L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Piovene (1957b)
«A Cesena faremo un'ultima breve sosta.
Questa graziosa cittadina, circondata di bei frutteti, e perciò a primavera ravvolta di una nuvola d'alberi bianchi e rosa, addossata a un colle e dominata da una rocca che la include in parte, è nota anche nella cronaca delle ultime guerre, perché diede un buon numero di aviatori medaglia d’oro. Ivi ho raccolto molto di quel colore romagnolo, che ho poi versato in queste pagine solo in minima parte. Lo stesso assessore comunale che mi accompagnava era un tipo d'eccezione: mangiava la mattina, al risveglio, un piatto d'uova strapazzate con gli spezzatini d'agnello. La splendida biblioteca malatestiana di Cesena è il cuore della cultura della Romagna. Costituita, a metà Quattrocento, per ordine di Novello Malatesta sul fondo di una più antica biblioteca conventuale, nella scia di quella di San Marco a Firenze, è una perfetta creazione del genio del rinascimento. Non solamente per i codici corali miniati, incunaboli di gran pregio ch’essa contiene, ma per la stupenda sala, opera di Matteo Nuti, scolaro dell'Alberti. Col tempio malatestiano di Rimini, con il Palazzo Ducale di Urbino e con i più tardi palazzi degli Estensi a Ferrara è quanto di più puro ci abbia dato quel secolo in cui la cultura toccò l'estremo punto della raffinatezza. Già ho notato più volte che il nostro rinascimento forse raggiunse il massimo della perfezione in queste creazioni eccentriche, tra l'ultimo angolo delle Marche e la Romagna. Appare, la meravigliosa sala, con due file di colonne in fuga prospettica e i muri cui il tempo ha dato sfumature verdi e rosee. Difficile associare più distillata purezza a più slancio di fantasia. Vi fu bibliotecario Renato Serra, critico acuto e sensibile, in cui la tradizione culturale romagnola si rivelò ancora fertilissima e capace d'innesti moderni. Oggi, ultima meraviglia, vi si conserva un vasto piatto d'argento cesellato, della fine del IV secolo, di arte orientale-ellenistica, rinvenuto per caso nel dopoguerra. Nel prossimo municipio, i vecchi reggitori di Cesena fecero porre un'iscrizione, che non è per nulla bizzarra, e suona così: "Rappresentanti, ricordatevi – che governate degli uomini – che governar dovete colle leggi – che non governerete per sempre." Il senso della legge della vecchia Romagna trova in questa sentenza il suo sigillo. Terra densa di caratteri umani e poco incline allo standard del mondo d'oggi, la Romagna ha l'attrattiva di tutto ciò che difende se stesso e rifiuta di conformarsi.»
(Guido Piovene, Viaggio in Italia, pp. 307-308. La prima edizione fu pubblicata da Mondadori nel 1957)
Piovene (1957c)
«Il risveglio economico e la fine del semi-isolamento sarebbero anche necessari per salvare una vita intellettuale notevole, sebbene ristretta a una minoranza. Vi è ad Avellino un buon liceo classico; vi è un ottimo istituto tecnico-agrario, sul quale la rinascita dell'agricoltura potrebbe far perno. Una visita alla biblioteca mi ha dato una certa emozione. È tra le nostre biblioteche comunali migliori. Non nata, si badi, da fondi monacali, ma da biblioteche private, ancora oggi uno dei centri nevralgici della città, molto più che in una città del Nord. Mi sono insomma ritrovato in uno di quei monumenti dell'umanesimo meridionale, che ahimè sembrano sempre più galleggiare come zattere in un ambiente estraneo. Gli intellettuali vorrebbero leggere, e lo testimonia il gran numero di richieste di libri sulla tavola del bibliotecario. Questi cerca di accontentarli con le cassette circolanti, distribuite nei paesi della provincia, lasciate due mesi in ciascuno. Iniziative necessarie nell'Italia meridionale, dove il prezzo dei libri supera la capacità d'acquisto; ma ancora minime rispetto ai bisogni.»
(Guido Piovene, Viaggio in Italia, pp. 470-471. La prima edizione fu pubblicata da Mondadori nel 1957)
Pirandello (1889)
«Mio amato Maestro,
la recente sventura e i tristi casi da quella diramati alla mia povera casa, mi ridussero, sin dai primi giorni del mio ritorno in Sicilia, in così malo stato, da rendermi inetto a resistere al violento attacco d'una malattia, che mi ha condotto quasi al limitare della morte [...]. Attribuisca a ciò la causa del mio lungo silenzio, e abbia una parola di compatimento pel suo povero Pirandello, il quale per altro non ha mancato di ricordarla sempre con affetto e devozione, serbandosi fedele alla promessa fattale di recarsi – non a pena gli è stato possi[bi]le – in Girgenti, a cercare se in quella Biblioteca Lucchesiana (dal nome del fondatore, monsignore Andrea Lucchesi-Palli – seconda metà del Sec. XVIII.) fossero degli antichi manoscritti.
Molti difatti ne trovai, e alcuni, stimo io, di qualche valore. Eccomi ora a dargliene notizia, quanto più estesa mi sarà possibile. Son circa cento e quasi tutti tenuti male, anzi alcuni ridotti a tale da non poterne far più conto e copia. Bibliotecario è un certo prete Schifano, presso che illetterato, il quale nella lite pendente tra la sede vescovile e il municipio sulla proprietà di quella Biblioteca, non rende da anni e anni ragione della sua incuria né all'una né all'altro. E tutto va in perdizione. Non saprei adeguatamente manifestarle la strana e dolorosa impressione ricevuta al primo entrare in quella sede, cui non dirò mai dello studio e del raccoglimento, e bisogna ch'Ella lavori un po' d'immaginazione. Vidi nella penombra fresca che teneva l'ampio stanzone rettangolare, presso un tavolo polveroso, cinque preti della vicina Cattedrale e tre carabinieri dell'attigua caserma, in maniche di camicia, tutti intenti a divorare un'insalata di cocomeri e pomidoro. Restai ammirato. I commensali stupiti levarono gli occhi dal piatto e me li confìssero a dosso. Evidentemente io ero per loro una bestia rara e insieme molesta. Mi appressai rispettosamente (perché no?) e domandai del bibliotecario. «Sono io» mi rispose uno degli otto, con voce afflitta dal boccone non bene inghiottito. – Io vengo a chiederle il permesso di vedere se in questa... non dissi taverna, ma biblioteca, sono dei manoscritti... – Là giù, là giù, in quello scaffale in fondo – m'interruppe la stessa voce impolpata d'un nuovo boccone – e gli otto bibliotecari sì rimisero a mangiare. – O Marius De Maria, sospirai io, pittore bizzarro e fratel mio d'elezione!
Lo scaffale accennatomi era aperto: chi ne avesse avuto voglia avrebbe potuto servirsi a comodo; ma quei libri non conosco[no] altri visitatori che i topi e gli scarafaggi. Lo scaffale è a tre ordini: Sul primo stanno 34 volumi di manoscritti arabi, fonte copiosa di studi al compianto senatore Michele Amari, il quale per essi frequentò tre mesi interi la biblioteca. Nel secondo ordine stanno:
I°. Due volumi di Relazioni d'Ambascerie del XVI secolo [...].
XXI. Una Geografia.
Nel terzo ordine poi sono VI volumi di antichissimi Diplomi manoscritti, tra i quali molti importantissimi con data del 1098.
Scorsi quasi tutti in una settimana e mezza questi manoscritti; ma attendervi bene sopra non potei sia perché lo stato di mia salute me lo vietava, sia perché in un luogo come quello tutto è possibile, tranne che studiare. Chiesi al Municipio, chiesi alla sede vescovile il permesso di portarmi in casa qualche volume e non ne ebbi che risposte incerte piene di strane esitazioni. Poi non potei più nulla, e tutto restò lì.»
(Luigi Pirandello, lettera a Ernesto Monaci, Palermo idi di settem. 1889, in: La Lucchesiana di Girgenti, p. 219-225).
Pirricchi (1979)
«In quel periodo [1934-1936] – quando Mussolini preparava l'aggressione all'Etiopia – ci venne l'idea di organizzare una biblioteca circolante per mettere in condizione tanti amici che non avevano la possibilità di comprare un libro, di poter leggere altri libri come il Tallone di Ferro, La Madre di Gorki, L'Intruso di Blasco Ibanez, tutti i libri di Mario Mariani, tra cui il Povero Cristo, ecc. Per avere questi libri, ricordo che ci mettemmo d'accordo con un rivenditore di carta straccia, che aveva un piccolo magazzino in via Faenza. Lui ci metteva da parte i testi che noi richiedevamo, e che noi regolarmente pagavamo. In casa mia venne fatto il deposito: arrivammo anche ad avere 20 copie del Tallone di Ferro, altrettante della Madre, tante copie di tutti gli altri. I libri venivano comprati con i soldi del gruppo di amici che lavoravano, raccolti attraverso piccole sottoscrizioni. L'iniziativa ebbe successo; quei libri venivano letti da tutto il gruppo di amici, dai loro familiari ed anche da altre persone. Questa piccola iniziativa andò oltre le previsioni, in quanto questo giro si allargò anche alla periferia, a Scandicci, Peretola ed altri piccoli centri. Comunque, il giro di questi libri fu enorme perché era tutto un prenderli e poi regolarmente riportarli.
[...]
Tutte queste nostre discussioni ci portarono a concludere che bisognava fare di più. Non bastava la biblioteca circolante, bisognava forse trovare il modo di andare a combattere in Spagna e fare dei volantini che incitassero i cittadini alla solidarietà con la lotta del popolo spagnolo contro il fascismo.»
(Mario Pirricchi, in: I compagni di Firenze: memorie di lotta antifascista, p. 191-224: 196, 199).
«Io posso dire questo: in carcere ci siamo tutti istruiti. Anche io che avevo frequentato le scuole elementari, ed ero uno che aveva avuto la fortuna di studiare, in carcere ho trovato compagni, alcuni intellettuali che mi hanno molto insegnato. Per esempio mi ricordo, che c'era un compagno che ci ha fatto subito imparare a leggere il francese, perché i testi erano tutti francesi: l'Economia politica del Segai, Le vie dell'ottobre di Lenin, alcuni libri di Carlo Marx, l'Antidühring di Federico Engels, sulla teoria scientifica del socialismo. [...] C'era una biblioteca di oltre 5.000 volumi, che era stata fatta dai detenuti politici. I detenuti politici potevano infatti comprare libri, autorizzati dal Ministero dell'Interno, e i libri venivano sempre fatti acquistare dai compagni che avevano più anni di carcere, perché restassero lì nel carcere, e nessuno se li portasse via. Adesso nelle carceri entrano di nascosto le rivoltelle, allora entravano i libri che noi, detenuti politici, volevamo.»
(ivi, p. 213. Detenuto a Regina Coeli fino al processo, Pirricchi fu poi trasferito per scontare la pena nel carcere di Castelfranco Emilia, dal 1939 al 1942).
Pizzi (1901)
«Io poi ricordo ancora con qual strana voce di disgusto e di fastidio [Giuseppe Verdi] rispondesse, tutto contorcendosi, nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, a uno dei ciceroni che, con lambiccatissima frase laudatoria, l'aveva invitato a scrivere il proprio nome sull'albo dei visitatori. [...]
Lo conobbi di persona nel 1883. [...]
Il sabato 14 di luglio del 1883, giorno memorabile per il caldo grandissimo, io, con gli altri miei compagni di ufficio, stava nella Biblioteca Laurenziana di Firenze a passare, sonnolento e intorpidito, le ore del pomeriggio. Un cicerone pubblico, certo Battaglia, entrò accompagnando un bel signore, già avanzato nell'età, ma ancora snello e aitante della persona, seguìto da due signore. Era quello il Maestro che ritornava da Montecatini e aveva con sè la signora Strepponi, sua moglie, e la signora Teresina Stolz, già celebre cantante. Il Verdi osservò con molta attenzione le cose preziose che si conservano in quella insigne biblioteca, di cui io era allora vicebibliotecario, le miniature esposte, gli autografi del Petrarca, del Cellini, dell'Alfieri, il Virgilio del secondo secolo, il Tacito rinvenuto in Westfalia, il Paolo Orosio. Domandò di molte cose e, tra le altre, anche della celebre edizione, fatta a Foligno, della Divina Commedia. Tutto ciò faceva e diceva con l'usciere della biblioteca, mentre io, seduto in un angolo della gran sala, stava pure ad osservarlo con attenzione curiosa, parendomi non del tutto nuova la sua fisionomia. [...] Interrogai il cicerone, ma egli non ne sapeva nulla. Allora si pensò di pregar l'incognito signore di scrivere il proprio nome nell'albo dei visitatori, e il cicerone Battaglia (parmi di vederlo ancora!), accostandosi con comica officiosità, gli disse: «Se la signoria vostra volesse far l'onore di scrivere qui il suo riverito nome!...». Queste parole furono dette con tanta goffaggine, che il Verdi, tutto contorcendosi, come ho detto avanti, mandò fuori certa voce che era tutt'altro che armonica e musicale. Ma poi si contenne, e, prendendo la penna che l'altro gli offriva, scrisse nell'albo il proprio nome. Certo allora chi egli fosse, io, felice dell'incontro fortunatissimo, feci vedere al Maestro le cose più care e preziose della biblioteca, quelle che si tengono gelosamente chiuse e che non si fanno vedere a tutti, la Bibbia Amiatina, celebre manoscritto del sesto secolo, l'Evangeliario siriaco, pure del sesto secolo, i magnifici Corali miniati del Duomo di Firenze, il Messale miniato, della scuola del Ghirlandaio, a proposito del quale egli, sentendo da me che un simile messale erasi venduto pochi anni prima, disse con amarezza manifesta: «In Italia si vende tutto!».
Queste e molte altre cose ammirò il Verdi nella biblioteca e le ammirò con entusiasmo caldo, con sentimento vero d'arte. Mi diceva anche d'aver veduto, altra volta, alla Cava dei Tirreni, presso quei frati, un uffizio della Madonna, miniato ricchissimamente, e soggiungeva con occhi scintillanti: «Oh! se avessi potuto portarlo via a quel frate che me lo mostrava!». – Ma egli non si mostrò ammiratore soltanto, perchè si fece conoscere anche erudito, ciò che smentisce l'opinione che qualcuno ha o ebbe di lui, cioè che egli, fuori della sua musica, non sapesse che ben poco. [...] Comunque sia, io mi meravigliai di lui quando, mostrandogli una edizione rarissima delle opere di Aristotele in greco, fatta a Venezia e adorna di miniature bellissime di animali, disse: «Io non so di greco, ma questa deve essere la Storia degli animali di Aristotele». – Ed era vero. [...] A proposito poi della Laurenziana, domandava se quella era appunto quella biblioteca di cui di tanto in tanto vedeva citati i manoscritti [...].
Vedute le cose della biblioteca degne di esser vedute, il Verdi, si licenziò non senza però domandarmi la mia carta di visita che io gli consegnai premurosamente.»
(Italo Pizzi, Ricordi verdiani inediti, p. 7-13).
Placanica (1976)
«Feci la prima conoscenza del bibliotecario Don Pippo al tempo della mia fanciullezza, quarta elementare o prima media tutt'al più: già in casa ne sentivo parlare ogni tanto, come di un uomo fuori del normale che vìveva in mezzo ai libri, e, allorché potei conoscerlo di persona, egli sembrò ancor più vecchio e venerando di quanto avessi immaginato e di quanto in realtà non fosse. Mio padre era lontano, in guerra, ed era il mio nonno materno, un vecchio avvocato massone e antifascista di Catanzaro, che si prendeva più assidua cura di me e che amava portarmi spesso con sé a passeggio, dirigendo di tanto in tanto i suoi passi verso il regno di Don Pippo. La biblioteca, allora, era sistemata al piano terreno del palazzo comunale; vi si accedeva sùbito: bastava salire qualche gradino e, attraverso una porticina a vetri come quelle delle case di paese, ci si immetteva direttamente in una sorta di vestibolo angusto e in penombra, sul quale si aprivano alcuni passaggi alle sale della biblioteca; nell'àndito, quasi di fronte a chi entrava e in mezzo a scaffali con libri, si ergeva un breve armadio a vetri (era il catalogo a schede mobili in grossi volumetti), i cui sportelli recavano, infilati molto semplicemente dietro i vetri e lungo le cornici, fotografie di singoli o di gruppi e alcuni telegrammi: insomma, da ogni cosa spirava un'aria raccolta di famiglia; e finanche quel rapido incontro con la penombra, appena attenuata dal sole che filtrava dalla porta a vetri, l'angustia dell'ingresso, un certo indefinibile sentore come di umidità, il predominante odore dei libri, tutto mi faceva sentire ancora a casa mia; tutt'al più mi pareva d'essere andato a casa di amici, e perciò non provavo soggezione, e credo che nessuno ne provasse, almeno nei suoi primi contatti con la biblioteca. A destra, sempre tra scaffali con libri, si apriva un altro varco, anch'esso piuttosto angusto ma tutto illuminato da una finestra che, lungo lo stesso filo dell'entrata, dava sulla strada; qui, dietro a una piccola scrivania ingombra di carte e penne, seduto a una vecchia poltrona dì velluto scarlatto [...] stava Don Pippo: da quel suo posto, mirabilmente scelto, aveva sempre sott'occhio da una parte libri e studiosi e dall'altra la frequentatissima via Jannoni [...].
Don Pippo non era mai solo: c'era sempre con lui qualche studioso, oppure un esiguo gruppo di suoi personali frequentatori, e nel familiare andirivieni c'era spazio per raffinati suggerimenti bibliografici e anche per bonari pettegolezzi. [...] Io stavo lì in mezzo, ma non facevo in tempo ad annoiarmi: infatti, poiché i «grandi» dovevano parlare tra di loro ed esercitare l'innocente jus murmurandi sul regime o sui maggiorenti locali. Don Pippo si preoccupava, sùbito e senza tanti complimenti, di levarmi dì torno e mi accompagnava alla «Sala Serravalle », un lungo stanzone che dava anch'esso sulla strada attraverso ampie finestre, tutto tappezzato dì libri alle pareti e percorso nel centro da bellissimi e massicci tavoli a leggìo di un caldo color noce chiaro: Don Pippo mi faceva sedere lì e mi dava in mano qualche romanzo dì Verne o ì volumi di geografia o preistoria di Flammarion, o altrettali, tutti in edizioni tardottocentesche illustrate da incisioni per me bellissime e misteriose, con quei chiaroscuri che addirittura mi affascinavano, poi, nelle tavole del Doré illustranti la Divina Commedia o il Don Chisciotte. Io leggevo e ammiravo estasiato e ogni tanto, quasi nascosto dietro il tavolo-leggìo, levavo lo sguardo a osservare gli altri lettori: ce n'erano sempre due o tre, non di più, intenti a leggere o a prendere appunti, e spesso Don Pippo entrava nella stanza, si chinava a leggere con loro oppure si metteva a cercare altri libri negli scaffali; e io ricordo ancora con infinita nostalgia quella sala raccolta e silenziosa, talora rallegrata dagli scoppi dì risa dei frequentatori più giovani, e come il sole, filtrando dalle finestre, si posasse sulle persone intente a leggere, illuminando ora la canìzie di un vecchio lettore ora le chiome fluenti di una laureanda; certe volte capitava che un giovanotto e una signorina lasciassero di leggere e si mettessero a chiacchierare sottovoce e a lungo, ogni tanto volgendo gli occhi alla porta perché non fossero scorti da qualcuno nel mezzo del loro tenero parlare. Talora, non senza circospetto timore, mi alzavo e andavo in giro per l'ampia sala: tutt'intorno si snodavano lunghe file dì volumi ordinati in collezione, con le loro eleganti rilegature in pelle: c'erano molti libri vecchi e austeri, spesso anche di grandi dimensioni, che spiravano nobiltà coi loro dorsi dai tasselli multicolori e dalle incisioni in oro, ma che avevano lì, anch'essi, un'aria dì famìglia; soprattutto mi attraevano certi altri volumetti, piccoli o addirittura minuscoli, anch'essi disposti in lunghissime serie, tutti rilegati alla stessa maniera e con certi titoli latini o francesi che eccitavano la mia fantasia. Quando Don Pippo o il nonno venivano a riprendermi, io lasciavo quel luogo sempre a malincuore, e non senza invidia per coloro che potevano lavorarci a proprio agio [...].
Cresciuto negli anni – ginnasio, liceo –, mantenni rapporti discontinui con la biblioteca: me ne servivo talora per qualche ricerca spicciola o per soddisfare qualche curiosità, e sempre – come tutti – dovevo preliminarmente rivolgermi a Don Pippo. Passato il tempo del nonno e degli amici del nonno, ora lo trovavo spesso in compagnia di giovani professori del luogo o di altri più recenti professionisti e talora in alcuni di essi ravvisavo i giovanissimi frequentatori di un tempo. [...]
Ciò che colpiva in Don Pippo, infatti, era l'estrema disponibilità verso i giovani e i giovanissimi: era, quello degli anni tra i Quaranta e i Cinquanta, il periodo della riscoperta della libertà nelle scuole [..].»
(Augusto Placanica, Premessa, in: Civiltà di Calabria: studi in memoria di Filippo De Nobili, p. 9-20: 9-11).
Politecnico (1945)
«Settemila sono le biblioteche pubbliche negli Stati Uniti; ma solo le sedentarie. Poi vi sono, a migliaia e migliaia, le ambulanti; formate di camions come questo che girano per raggiungere le fattorie e portar libri ai contadini, a chiunque viva isolato. Un libro è lasciato, un nome è preso, la settimana prossima si ripassa e il libro vien ritirato ma se ne lascia un altro. E il lettore può chiedere qualunque libro vuole. Se la biblioteca ne è sfornita, lo farà arrivare in giornata, per aereo. L'Italia, dicono, è il paese dei musei e delle biblioteche. Quante biblioteche abbiamo? Praticamente, una sola. Se una determinata opera è alla biblioteca nazionale di Roma, potete star sicuri che non c'è a Milano o a Torino; se invece è a Milano potete star sicuri che non c'è a Roma, e così via. Ma sapete quando l'Italia sarà un paese davvero civile? Il giorno in cui avrà tante biblioteche pubbliche quante oggi ha chiese parrocchiali, quanti oggi ha campanili.»
(«Il Politecnico», n. 1 (29 set. 1945), p. 4. Il trafiletto, accompagnato da una fotografia, non è siglato, ma potrebbe essere del direttore Elio Vittorini).

Pontiggia (1993)
«Veniamo ora al suo rapporto con l'istituzione biblioteca. In particolare, dalla sua frequentazione delle biblioteche pubbliche quali impressioni e ricordi ha tratto?
Le ho frequentate molto fino a qualche tempo fa. Andavo alla Sormani. Adesso non potrei permettermelo per motivi di tempo. Comunque alle biblioteche pubbliche devo moltissimo. Mi ricordo da giovane, avevo diciassette anni, nel 1951 e lavoravo in banca. Andavo sempre alla Biblioteca del Castello a leggere. Per me stare in quei locali era come vivere un'esperienza magica, quasi di sdoppiamento. Stando lì avevo l'illusione che la giornata in banca si cancellasse e avevo l'impressione che l'esperienza vera fosse quella che vivevo in biblioteca. Andavo, normalmente, d'estate. Mi ricordo, in particolare, un periodo in cui mi recavo tutti i giorni alla Biblioteca del Castello per leggere la storia dell'impressionismo del Rewald, pubblicata da Sansoni e curata da Longhi, un libro abbastanza consistente, che ho letto in una settimana. Per me era una gioia ritornare il giorno successivo e riprendere la lettura, anche perché quella storia ti faceva partecipare alla vita degli impressionisti, di seguirla quasi giorno per giorno. Avevo una sensazione di felicità nell'entrare in un mondo, in un'epoca. Usufruivo anche del servizio di prestito delle biblioteche di quartiere, però mi piaceva moltissimo stare in biblioteca perché leggevo in condizioni ideali, con un senso di intimità molto forte, nonostante ci fosse sempre un po' di movimento in sala. Mi sentivo come in un acquario, con una sensazione di raccoglimento e di concentrazione.
[...]
Mia madre ricordava sempre un episodio del 1945. Io avevo undici anni ed eravamo a Santa Margherita Ligure. Subito mi ero iscritto alla biblioteca comunale. Ne ero uscito con un libro logoro che portavo sottobraccio, come fosse una reliquia. L'avevano divertita il mio modo di camminare curvo per non sciupare il libro, quella delicatezza, quella cura che si intuiva nei miei gesti.
La sua attività di scrittore e conferenziere la porta in giro per città grandi e piccole. Avrà, dunque, avuto modo di conoscere molti tipi di biblioteca. Cosa ne pensa delle biblioteche pubbliche di oggi?
Ne ho viste molte negli ultimi tempi, perché le conferenze e i laboratori sul leggere e sullo scrivere, che tengo da anni, spesso si svolgono proprio in biblioteca. Le ho trovate accoglienti, con i libri a disposizione e senza troppa burocrazia per accedere al prestito. Mi pare sia molto migliorato il servizio nei piccoli centri. Mi hanno colpito molto i locali non oppressivi, ben illuminati, ariosi, dove i giovani possono trovarsi a loro agio, dove leggono e studiano, perché si trovano bene.
La sua specifica esperienza all'interno del mondo della scuola le avrà dato modo di conoscere anche la realtà delle biblioteche scolastiche? Che giudizio ne dà?
Quando le ho frequentate sono rimasto colpito dai libri che contenevano, però non ne ho approfittato perché il sistema di prestito lo trovavo troppo tortuoso e burocratico. Questo non succedeva nella biblioteca pubblica, così preferivo quest'ultima a quella scolastica. Poi ho vissuto il problema dall'interno quando sono stato vicepreside, nel 1967, all'Istituto d'arte di Monza. Lì mi sono reso conto che le biblioteche scolastiche potrebbero svolgere un ruolo assai importante sia per l'editoria, nel senso che potrebbero acquistare libri di cultura e aiutare le iniziative di natura non commerciale, sia nello studio, perché potrebbero concorrere in maniera determinante alla formazione degli studenti. Ho avuto però l'impressione di una certa casualità negli acquisti, nonché di uno scarso impiego delle risorse. Durante quell'esperienza mi sono reso conto che se non si compravano i libri entro un certo periodo i fondi stanziati ritornavano allo Stato. Così le scuole avevano a disposizione somme per l'acquisto dei libri e non ne approfittavano. Forse adesso la situazione è cambiata. Speriamo.»
(Fulvio Panzeri, Un appartamento di ventottomila libri [intervista], p. 47-48).
Pound (1935)
«My hotel-keeper [in Rimini] was also Comandante della Piazza, we had got better acquainted by reason of his sense of responsibility, or his interest in what I was doing. The local librarian had shut up the library, and the Comandante had damn well decided that if I had taken the trouble to come to Romagna to look at a manuscript, the library would cut the red tape.»
(Ezra Pound, Jefferson and/or Mussolini, p. 26-27. L'episodio a cui Pound si riferisce avvenne nel 1923, quando la Biblioteca Gambalunga era diretta da Aldo Francesco Massera).
Pratolini (1942)
«Ti prego anche di dire a [Alessandro] Bonsanti che gli riporterò i due volumi delle Cose viste alla fine del mese: mi conceda ancora questo tempo. Fallo subito, e ottieni il suo consenso.»
(Vasco Pratolini, lettera a Alessandro Parronchi, Roma 8 [settembre 1942], p. 94. Si trattava dell'opera di Victor Hugo, presa in prestito nell'edizione francese al Gabinetto Vieusseux, allora diretto da Bonsanti, e di cui Pratolini curò una traduzione parziale, presso Einaudi, uscita nel 1943).
«Caro Bonsanti, da parte di "Wiesseux" [!] mi viene richiesto un libro di Tommaseo su Wiesseux che io avrei in prestito nientedimeno dal 1939. Ti dico subito che questo libro io non ce l'ho. Né, il che è più strano, mi ricordo di averlo avuto fra le mani. Ebbi, sì, proprio circa il 1939, per un incarico al "Bargello", qualche libro in prestito dal "Wiesseux"], e dall'allora suo direttore, di cui non ricordo il nome [Rodolfo Ciullini], ma credo di aver sempre riportati i libri. Ti dico credo perché a questo proposito la mia memoria non mi assiste, ma per certo non ho nessun libro, tanto meno il Tommaseo: e, ciò che è più probante, non l'avevo fra i libri a Firenze quando da Firenze mi stabilii a Roma due anni e mezzo fa. Tutto ciò dico al condizionale per cortesia verso di te, ma ufficialmente potrei risponderti in coscienza d'avere restituiti al "Wiesseux" tutti i libri (così pochi in verità) che mi vennero dati in lettura. Ho invece i due Hugo, che ti prego concedermi per un mese ancora dovendo riscontrare le bozze di stampa che sono in arrivo. Scusami, caro Bonsanti, se involontariamente ti arreco un fastidio, e credimi sempre tuo».
(Vasco Pratolini, lettera a Alessandro Bonsanti, Roma 11 giugno 1942, in Gabinetto Vieusseux, Archivio storico, XX 1B.6.58, pubblicata in Laura Desideri - Erica Vecchio, La biblioteca di Pratolini in mostra, «Antologia Vieusseux», n. 57 (set.-dic. 2013), p. 123-154: 135).
Pratolini (1945-1946)
«Ti chiedo invece un favore: vai in Biblioteca e guarda se all'Emeroteca ci sono le collezioni della Nazione, del Nuovo Giornale (e anche di altri periodici fiorentini, non escluso gli umoristici: La Chiacchiera, per esempio), degli anni 1925-1926. Consultali in particolare nelle giornate dal 1° al 10 ottobre 1925 e più avanti: controlla se essi danno i nomi e riportano i particolari degli eccidi commessi dai fascisti nelle persone di Consolo, Pilati, ecc. Nel '39 il trimestre che comprendeva l'ottobre era costantemente "in lettura".»
(Vasco Pratolini, lettera a Alessandro Parronchi, [Napoli] 29 dic. [1945], p. 132. Pratolini lavorava al romanzo Cronache di poveri amanti, ambientato in quel periodo, che uscì da Vallecchi nel 1946).
«Caro Sandro,
anch'io vorrei rispettare il tuo silenzio, visto che taci, ma [...] mi interessavano le risposte alle richieste che ti facevo: 1) la consultazione dei giornali in Biblioteca; 2) la tua recensione; 3) se il "Quartiere" era nelle librerie.»
(Pratolini a Parronchi, Napoli 24 gen. [1946], p. 133).
«Caro Vasco,
devi scusarmi di questo lungo ritardo. Contrariamente al mio solito ho avuto in questi giorni molto da fare. E non volevo risponderti senza essere andato in Biblioteca a consultare quei giornali. Ci sono andato stamani alle 9 e ne esco ora, letteralmente envouté. Ho visto solo “La Nazione” dal 1° ottobre alla fine del 25. Col 22 ottobre ci si trovano i nomi dei primi arrestati. Segue un 2° elenco di espulsi dal partito con diffida di Balbo ai giornalisti di ritenere che si tratti di assassini. [....]
Più oltre, e cioè nel 1926, non ho guardato: lì ci dev'essere il processo. Nella fine del '25 avvennero solo i processi per violenze. Se vuoi ci guarderò; ma ti dico che questo genere di ricerca in fatti di cronaca nera mi fa diventar tisico».
(Parronchi, lettera a Pratolini, senza data, in Alessandro Parronchi, Lettere a Vasco, a cura di Alessandro Parronchi, Firenze, Polistampa, 1996, p. 58).
«Un'altra cosa ancora [...]. Si tratta di questo: mi occorrerebbe un programma di uno spettacolo delle "Folies Bergères" del 1925-1926, una sera qualunque. Le "Folies", o "Follie", come noi si chiamavano, erano, tu lo saprai, nei locali dell'attuale "Cinema Imperiale" di via de' Neri. Il comm. Raffaello Castellani [...] forse potrebbe avere un programma dell'epoca, o più semplicemente, un giorno che vai in Biblioteca per conto tuo, potresti scorrere i giornali e riferirmene.»
(Pratolini a Parronchi, Napoli 5 febb. [1946], in Vasco Pratolini, Lettere a Sandro, p. 138).
«In che data fu Pasqua, l'anno 1926 (Attenzione: 1926 non 1925). Questa è una rogna: se non ci riesci alla prima lascia fare. Dovresti semmai tornare in Biblioteca.»
(Pratolini a Parronchi, Napoli Pasqua '46, p. 154).
Pratolini (1951 e 1970)
«Ho ripreso qui, da ieri, a lavorare; non faccio pronostici, come potrei? Ti prego, a tuo comodo di rispondermi ai seguenti quesiti. [...]
3) dovresti, consultando a caso una settimana della primavera 1926 della "Nazione", darmi l'elenco degli spettacoli (cinema-teatri e varietà).»
(Vasco Pratolini, lettera a Alessandro Parronchi, Napoli 20 agosto '51, p. 290. Pratolini lavorava al romanzo Lo scialo, ambientato in quel periodo, che uscì da Mondadori nel 1960).
«Caro Sandro,
domani sabato vado a San Giustino con l'intenzione di restarci qualche giorno ma anche per fare una puntata a Firenze in biblioteca.»
(Pratolini a Parronchi, Roma 4 [luglio 1970], p. 421).
Pratolini (1973)
«A diciott'anni andavo a giocare a biliardo, avevo una ragazza qui e l'altra là. Decisi di lasciare ogni cosa. Vissi i miei giorni in biblioteca, pianificando le mie letture. Cominciai a conoscere Croce, la filosofia tedesca, dopo aver digerito ed essermi sostanzialmente nutrito degli illuministi. E la frequentazione dei miei classici ai quali sempre tornavo: Compagni, Boccaccio, Sacchetti, Machiavelli, Dante... Disperazione di dover sempre ricominciare, voracità, e abissi d'ignoranza che mi si aprivano di volta in volta. Questo durò più di tre anni.»
(Vasco Pratolini, conversazione con Ferdinando Camon, p. 42).
Pratolini (1975)
«GENNAIO
Firenze dopo l'alluvione.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il segno della nafta sfiora
la balaustra (magica) di via de' Magazzini.
Capisci ora cosa ci divide?
Hai fatto una giravolta:
Le jeune homme dont l'oeil est brillant, la peau brune
Le beau corps de vingt ans...
Il tuo amoroso dileggio
gli incunaboli che hai da salvare
le unghie rotte i seni intirizziti
la tua giovinezza armata di futuro.»
(Vasco Pratolini, Calendario del '67, p. 169).
«È finita I'esistenza che contava per noi – quella con cui ci era possibile e doveroso fare i conti – oppure l'esistenza ci supera, non le siamo più adeguati? [...] Ma esiste una risorsa, cioè uno spazio residuo che può anche mutarsi in area di rilancio; ed è l'interrogarsi, e sin dove sia dato, il rispondersi di fronte a quella linea, a quella sbarra apparentemente terminale oltre la quale sta il futuro, magari avvertito non più nostro, e che è già il presente di altri (della ragazza che tenta di sottrarre al fango i libri della biblioteca; del figlio dell'amico suicida che opta per la «giustizia»).»
(Nota di Vittorio Sereni, ivi, p. 165).
Pratolini (1988)
«Soltanto dopo un lungo periodo che passavo davanti alle Giubbe Rosse, e mi guardavo bene dall'entrare, una sera Vittorini mi introdusse e mi presentò a Montale. Ma per quanto fosse già famoso e ne sapessi tante citazioni, io non lo avevo mai letto, un po' perché per il mio autodidattismo [...] non potevo aver letto tutto, un po' perché ero un ungarettiano di ferro [...]. Così io dissi a Montale che avevo difficoltà a trovare i suoi libri, non li avevano nemmeno alla Nazionale. Allora Montale mi invitò ad andare a trovarlo al Gabinetto Viesseux [!] dov'era il direttore. Figurati con che emozione ci andai, e lui mi aspettava nel suo studio, e sul tavolo, già dedicato, trovai una copia degli "Ossi di seppia". Poi siamo diventati amici e io l'ho accompagnato per mesi a casa la sera dalle Giubbe Rosse.»
(Vasco Pratolini, intervista, in Vasco Pratolini, a cura di Luciano Luisi, p. 55).
