualmente come sarebbe possibile consultarli – i saggi whitmaniani di almeno i seguenti autori:
[...]
Gratissimo le sarò quindi se Ella mi potrà fornire una quantunque piccola indicazione.
Le chiedo scusa del disturbo che Le reco, ma la povertà in materia delle nostre biblioteche è tale che in tutta Italia non credo esista una copia pubblica delle prose di W. W. e non parlo poi delle riviste dove pure sono disseminati molti tra i piú notevoli di questi studi.»
(Cesare Pavese, minuta di lettera a un professore non identificato, [Torino ottobre? 1929], p. 148).
«Le sono molto grato della Sua cortese risposta e indicazione bibliografica intorno a W. Whitman. Grazie al Suo aiuto prezioso potrò guidarmi con maggior sicurezza nel campo ancor incolto della critica whitmaniana.
Ora, siccome io intendo darmi a fondo allo studio della letteratura americana ed essendo nelle solite strettezze bibliografiche, ardisco di chiederLe un altro disturbo, confidando nella Sua grande cortesia.
Desidererei sapere a titolo d'informazione quali delle seguenti opere possiede la Biblioteca Americana, quasi tutte, al solito, essendo irreperibili in Italia e costosissime dall'America.»
(Pavese, minuta di lettera a un bibliotecario non identificato, [Torino] 29 novembre [1929], p. 161).
Pavese (1934-1935)
«Chiarissimo Professore,
tempo fa le scrissi un biglietto dicendomi disposto a riprendere la supplenza, sotto condizione di due giornate libere e residenza a Torino.
[...] Non dimentico di considerare che insegnanti di latino migliori di me ce ne sono parecchi e non credo perciò di far troppo danno alla classe abbandonandola. [...]
Le sarò grato di un cenno e di un appuntamento a Vercelli per un giorno del mese entrante; desidero passare a salutarLa e restituire certi libri.»
(Cesare Pavese, minuta di lettera a un destinatario non identificato, [Torino autunno 1934?], p. 375. Evidentemente Pavese, mentre insegnava come supplente, aveva avuto in prestito dei libri dalla biblioteca della scuola. Per il riferimento a Vercelli e la datazione, la lettera è presumibilmente indirizzata a Giuseppe Morelli, preside del Liceo ginnasio Lagrangia, dove Pavese aveva insegnato nell'anno scolastico 1933/34).
«La cartolina della Biblioteca Civica [di Torino] allude a un libro di matematica di Peano, che si trova in casa di Nicchio. Di' che lo restituisca.»
(Pavese, lettera alla sorella Maria, [Roma, Carceri di Regina Coeli] 1° luglio 1935, p. 397. La giovane amica di Pavese, a cui aveva passato il libro, non è meglio identificata dai curatori).
«Cerca fra i miei libri e restituisci al Prof. Pascal bibliotecario del D'Azeglio questi libri:
Rodolico, Carlo Alberto (grosso, legato in bleu)
Sanesi, Storia d'Italia e Europa (4 o 5 voll. gialli oliva)
Orazio, Opere (in latino e francese, grosso, giallo)
Orazio, Epistole (piccolo, nero e rosso, legato)
Virgilio, Eneide (3 voll. rosso e nero, legato)
Io non ho bisogno che di libri, libri, e pipe.»
(Pavese, lettera alla sorella Maria, Brancaleone 3 settembre 1935, p. 434. Si tratta evidentemente di libri che Pavese aveva preso in prestito nella biblioteca del Liceo quando vi insegnava come supplente, prima di venire arrestato il 15 maggio di quell'anno. Della Biblioteca si occupava il prof. Arturo Pascal, ordinario di lettere al Ginnasio).
Pavese (1935)
«Libri ho chiesto di comperarne parecchi, ma sinora ne è giunto uno solo. Oltre al prestito normale di due voll. per settimana dalla Circolante, c'è per noi una Biblioteca Speciale che ci dà sei libri ogni quindici giorni. Finalmente, compro giornali e riviste. Cosí passo il tempo alla meglio.»
(Cesare Pavese, lettera alla sorella Maria, [Roma, Carceri di Regina Coeli] 8 luglio [1935], p. 401).
Dalla prima prigione, le Carceri Nuove di Torino, Pavese, arrestato il 15 maggio 1935, aveva scritto alla sorella Maria «Ho anche molto da leggere, e tutto sommato sono contento di non piú far lezione» (16 maggio 1935, p. 377), e poi «Di libri per ora ne ho abbastanza qui; caso mai penseremo a cercarne piú tardi (scongiuri)» (25 maggio, p. 381) e «La cosa comincia a seccare, ma d'altra parte libri da leggere ne ho e vada come vuole» (5 giugno, p. 386), ma senza fornire altre informazioni sulla provenienza dei libri che leggeva.
Pavese (1941-1943)
«A me tu dovresti fare il favore di mandare, prelevandolo dall'Istituto Americano [di Roma], Mardi di Melville.»
(Cesare Pavese, lettera a Mario Alicata, [Torino novembre 1941], p. 617. Questa lettera e le successive si riferiscono ai progetti in corso della casa editrice Einaudi, allora con una sede a Roma oltre che a Torino).
«Carissimo,
le opere di Swift sono tredici volumi settecenteschi che alla Biblioteca non mi vogliono dare perché è cominciato il prestito estivo, per cui occorre non so che alta benemerenza onde avere la malleveria.
Siccome non ho tempo a passare i pomeriggi in Biblioteca per sfogliarli tutti, rimetto alla vostra traduttrice la scelta delle cose piú piccanti – avvertendola di allontanarsi al possibile dalla scelta di Prezzolini e tener presente che i libelli religiosi sono i meno interessanti.»
(Pavese, lettera a Alicata, Torino 13 luglio 1942, p. 642. Probabilmente Pavese aveva cercato di avere in prestito l'edizione di Edimburgo 1774 pervenuta all'Università di Torino con il lascito dei libri di Arturo Graf. La traduttrice a cui si accenna è Lidia Storoni Mazzolani).
«Sta' tranquillo, il tuo Gordon [la traduzione di Gordon Pym di Poe] è qui, con un testo di fortuna pescato alla Biblioteca. Dovrei dargli un'occhiata ma ho tante di queste occhiate da dare qua e là che non so dove rivolgermi prima.»
(Pavese, lettera a Gabriele Baldini, Torino 19 ottobre 1942, p. 656. Pavese, come scrisse a Muscetta, aveva avuto in prestito un'edizione in lingua originale dal Gabinetto Vieusseux).
«Caro Alicata,
qui a Torino diventa sempre piú difficile esaminare testi. Persino le biblioteche dei senatori (quelle non bruciate) sono in cantina. Quindi non sappiamo che cosa risponderti sulle novelle di Stevenson».
(Pavese, lettera a Alicata, Torino 10 dicembre 1942. La lettera, non compresa nella raccolta, si legge in Cesare Pavese, Officina Einaudi: lettere editoriali 1940-1950, a cura di Silvia Savioli, introduzione di Franco Contorbia, Torino, Einaudi, 2008, p. 88).
«Siete dei salami: avete mandato il Droysen Historik dell'Alessandrina a Giorgio Abetti invece che all'Alessandrina.»
(Pavese, lettera a Carlo Muscetta, Torino 17 agosto 1943, p. 725. Evidentemente l'opera – probabilmente nella prima edizione di Monaco 1937 – era stata presa in prestito alla Biblioteca e la sede di Roma della casa editrice Einaudi avrebbe dovuto restituirla).
Pavese (1946)
«Adesso c'è anche l'astrologo e il mondo prima della creazione dell'uomo. Questo libro [Camille Flammarion, Il mondo prima della creazione dell'uomo] me lo ricordo bene – andavo a leggerlo a 15 anni alla Biblioteca Civica [di Torino], ed era il primo vero libro che leggessi, e sapevo tutto del periodo siluriano e giurassico e capivo che i romanzi d'avventure che avevo letto da ragazzo erano la stessa cosa, e insomma diventavo quello che sono. Mi ricordo che verso la fine c'è un'incisione della Verità (o la Scienza o l'Umanità) che nuda nuda vola verso la luce dell'avvenire e io pensavo che bella cosa che le donne nude siano anche la verità e l'avvenire. Di questo libro ho fatto lunghi estratti e lo sapevo quasi a memoria.»
(Cesare Pavese, lettera a Bianca Garufi, [Roma] 21 [febbraio 1946], p. 58).
Pavese-Venturi (1942)
«Caro Venturi,
ho potuto avere in prestito le opere dello Herder. Sono 33 volumi! Io vi mando il quinto, che contiene Auch eine Philosophie der Geschichte. Sono 113 pagine. Dovreste tradurlo mettendo da parte ogni altro lavoro, con la massima rapidità. [...]
Nel caso che vi occorresse consultare (o tradurre, ma direi di no) altre operette dello Herder, vi mando anche l’indice generale delle Sämmtliche Werke da cui potrete sapere quale altro volume suo chiedermi.»
(Cesare Pavese, lettera a Franco Venturi, firmata da Giulio Einaudi, Torino 13 ottobre 1942, p. 77).
«Gent.mo Dott. Einaudi, mi permetto di approfittare della gentile proposta fattami nella sua ultima lettera e di chiederle un altro volume delle opere di Herder in prestito, anche se soltanto per qualche giorno. Il vol. 32° contiene, come ho potuto vedere dall’indice, una serie di piccoli e grandi schizzi redatti da Herder negli anni immediatamente precedenti o seguenti il 1774 e tutti riferentisi, per soggetto studiato, a quella filosofia della storia che sto traducendo ora. Non penso siano frammenti traducibili, dato che si tratta di abbozzi non mai pubblicati e spesso tronchi, ma penso invece mi siano indispensabili per l’interpretazione di certe parti del mio testo e per l’eventuale prefazione. Se dunque potesse farmi pervenire questo volume 32°, le sarei gratissimo.»
(Venturi, lettera a Einaudi, Avigliano 3 novembre 1942, p. 77).
«Vi ho spedito la traduzione di Herder e penso presto la riceverete. Il testo, come sapete, è veramente difficile: vi prego seriamente perciò di esaminare la mia traduzione e di dirmi se vi soddisfa, anche prima di mandarmi qualsiasi compenso. Lo stesso desidero dirvi per quanto riguarda la prefazione, ché, anche per questa, non ho poco sentito la mancanza di libri sussidiari in questi due mesi di lavoro. [...] Vi ringrazio di avermi dato l’occasione di studiare Herder piú da vicino. Vi rimando subito i libri della Biblioteca».
(Venturi, lettera a Pavese, Avigliano 15 dicembre 1942, p. 93. La traduzione di Venturi, Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità, uscì da Einaudi nel 1951).
Peano (1894-1903)
«La ringrazio per i lavori che mi ha spedito. Ho comperato qualche tempo fa le Sue Die Grundlagen der Arithmetik e ho inoltre fatto acquistare dalla nostra biblioteca i Suoi recenti Grundgesetze der Arithmetik.»
(Giuseppe Peano, lettera a Gottlob Frege, Torino 30 gennaio 1894, p. 145).
«Caro collega, ho appena ricevuto i Suoi Grundgesetze der Arithmetik, Zweiter Band, per i quali La ringrazio vivamente, e mi propongo di studiarli. Per facilitarmi il compito sarei lieto se Lei volesse spedirmi anche il volume l, che ho fatto acquistare dalla Biblioteca universitaria, dove l'ho letto. Altrimenti sarò costretto a dare alla Biblioteca anche il volume 2, invece di proporne
l'acquisto.»
(Peano, lettera a Frege, Torino 7 gennaio 1903, p. 168).
