LE TESTIMONIANZE

L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.

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Risultati della ricerca

Panzini (1938)

«La biblioteca civica della vetusta città di Rimini era come un diploma di nobiltà. Questa città non si dava pensiero, allora, di apparire vetusta, e così la biblioteca.
Governatore della biblioteca era il dottor Carlo Tonini, e dicendo il dottore, si intendeva lui. [...]
Seduto e quasi sepolto giù fra vecchi libri e codici, in fondo, nell’ultima sala col ballatoio settecentesco, il dottore continuava la paterna storia della sua cara città [...].
Apriva lo scrigno della sua dottrina a chiunque lo avesse richiesto, così come alle due del pomeriggio, quando chiudeva con tanta precauzione di grosse chiavi la biblioteca, apriva il borsellino a cerniera per fare la carità ai poveri che in lunga fila aspettavano il «signor dottore».
Impiegato, distributore, e bidello insieme della biblioteca, era un vecchietto dalla schiena curva e una barba prolissa come quella di San Girolamo. [...] Aveva anche, nei mesi freddi, l’ufficio di tenere acceso un braciere di carbonella, di nocchi d’ulivo, nella sala di lettura. [...]
Il parroco forese, di San Lorenzino in Strade, capitava ogni tanto, tondo e infiammato, con un cartafaccio da sottoporre al dottore per i casi dubbii di lingua e anche di teologia. Da anni, stava componendo un’opera sul Purgatorio.
Capitava anche il conte Battaglini. Veramente erano due questi patrizii; ma così somiglianti che si confondevano. Signorili, scarni, barba grigia, passavano oltre senza guardare. [...]
Confabulavano a lungo di cimelii, di quadri, di codici, di cui era ricco l’avito palazzo: di solennità religiose che essi facevano celebrare a tutto loro dispendio.
Veniva anche un certo Renzetti, tipografo, che ostentava la virtù repubblicana con un invariabile vestito di rigatino l’estate, e di mezza lana l’inverno. Era stato con Garibaldi fra quei monti. Lui voleva dire il Trentino.
Veniva per far sentire al dottore le sue poesie. [...]
Capitavano anche gli studenti che venivano da Bologna. La più parte della facoltà di medicina, terribili adoratori del santo vero e perciò molto scalmanati. Discutevano forte con un linguaggio da Convenzione francese, e facevano venir fuori dal fondo della biblioteca il dottor Tonini. – Andate là, ragazzi, non fate chiasso, parlate piano. C’è qualcuno laggiù che studia.
E veramente fra gli strombi, nelle sale recondite, sedeva su gli sgabelli antichi qualche dotto straniero a consultar codici e stampe rare. Questi stranieri venivano per la più parte da quella che era chiamata allora la dotta Germania; parlavano riguardosi, studiavano dall’apertura alla chiusura della biblioteca: senonchè questi biondi discendenti di Arminio avevano l’abitudine di farsi ogni giorno meno frequenti. Avevano scoperto, nelle fumose trattorie sotto la peschiera, bottiglie di Sangiovese, sogliole e calamaretti fritti.
Fra le teste più calde che entravano in biblioteca, era un Alfredo Mazzotti. La sua povertà era estrema. [...] Dentro quella fronte, battagliavano tutti i filosofi, i sociologi, gli scienziati, russi, francesi tedeschi, che avevano scoperto il santo vero, e lui, Mazzotti, ne reclamava le opere. [...]
Solenne veniva ogni giorno il dottore e medico Enrico Bilancioni.
– Dov’è Tonini?
– Laggiù in fondo.
Entrando in biblioteca (veramente lui diceva libreria), si toglieva il cappellaccio nero, e allora veramente la fronte dava al suo volto l’aspetto di antico Giove. [...]
Il dottor Bilancioni veniva in libreria per leggere a Tonini le sue epigrafi latine. [...]
Fu un grande avvenimento e trepidazione in tutta Italia quando si seppe che Re Umberto avrebbe visitato le Romagne. Ciò avvenne nell’agosto del 1888. Sua Maestà visitò Forlì, visitò Rimini, dove allora era ritornato Amilcare Cipriani.
Trattandosi di una città come Rimini, che siede tra l’arco di Augusto e il ponte di Tiberio, e in mezzo è il suggesto di Cesare, ci voleva bene un dichiaratore. Questi non poteva essere se non il dottor Tonini. Che pena, povero dottore! Che batticuore!
Non già per parlare con il Re; a tanti re, papi, imperatori, egli aveva parlato nelle sue storie, ma per uscire dai suoi vecchi cenci, metter su la palandrana nera, e al collo una cravatta con un fiocco fatto bene.
Ora, tutto è rinnovato nella già vetusta città di Rimini. Vie, piazze, arco, ponti, e anche la biblioteca chi la riconoscerebbe più?
Rimangono soltanto queste memorie.».
(Alfredo Panzini, Figurine di biblioteca, p. 3).

Paolucci (1995)

«Il suo rapporto di studioso con le biblioteche?
Quando penso ad una biblioteca penso a quella che è la mia biblioteca, la Biblioteca del Kunsthistorisches Institut di Firenze. Quella è per me la Biblioteca, perché uno entra e sa che al numero tale c'è la sezione "Firenze", e poi "Roma", "Venezia", "Fiamminghi", "Iconografia", "Donatello" e prende i libri da sé, li prende in mano, ne sente l'odore, li sfoglia.»

(Roberto Maini, Un tecnico nella "stanza dei bottoni": qualche domanda al ministro per i beni culturali e ambientali Antonio Paolucci, «Biblioteche oggi», 13 (1995), n. 6, p. 6-7: 7).

Papini (1909-1911)

«Carissimo, non t'ho risposto fino a oggi perché ho dovuto lavorare dalla mattina alla sera per una conferenza che ho fatto qui alla Biblioteca Filosofica sulla parte che la Toscana ha avuto nel pensiero italiano.»
(Giovanni Papini, lettera a Giovanni Boine, Firenze 14 dicembre 1909, in: Lettere inedite di Papini a Boine..., n. 14, p. 6).

«Quel libro che mi chiedevi non c'è ma lo farò comprare alla B. F. [Biblioteca filosofica] e te lo manderò.»
(Papini, lettera a Boine, Firenze 20 gennaio 1910, ivi, p. 7).

«Tu sai della rivista e delle incertezze e delle decisioni. Io ci sto. Ci metto il corso che devo fare alla Biblioteca Filosofica e se tu per i primi mesi darai le recensioni promesse (ma davvero e ben fatte) la cosa va. [...] Qui a Firenze ho trovato 4 volumi di opere mistiche di Diego de Estella (Meditaciones de l'amor de Dios ecc. Alcalà de Henares, fine del 500). Vogliono 5 lire al volume. Casati mi disse di comprarli per te. T'interessano? So che piacevano a S. François de Sales. Se le vuoi le mando a te, altrimenti le prendo per la Biblioteca [filosofica].»
(Papini, lettera a Boine, Firenze 23 settembre 1910, ivi, p. 9).

«La preparazione del corso alla B. F. mi porta via molto tempo perchè quando si tratta di stringere i conti le ricerche e le letture non bastano mai.»
(Papini, lettera a Boine, Firenze 15 gennaio 1911, in: Lettere inedite di Papini a Boine..., n. 16, p. 6).

Papini (1913a)

«Un milione di libri

Dopo qualche anno di letture furiose e disordinate mi accorsi che i pochi libri ch’erano in casa e quegli altri pochi che potevo avere o ricorrendo alle scarse librerie di parenti e conoscenti o comprandone qualcuno usato coi centesimi risparmiati sul companatico o coi soldi rubati alla mamma, non bastavano. Seppi da un ragazzo un po’ più grande di me che c’erano in città grandissime e ricchissime librerie aperte a tutti, dove in date ore si poteva andare, chiedere qualunque libro si volesse, e, quel che più conta, senza spender nulla. Decisi di andarci subito. C’era però una difficoltà: per entrare in que’ paradisi bisognava aver per lo meno sedici anni. Io ne avevo dodici o tredici ma per l’età mia ero anche troppo alto. Una mattina di luglio mi provai. Salii uno scalone, che a me parve largo e solenne, tremando. Dopo due o tre minuti di incertezza e di batticuore infilai nella saletta delle richieste, scrissi alla peggio la mia scheda e la presentai con l’aria impacciata e sospettosa di chi sa d’essere in fallo. L’impiegato – lo ricordo ancora: sia maledetto! era un omicciuolo con tanto di pancetta e due occhietti cilestri di pesce morto e una piegaccia maligna a’ due lati della bocca – mi squadrò con aria di compatimento e colla sua esosa voce strascicata mi chiese: Scusi, quanti anni ha lei?
Io feci il viso rosso più per la rabbia che per la vergogna e risposi, facendomi più vecchio di tre anni:
– Quindici.
– Non bastano. Mi dispiace. Legga il regolamento. Torni fra un anno.
Uscii di là umiliato, indispettito, abbattuto e tutto gonfio di odio fanciullesco contro quell’orribile uomo che impediva a me, povero e affamato di sapere, il libero uso di un milione di libri e così mi rubava vigliaccamente, in nome d’un numero scritto, un anno intero di luce e di gioia. Avevo intravisto, entrando laggiù, una sala lunga e vasta, con venerabili seggioloni ad alta spalliera coperti di panno verde, e tutto intorno libri libri e libri, libri vecchi grossi e massicci, colle costole di pergamena e di pelle, scritte e fregiate d’oro: una meraviglia! E ognuno di que’ libri chiudeva quel che cercavo, offriva quel cibo ch’era fatto per me: storie d’imperatori e poemi di battaglia, vite di uomini semidivini, libri santi di popoli morti, e le scienze di tutte le cose e i versi di tutti i poeti e i sistemi di tutti i filosofi. E quelle migliaia di promesse in lettere d’oro eran per me: a un mio comando i volumi che aspettavano sotto la polvere, dietro la rete fitta degli scaffali, sarebbero scesi verso di me, e l’avrei squadernati e sfogliati e divorati a mio piacere!
Non aspettai neppur un anno per tentar la seconda prova. Anche questa riuscì male. Dovetti arrivare ad una altra estate per vincere. Avevo poco più di tredici anni – forse tredici anni e mezzo.
Insieme a un altro ragazzo più grande di me, che da un pezzo entrava là senz’inciampo, finalmente passai. Per non dar nell’occhio e non passar da bambino in cerca di passatempo chiesi un libro serio, un libro di scienza – quello del Canestrini su Darwin.
C’era questa volta al di là della parete di legno e di vetro un altro impiegato – un tipo alto e secco come un uccellaccio pelato, sgarbato nelle mosse e che non stava mai fermo. Prese la mia richiesta senza guardarmi, ci fece su un segnaccio con un lapis blù e la passò ad un ragazzotto ch’era lì presso senza far parola.
Aspettai mezz’ora, rodendomi dentro dalla paura che il libro non ci fosse o che non volessero portarmelo. Quando venne me lo strinsi sotto il braccio ed entrai tutto vergognoso e in punta di piedi nella gran sala di lettura. Non avevo provato mai un tal senso di riverenza – neppure in chiesa da piccino. Come spaventato dal mio ardire e dal trovarmi là dentro, dopo tanto, in mezzo a quel gigantesco reliquiario della sapienza dei secoli, andai a sedermi sul primo seggiolone libero che mi si parò dinanzi. Era tale lo smarrimento e il piacere e lo stupore e il senso d’esser divenuto ad un tratto come più grande e più uomo che per quasi un’ora non riuscii a capir nulla nel libro che avevo dinanzi.
Tutto là dentro mi pareva santo e maestoso come il ritrovo di una nazione. Quei seggioloni sudici e stinti, coperti di stoffa dove lo scolorito verde finiva nel giallo o si nascondeva sotto l’untume nero, sembravano a’ miei occhi colossali e fastosi come troni e il vasto silenzio mi pesava sull’anima più grave e solenne di quello d’una cattedrale.
Dopo quel giorno ci tornai tutti i giorni, per tutto il tempo che la tediosissima scuola mi lasciava libero. A poco a poco feci l’abitudine a quel silenzio, a quella stanzona così alta sopra la mia testa arruffata di adolescente trascurato, a quella ricchezza sterminata di volumi antichi e nuovi, di giornali, di riviste, di opuscoli, di atlanti, di codici e di manoscritti. Diventai presto come di casa, imparai le faccie dei distributori, scopersi i segreti delle segnature, penetrai nei cataloghi, conobbi i visi dei fedeli e degli appassionati che venivano come me, tutti i giorni, precisi e impazienti come a un ritrovo di voluttà.
E mi gettai a capofitto in tutte le letture che mi suggerivano le mie pullulanti curiosità o i titoli de’ libri che trovavo in altri libri visti nelle vetrine e sui barroccini e intrapresi allora, senza esperienza, senza guida, e senza un qualsiasi disegno, ma con tutto il furore e l'impeto della passione, la vita dura e magnifica dell’onnisapiente.»

(Giovanni Papini, Un uomo finito, p. 13-16; la testimonianza si riferisce alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze)

Papini (1913b)

«Abbandonato a me stesso, coll’appetito sregolato e capriccioso dell’adolescenza, cercavo qua e là i libri che mi potessero illuminare e saziare. A volte frugavo nei grandi cataloghi manoscritti della biblioteca, chiedendo poi, a caso, libri bizzarri, inutili, inintelligibili o cercavo con avidità manuali che dessero titoli di altri libri, e ricopiavo con gioiosa impazienza le liste di libri che spesso son dietro alle copertine oppure i frontispizi e i titoli di quelli esposti nelle vetrine o rammentati nelle riviste.
Un nuovo titolo di libro era per me, più che una scoperta, una vera conquista, e ne facevo collezioni enormi e li copiavo e ricopiavo su tanti libriccini bislunghi, tentando di ordinarli come meglio potevo. Se il titolo mi piaceva chiedevo subito il libro in biblioteca e da quello spigolavo e raccoglievo altri titoli di libri sconosciuti per me e via sempre innanzi. Ma tutta questa caccia e raccolta non bastava: spesso mi veniva voglia o bisogno d’imparar qualcosa e non sapevo a che porta battere. In quei casi le divine enciclopedie mi soccorrevano e allora, dopo aver trovato quel che cercavo, seguitavo a sfogliare il magico volume e leggevo qua e là con la sempre nuova contentezza di trovar sempre parole e notizie ancora ignote poco prima. [...]
Mi proposi dunque di fare un’enciclopedia che non solo contenesse la materia di tutte le enciclopedie di tutti i paesi e di tutte le lingue, ma le superasse e le sorpassasse; dove ci fosse tutto quel che in loro era disperso e sparpagliato e più ancora; e che non fosse solamente una ricopiatura e un rimpasticciamento di enciclopedie vecchie, ma un lavoro nuovo, fatto su dizionari, manuali e libri recenti e speciali, di tutte quante le scienze, storie e letterature.
Decisa la cosa non stetti con le mani in mano: la mia vita aveva una direzione; le lunghe ore di biblioteca avevano ormai un fine più grave e determinato. Mi posi al lavoro con focosa pazienza. Da quel giorno – era di luglio, in estate, nella stagione della libertà – ogni parola che cominciasse per a mi attrasse come il viso d’un amico. Tutte le massiccie enciclopedie, i voluminosi dizionari, i repertori usati e consunti, i vocabolari speciali furon tirati giù dalle assi degli scaffali per me, per me che copiavo e riassumevo e traducevo e sfogliavo con più lena e furia di prima. Oh quanto mi detter da fare tutti quei fiumiciattoli germanici che cominciavano per Aa – e quanti mai titoli di libri dovetti registrare per render conto di una dinastia di dotti olandesi, dei von der Aa – e come fu lunga e tediosa la lista delle abbreviazioni latine che comincian con A! In quei giorni fui preso da tenerezza per la città di Abila, lontana città sul mare; e vidi per la prima volta opere di legge per parlare con aria d’intenditore dell’abigeato. Risfogliai il vecchio testamento per ritrovare la pietosa Abigail e il profeta Abacuc; snidai ne’ commentatori di Dante la vita e le gesta dell’incendiario Bocca degli Abati; feci conoscenza con tutte le varietà dell’abete; mi erudii nella storia di Abbiategrasso e nella geografia dell’Abissinia.
Dapprincipio ricopiavo alla rinfusa su quaderni o pezzi di carta scompagnati e diversi – poi mettevo ogni cosa al pulito, in ordine, su carta ben rigata e levigata. Di giorno, in biblioteca, scrittura brutta, sformata, frettolosa, macchie, scarabocchi, e abbreviature – la sera, alla tremante fiamma della candela, la più bella calligrafia di cui ero capace, inglese e rotonda, con inchiostro nero e rosso; e la carta sugante sotto la mano sinistra… Che divertimento! Per star lì, gobbo e con poco lume, a scriver la mia enciclopedia avrei lasciato qualunque gioco e qualunque teatro – e anche, scommetto, un serraglio di bestie feroci che nelle fiere, era quel che mi tirava il cuore più d’ogni cosa.
Eppure anche quella impresa che magnificava me stesso, povero ragazzo ignorante, ai miei occhi e perfino a quelli de’ distributori di biblioteca che mi guardavano con una compassione venata d’ironia e di rispetto, mi venne a noia o, per dir meglio, mi spaventò per la perfezione che volevo raggiungere. Già lavoravo da un paio di mesi, e di mattina e nel pomeriggio sotto i finestroni infuocati e di sera sotto le lampade ad arco in un’altra biblioteca o al lume di candela in camera mia, eppure scrivi e riscrivi non ero riuscito a oltrepassare le parole che cominciavano per Ad. Un lunghissimo articolo sul furente Achille mi seccò. Costeggiavo la questione omerica; ero sull’orlo della filologia classica; parecchie parole greche (che non capivo) mi arenarono e mi umiliarono.
La ragione corse in aiuto alla stanchezza. Cominciavo allora a fiutare un po’ di filosofia, chissà in quali perfidi libri!, e cominciavo alla peggio a ragionare colle regole e a riflettere men grossamente che non s’addicesse alla mia età. Vidi dunque che la sapienza vera non consisteva nè poteva consistere in un accozzo alfabetico di notizie borseggiate qua e là da ogni parte; in un ammonticchiamento di raccattaticci e di copiature, ordinato meccanicamente ma senza soffio di vita nè anima di pensiero.
Abbandonai l’enciclopedia ma nello specialismo non volevo cascare: il mio dongiovannismo cerebrale mi tirava sempre indietro quando stavo per gettarmi in un solo amore. Ci voleva per me lo sterminato, il grandioso, la totalità delle cose, l’ampiezza dei tempi – la processione dei secoli e dei volumi.
Mi parve che la storia dovesse fare al caso mio. [...]
Ma nella mia storia ci doveva esser tutto: e passai allora dalle scienze alle cosmogonie. Codesto scrupolo di storico (non già storia dei soli fatti ma anche delle credenze sui fatti) ebbe grande effetto sui miei studi.
La mia curiosità si biforcò: cascai da una parte nella letteratura comparata e dall’altra nella religione. Nella religione prima di tutto. Non ci fu teogonia o mito cosmico ch’io non ricercassi e non riassumessi o ricopiassi per inzepparne il principio della mia storia.
Su nessuna però mi fermai come su quella degli ebrei. Avevo in casa una di quelle bibbie nere che trent’anni fa i protestanti inglesi vendevano in Italia per mezzalira (e nessuno le voleva): rilessi lì tutta la Genesi. Ma non bastava. Cercai in biblioteca i commenti più lodati, le sbrosce erudite più autorevoli sull’opera dei sette giorni, e concordisti cattolici ed eretici in combutta. Leggevo e sfogliavo libellacci spiritosi del settecento e apologie ristuccate alla moderna per dar soddisfazione ai seminaristi meno cretini; saggi francesi chiari e mussanti come la sciampagna e sodi panettoni filosofici ed esegetici alla tedesca, e articoli di dizionari e glosse lunghe e variolingue di bibbie poliglotte, senza saper discernere il sicuro dal sofistico e l’accertato dal supposto. Rifrugai anche negli zibaldoni verdi che avevo trovato nella cesta-libreria e persi a poco a poco il ricordo della causa prima delle mie ricerche per sperdermi nel dedalo, nel pelago e nel pruneto delle questioni bibliche.
Presi una cotta, ad esempio, per il tentativo concordatario: ebbi la pazienza di leggere il grosso libro di un tal Pianciani, eppoi il colossale Esamerone dello Stoppani e varie altre esercitazioni biologiche e scolastiche di gesuiti darwiniani o quasi. E mi venne allora un pensiero: tutti i commenti della Bibbia che si conoscono son fatti da preti, da vescovi, da teologi, da credenti – da credenti anche se son luterani o quaccheri o valdesi o sociniani. Manca invece, – cioè: credevo che mancasse – un commentario della Bibbia fatto da un razionalista, da un uomo positivo, da un miscredente disinteressato, da uno spirito libero che segua versetto per versetto tutti i libri del Testamento vecchio e nuovo e metta sotto gli occhi di tutti, senza eufemismi, gli errori, le contraddizioni, le bugie, le ridicolaggini, le prove di ferocia, di furfanteria e di balordaggine di cui son piene quelle pagine che dicono ispirate da Dio. Un simile commento, pensavo, farebbe assai più male alla fede che non le sfuriate ateistiche e le seccantissime controversie che sono il più dell’antiteologia moderna.
«Questo commento non c’è: lo farò io!»
Ormai le imprese grandi non mi facevan battere il cuore e questo, rispetto all’enciclopedia suprema, era un lavoretto da nulla, che potevo finire comodamente, pensavo, in un paio d’anni.
Cominciai seriamente: presi una grammatica ebraica e in capo a pochi giorni scrivevo già i grossi e contorti caratteri semitici ed ero capace di ricopiare i versetti del Pentateuco dall’originale. Raccolsi un materiale che a me pareva grandissimo e ammonticchiai ogni mattina e ogni pomeriggio roba nuova finchè un giorno mi parve abbastanza. Mi sentivo sazio e quasi nauseato da tanta arruffata erudizione: sentivo che se non riuscivo a darle una forma purchessia avrei lasciato ogni cosa lì – e per sempre.»

(Giovanni PapiniUn uomo finito, p. 18-25; la testimonianza si riferisce alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze)

Papini (1913c)

«Caro Giuliano: noi siamo oggi due uomini e non più due ragazzi. Abbiamo moglie e figlioli; abbiamo parecchi doveri; abbiamo, in un certo senso, cura d’anime. Eppure io credo che se qualcosa di meno falso è uscito mai dall’anime nostre; se qualcosa di noi resterà, dopo la morte, nelle anime altrui, lo dovemmo e lo dovremo a quelle fredde feste d’inverno, a quelle fughe in due verso la terra ignuda e l’altezza pura. [...]
Noi siamo accosto e lontani, amico mio, ed io non so nulla di te e tu non sai più niente di me.
Ma se ti rivedo seduto dinanzi ai banconi immensi e scarabocchiati della biblioteca, nelle mattinate e nei pomeriggi del lavoro appassionato, chino sui libri aperti, sulla carta apparecchiata, e risento la tua voce che mi chiedeva o mi rispondeva qualcosa (e si guardava intorno colla coda dell’occhio perchè l’uomo severo che gira su e giù non si avvedesse del nostro cicaleccio illegale) allora capisco ogni cosa e tu ridiventi mio, tutto mio, come in quei giorni lontani della nostra impaziente vigilia.»

(Giovanni PapiniUn uomo finito, p. 66-68; Giuliano va identificato con Giuseppe Prezzolini, che era solito firmare i suoi articoli pubblicati su «Leonardo» con lo pseudonimo di Giuliano il Sofista; la descrizione della biblioteca è verosimilmente da riferirisi alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze)

Pascoli (1898-1899)

«Il Pascoli attendeva allora, per l'editore Sandron di Palermo, a un'antologia scolastica, il Sul limitare, che uscì difatti nel 1899; e per questa antologia aveva bisogno di libri. E i libri chi poteva pensare il Pascoli glieli cercasse nella Biblioteca Governativa di Lucca, fornitissima, e glieli prendesse a prestito, e glieli mandasse o addirittura glieli portasse a Castelvecchio, più sollecitamente del ventenne Manarino scolaro? Le prime di queste lettere a me che qui si pubblicano riguardano appunto queste ricerche e richieste e questi pronti soccorsi.
Né a Lucca di giovani affezionati e devoti al Pascoli c'ero io soltanto; c'era anche, e proprio della Biblioteca Governativa, Gabriele Briganti, mio coetaneo e amicissimo. «Gabriele è il nostro arcangelo», mi diceva il Pascoli, pronto sempre a giocare e scherzare di nomi e soprannomi. Era di Ripafratta Gabriele, e tutte le sante mattine arrivava. «Questo libro, quest'altro» dicevo io; e se a Lucca il libro non c'era, si faceva venire di fuori. Un pascoliano più «attaccato» di lui al Pascoli (devo proprio dire così), credo non ci sia mai stato. [...]
La prima venuta del Pascoli in biblioteca, a Lucca, e il suo primo incontro con Gabriele furono il 19 dicembre 1896. Questa data deriva da un trafiletto di cronaca del giornale lucchese «Il progresso», scoperto da quell'infaticabile e sicuro ricercatore che è Felice Del Beccaro. Ricordo benissimo che il trafiletto («È stato qui in Lucca per ragioni di studio Giovanni Pascoli» ecc. ecc. Perciò la data va forse anticipata di qualche giorno: anche perché «Il progresso» era settimanale) lo scrivemmo al giornale, e quasi lo componemmo e imprimemmo sul torchio, io e Gabriele insieme.»
(Manara Valgimigli, Lettere di Giovanni Pascoli (1898-1906), in Uomini e scrittori del mio tempo, p. 253-268: 253-254)

«Caro Manara, affretta la copia e mandala con la nota delle spese di copiatura e di posta. Per carità! Se intanto hai trovato qualche cosa di bello o in versi o in prosa comunicamelo. Dì la stessa cosa al gentil Gabriele [Briganti]. Al quale dì pure che mi prepari allo stesso modo qualche poesia breve dello Shelley.»
(Giovanni Pascoli, lettera a Manara Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 17 agosto 1898, ivi, p. 254)

«Ho bisogno di dirozzare l'antologia. Perciò prendi dal cav. [Eugenio] Boselli i libri che mi ha fatto venire, più da Gabriele ciò che ti darà avvertendolo che dia l'indicazione anche dell'opera donde sono estratte le singole poesie. Anche di questa già tradotta dello Shelley non so nulla. Più prendi, se c'è, una edizione del Romancero del Cid, con traduzione, o almeno un'edizione del Berchet che abbia anche le traduzioni dallo spagnolo. Più prendi di che commentare un passo o due delle Storie Fiorentine del Machiavello (Congiura dei Pazzi - Tumulto dei Ciompi - Battaglia d'Anghiari) e specialmente lo studio dell'Alvisi sul Maramaldo e altro che tu trovi sulla battaglia di Gavinana. E tutto ciò che credi conveniente. Ma sopra tutto prendi i libri dal cav. Boselli, al quale presenterai questo biglietto. [...]
Per venire, [...] avvisami della tua venuta e io in queste belle notti di luna sarò a Campia a prenderti, con un ragazzo che porterà i libri e così in casa troverai preparata la cena opipara.
Saluta affettuosamente il nostro Gabriele. [...] A proposito, scrissi subito al Sandron che mandasse al tuo indirizzo i quattrini per il copista.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 31 agosto 1898, ivi, p. 255-256).

«Caro Manarino,
Fammi mandare qualche cosa, sopra tutto il David Lazzaretti di Giacomo Barzellotti. Ringrazia Gabriele e il cav. Boselli.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 19 settembre 1898, ivi, p. 256).

«Carissimo Manarino, avrei bisogno dell'Aleardi! Poverino, non mi mandare al diavolo!
Abbi un po' di quella pazienza che a me abbonda. [...]
Tante cose al nostro Gabriel e al cav. Boselli e al tuo caro babbo. Come faccio a commentare Curradino!
Dimmi subito subito che capitolo è in Villani il primo trascritto: Come il giovane Curradino a sommossa etc.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 25 settembre 1898, ivi, p. 257).

«Intanto procurami e mandami il Chiarini sulle Odi barbare e qualche altro libro analogo. Ma basta quello, a ogni modo. Ma subito.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 8 agosto 1899, ivi, p. 259).

«Ho bisogno urgente delle opere di Aristotele, con la trad. latina. Capisci perché. Se hanno a Lucca l'ed. Didot, quella; se no ingègnati; sopra tutto mi occorrono le opere di fil. morale. Se vuoi, vienmele a portar tu stesso; ma ricordati! siamo stanchi e puliti; sicché potremo farci poco onore.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 23 agosto 1899, ivi, p. 259).

«Ho ricevuto i libri. Li rimanderò presto. Aspettavo che tu dessi una capatina anche te, quassù.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 28 agosto 1899, ivi, p. 260).

«Caro Manarèn, se questa cartolina ti arriva in tempo, prima della tua partenza, fa di portarmi non un libro ma una libra... di parmigiano. [...] Ti aspetto con impazienza.»
(Pascoli, lettera a Valgimigli, Castelvecchio di Barga, 31 agosto 1899, ivi, p. 260).

Pascoli (1898-1900)

«Carissimo signor Briganti, mi faccia il favore – poiché è tanto buono – di dire al cav. [Eugenio] Boselli – che saluterà tanto – che mi faccia venire da qualche altra biblioteca un'edizione (credo, Gautier) della Chanson de Roland, e sopra tutto Canti Greci e Illirici del Tommaseo, e la Légende des Siècles di Victor Hugo. Ella mi raccolga, di grazia, sollecitamente qualche bel fiore esotico o semplicemente straniero – inglese, francese, tedesco – da tradursi o tradotto.
Mi aiuti! Dica tante care cose a Manara [Valgimigli]. Presto può darsi che mandi bozze da collazionare con buone edizioni – di Machiavelli e Varchi.
Riverisca il cav. Boselli [...].
Ci sono costì le opere (quali?) di G. Barzellotti? Specialmente il David Lazzaretti.»
(Giovanni Pascoli, cartolina a Gabriele Briganti, [Barga 19 agosto 1898], in Lettere agli amici lucchesi, p. 341-342. L'edizione comprende solo una scelta delle lettere a Briganti conservate).

«Dí qualche cosa a Gabriele, e avvisalo che avrò molto bisogno della biblioteca e di lui.»
(Pascoli, cartolina a Alfredo Caselli, [Messina 25 giugno 1900], in Lettere ad Alfredo Caselli (1898-1910), edizione integrale a cura di Felice Del Beccaro, [Milano], Mondadori, 1968, p. 50. Il volume delle Lettere agli amici lucchesi ne comprende solo una scelta).

«Mio caro Gabrielino, grazie del Chiarini. Grazie dei libri promessi. La morte d'Artù ce l'ho già e nella rid. e nella trad. del Teza. Vorrei qualcuna di quelle poesie uso Siamo sette di Wordsworth, che ho tradotta tralasciando l'insulsa prima strofa. Qualche cosa di Longfellow. Coraggio. Mi aiuti. E mi prepari, con l'aiuto del carissimo Antonio [Valgimigli] e del cav. Boselli, che speriamo di salutar presto comm., Plutarco nel testo Didotiano e nella trad. dell'Adriani; e il passo del Cavallotti delle due navi dei Mille perdutesi di vista, e la vita di Garibaldi del Guerzoni, e qualche cosetta d'agricolo o no, ma toscano. Io sono innamorato del Nieri. È de' primi. È superiore e di molto al Fucini. La sua madre che scrive al soldato è immensa. È già presa. Mi perdonerà, il Nieri, e mi darà querela per appropriazione indebita, ma dopo! Intanto lasci fare. Mi aiuti, dolce Gabrielino. E faccia presto a decidersi con Alfredo a fare la scampagnata e portarmi i libri – in quella valigetta nera che non so chi l'abbia –.»
(Pascoli, lettera a Briganti, Castelvecchio di Barga 18 luglio 1900, in Lettere agli amici lucchesi, p. 344-346. Di Giuseppe Chiarini aveva chiesto, in una lettera precedente, Le terze «Odi barbare» di Giosue Carducci, uscito nella «Nuova Antologia» del 1° novembre 1889).

«Dí al caro Gabriellino che mi mandi lo Zanella e l'Aleardi e L'agonia di Roma di N. Tamassia e i canti del Nieri.»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Barga 24 luglio 1900], in Lettere ad Alfredo Caselli, p. 56. L'ultimo riferimento è probabilmente a Idelfonso Nieri, Vita infantile e puerile lucchese, Lucca, Giusti, 1898).

«Carissimo Alfredo, non ho ricevuto il Tamassia. Lo consegnasti a un barrocciaio di Barga? Male! [...] Aspetto a gloria anche il Nansen. Ti scriverò poi a lungo, sí a te e sí al Betti [Adolfo] e sí a Gabriele. [...] Voglia Dio (non quello di Barga!) che oggi riceva il Nansen!»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Barga 8 agosto 1900], ivi, p. 58).

«Mio carissimo Alfredo, del Tamassia non si sa nulla. Ho fatto fare una piccola inchiesta a Barga: nulla. Al Ponte di Campia non fu davvero consegnato. Come è? Cerca di ritrovare l'infido e porco barrocciaio. Il Nansen? Oh!...»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Barga 10 agosto 1900], ivi, p. 59).

«Mio carissimo Alfredo, ho chiesto il Nansen a Roma. Ne ho bisogno per un poemetto riguardante la morte del re, da stampare sulla Tribuna. Non te ne occupar piú. Il Tamassia lo ebbi da Celestino [Conti barrocciaio] che è un galantuomo. Non ti affliggere. Io non ebbi impazienze, ma timore.»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Bagni di Lucca 12 agosto 1900], ivi, p. 60).

«Non so se t'abbia scritto che ho avuto il Nansen e che m'è tutt'altro che superfluo, perché da Roma non me l'hanno mandato. Speriamo di fare qualcosa di degno. E grazie. Uno di questi giorni rimando tutta la biblioteca.»
(Pascoli, lettera a Caselli, Castelvecchio 17 agosto 1900, ivi, p. 61-62).

«Presto spedisco i libri a te, che li darai poi a Gabrielino.
Va bene? Scusa il tuo povero amico pieno di brighe e molto desideroso, e molto invano, di pace e di sonno.»
(Pascoli, lettera a Caselli, Castelvecchio 11 settembre 1900, ivi, p. 69).

«Dí al caro Gabrielino che sto incassando i libri del Boselli.
Digli che gli scriverò.»
(Pascoli, lettera a Caselli, Castelvecchio di Barga [27 settembre 1900], ivi, p. 74).

«Saluta Gabrielino al quale oggi o domani mando il Guerzoni e l'opuscolo.»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Barga 13 ottobre 1900], ivi, p. 76).

«Caro Alfredo, ti mando i libri che vorrai consegnare a Gabrielino. Manca l'opuscolo di Nino Tamassia che manderò domani per posta.
[...]
Digli che riscontri, a Gabrielino.»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Castelvecchio ottobre 1900], ivi, p. 77).

Pascoli (1901)

«Senti: ho bisogno immediato della lettera che è stata stampata dal Corriere (mi pare), della moglie di Tolstoi. Avrei bisogno di qualche romanzo del Tolstoi o, in genere, di qualche particolare sulla sua scomunica... Mi frulla in testa un grand'inno...
(Giovanni Pascoli, lettera a Alfredo Caselli, Castelvecchio 26 marzo 1901, in Lettere ad Alfredo Caselli (1898-1910), edizione integrale a cura di Felice Del Beccaro, [Milano], Mondadori, 1968, p. 108. Il volume delle Lettere agli amici lucchesi ne comprende solo una scelta).

«Oggi spero di mettermi alla mia poesia russa. Perché non mi hai mandato il II di Resurrezione? E ti ringrazio.»
(Pascoli, lettera a Caselli, Castelvecchio 3 aprile 1901, ivi, p. 110).

«Caro Gabriele, mi procuri degli altri pezzi, cioè procurami lettere, traduzioni, di tutto un po' o un bel po'. Consegna i mmss. ad Alfredo [Caselli]. Aiutami, giovane saggio. [...] I miei ossequi al cav. Boselli.»
(Pascoli, cartolina a Gabriele Briganti, [Barga 3 aprile 1901], in Lettere agli amici lucchesi, p. 348. L'edizione comprende solo una scelta delle lettere a Briganti conservate).

«Credo d'aver messa la mano su un soggetto che chi lo musicherà, farà correr brividi d'entusiasmo doloroso per l'Italia. Mi ci metterò al mio ritorno; avrò bisogno anche di te, per giornali e libri. [...]
Ringrazia Gabriele al quale scriverò.»
(Pascoli, lettera a Caselli, Messina Calendimaggio 1901, in Lettere ad Alfredo Caselli, p. 120).

«A proposito, ti scrivo per dirti che il 2 Giugno, pregato, seccato, ripregato, riseccato farò al Teatro qui a Messina una commemorazione di Garibaldi. E forse dentro il mese di Giugno metterò fuori un piccolo poema garibaldino, se non altro per rivendicare a me il mio. [...] Avrei bisogno che tu, senza dire che è per me, cercassi costí, in biblioteca, da librai o che so io, qualche cosa di particolare sulla fuga di Garibaldi e sulla pineta di Ravenna, che ho veduta ma di cui ho bisogno per anche rinfresco di memoria; e ho fretta.»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Messina 18 maggio 1901], ivi, p. 121).

«Della biblioteca di Lucca avrò grande bisogno. Gabriele mi sia propizio!»
(Pascoli, lettera a Caselli, Messina 24 giugno 1901, ivi, p. 128).

«Avrei bisogno di libri, anche voluminosi, della Bibl. di Lucca; ma come si fa? Già tu m'imbarazzi non lasciandomi pagare: cosí non m'arrischio piú.
[...]
In questo momento arrivano tre volumi, il Ricci e due Guerzoni. Grazie! Ma e l'incomodo? e la spesa?»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Castelvecchio] 16 [luglio 1901], ivi, p. 136).

«Ho bisogno urgentissimo di "Virgilio nel Medio Evo di Domenico Comparetti". Fa di portarmelo. Dillo a Gabriele. Cosí digli che mi cerchi qualche cosa sulle interpretazioni mistiche dell'Eneide, Fulgenzio etc.»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Barga 29 agosto 1901], ivi, p. 157).

«Ho ricevuto l'Alunno, che subito mi è utile per certe cose astrologiche dantesche. Lo cito subito.»
(Pascoli, lettera a Caselli, Castelvecchio 19 settembre 1901, ivi, p. 166).

Pascoli (1902-1903)

«Io avrò bisogno, nelle prossime vacanze autunnali, di molto aiuto suo per i miei studi. Ora vorrei la Notte di Dante (cosí mi pare intitolata) del Marchetti, che m'inebbriò nella mia giovinezza urbinate e che mi occorre ora per un poemetto. La troverà in Antologie vecchie, se non nelle opere del Marchetti. Volevo metterla nel Limitare, ma me ne dimenticai.»
(Giovanni Pascoli, lettera a Gabriele Briganti, [Barga] 1° aprile 1902, in Lettere agli amici lucchesi, p. 349. L'edizione comprende solo una scelta delle lettere a Briganti conservate).

«Caro Gabriele, sto per tornare a darle noia. E comincio subito. Avrò bisogno subito delle seguenti opere:
  Evangelia apocrypha per Tischendorf. Lipsia 1853.
  Fabricius – Codices apocryphi Novi Testamenti.
  Birch – Auctarium.
  Mansi. Miscellanea del Baluzo, Lucca, 1764.
Sono, almeno alcuni, nella sua biblioteca. Se non c'è il primo, vorrei che il cav. uff. Boselli (che saluterà) me lo facesse intanto venire; in modo che il 27 prossimo potessi farci alcuni brevi riscontri e studi su.
[...]
Mi saluti caramente il signor Antonio [Valgimigli], che apporrà, nel caso, la firma per me.»
(Pascoli, lettera a Briganti, Messina 22 giugno 1902, ivi, p. 350).

«Tra l'altro ho bisogno di disegni, costumi, didascalie per un libretto che ho compiuto; e mi ci vuol la biblioteca e... Alfredo Caselli».
(Pascoli, lettera a Alfredo Caselli, Castelvecchio di Barga 1° agosto 1902, in Lettere ad Alfredo Caselli (1898-1910), edizione integrale a cura di Felice Del Beccaro, [Milano], Mondadori, 1968, p. 366-367. Il volume delle Lettere agli amici lucchesi ne comprende solo una scelta).

«E se vengo [a Lucca], vengo in un giorno di lavoro, non di festa, perché devo prender molti appunti e molte misure in biblioteca. E Gabriele? Anche di lui aspetto notizie a gloria!»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Castelvecchio di Barga 12 agosto 1902], ivi, p. 373).

«Per venire, ho bisogno di sapere che Gabriele non è impedito da ragioni familiari di venire in biblioteca ed assistermi e fare qualche ricerca per me. [...]
Io, vedi, per venir da te, ho bisogno d'aver finiti certi lavori e d'aver certe notizie, come quella di Gabriele.»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Castelvecchio] 13 agosto 1902, ivi, p. 374).

«E dí a Gabriele che ho bisogno urgente dei comenti danteschi di Piero e di Jacopo di Dante, e del Boccaccio.»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Castelvecchio di Barga 15 novembre 1902], ivi, p. 417).

«Non è mica il comm. quell'edizione di Gabriele! Pur glie ne sono gratissimo; perché è bello e utile libro.»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Barga 26 novembre 1902], ivi, p. 421).

«Dí a Gabriele, dei libri plautini.»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Lucca 4 gennaio 1903], ivi, p. 441).

«Caro Gabrielino, tante cose a Giovannino che dica al suo babbino, che all'altro Giovannino bisogna un libriccino (Studi sulla letteratura latina arcaica di Enrico Cocchia, Napoli, Pierro) subito subito subito.
Tanto che sarebbe bene me lo facesse comprar sull'istante a mie spese. Così se trova – qualche altra cosa di Plautino, lo mandi a Giovannino».
(Pascoli, cartolina a Briganti, [Castelvecchio di Barga 12 gennaio 1903], in Lettere agli amici lucchesi, p. 352).

«Caro Gabriele, dica a Dantino Gabrielino Giovannino che dica al suo babbo:
«Grazie di tante piante che quasi tutte hanno tenuto [...].
Ora quel Giovanni a cui mandasti tanta bella roba ha bisogno urgente parte per la sua prolusione parte per certi suoi lavori poetici, delle seguenti notizie e opere,
1. Vorrebbe la vita di Paolo Uccello nel Vasari, o qualche opera che ne trattasse di proposito. Specialmente vorrebbe sapere i nomi degli uccelli quali esso li chiamava a' suoi tempi. Si può?
2. Vorrebbe l'opera di Carlo Pascal intitolata: Fatti e leggende di Roma antica. Firenze, Le Monnier 1903.
E quel Giovanni protesta che di qui a poco passando per Lucca pagherà e questo e altri suoi debiti librari. [...]».»
(Pascoli, lettera a Briganti, [Castelvecchio] 14 aprile 1903, ivi, p. 353-354).

«Parlane a Gabriele, dal quale aspetto a gloria due libri ultranecessari.»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Castelvecchio di Barga] 18 aprile 1903, in Lettere ad Alfredo Caselli, p. 483).

«Sono in pensiero per la mancanza di notizie di Gabriele Briganti dal quale aspetto due libri a me ora ultra necessari, e il quale mi ha scritto d'essere stato malato. Come sta ora?»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Castelvecchio di Barga 30 aprile 1903], ivi, p. 488).

«Caro Alfredo, se vedi Gabriele digli che il Vasari l'ho avuto d'altra parte e non mi bisogna piú. Ma il resto?»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Barga 4 maggio 1903], ivi, p. 490).

«Avrò bisogno di libri. Avvisa intanto Gabriele II.»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Castelvecchio] 12 settembre 1903, ivi, p. 521).

«Da Gabriele ho bisogno dei frammenti di Empedocle (ci deve essere un volume di Didot che li comprende tra altri o filosofi o poeti) e d'altro.»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Castelvecchio di Barga 14 ottobre 1903], ivi, p. 532).

Pascoli (1905-1909)

«Ti aspetto. Gabriele Briganti ha due libri (in tre volumi) da consegnarti per me. Fa dunque presto.»
(Giovanni Pascoli, cartolina a Alfredo Caselli, [Castelvecchio di Barga 5 marzo 1905], in Lettere ad Alfredo Caselli (1898-1910), edizione integrale a cura di Felice Del Beccaro, [Milano], Mondadori, 1968, p. 688. Il volume delle Lettere agli amici lucchesi ne comprende solo una scelta).

«Dire a Gabriele, se in questi giorni è aperta la biblioteca e quando si chiuderà.
Dirgli, che mi provveda, intanto, se non proprio i libri almeno cataloghi e indicazioni di libri di Folklore; novelline, superstizioni, costumi popolari etc.: specialmente stranieri
(Pascoli, biglietto a Caselli, [Castelvecchio luglio/agosto 1905?], ivi, p. 725).

«Domani, lunedí, poco dopo mezzogiorno, passeremo da Lucca, diretti a Pistoia Bologna. Avremo con noi certi libroni (quelli della Bibl. di Brera li abbiamo spediti per p.p. al comm. Fumagalli) degli italiani all'estero [...]».
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Barga 5 novembre 1905], ivi, p. 717).

«Passa l'acclusa nota a Gabrielino, e fa che risponda subito subito. Io qua non ho carte né giornali per riscontro.»
(Pascoli, lettera a Caselli, Bologna 24 febbraio 1906, ivi, p. 734. La nota è quella trascritta di seguito).

«Mio buon Gabriele, ho bisogno che ella mi trovi subito le date dei seguenti fatti:
Quando (giorno, mese, anno) il principe Giorgio si diresse con la flotta ellenica verso Creta?
Quando (giorno, mese, anno) morì a Domokós Antonio Fratti?
Quando (giorno, mese, anno) morì Manlio Garibaldi?
Quando finì la guerra di Cuba, e furono riportate le ceneri di Colombo?
Quando fu ucciso re Umberto? In che numero del Marzocco fu stampato il mio inno?
Può trascrivermi il preambolo in prosa che c'era stampato [il seguito della frase è cancellato].
Quando il ritorno della spedizione artica di Luigi di Savoia?
Quando fu inaugurato in Messina il monumento alle batterie siciliane?
[...]
Se qualche data non può essere da lei completata, la mandi come può, ma subito.
Mi trovi nella Minerva settimanale del Garlanda la nota che misi alla poesia – A Ciapin – e me la trascriva.»
(Pascoli, lettera a Gabriele Briganti, [Bologna 24 febbraio 1906], in Lettere agli amici lucchesi, p. 356-357. L'edizione comprende solo una scelta delle lettere a Briganti conservate).

«Ho scritto a Gabrielino. Farà?»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Castelvecchio] 22 marzo 1907, in Lettere ad Alfredo Caselli, p. 763. Pascoli aveva chiesto a Briganti, con una lettera del 20 marzo non inclusa nel volume di Lettere agli amici lucchesi, pubblicazioni sulla Versilia per preparare la commemorazione di Carducci).

«Mio caro buon Gabriele, io avrò bisogno martedì dopo Pasqua a Lucca, dove sarò di passaggio, di qualche libro. Sarebbe bene tenerli pronti sin d'ora, specialmente se la biblioteca sarà chiusa quel giorno. Avrò bisogno di elementi storici e coloritivi della battaglia di Legnano e in generale del carroccio e più in generale di istituzioni militari e politiche, imperiali e comunali.
Avrò bisogno di monografie e biografie storiche del nostro risorgimento... Ma forse di queste farò a meno.
Avrò bisogno di Sofocle. Il mio l'ho a Bologna.
Avrò bisogno sopra tutto di Gabriele il buono, di Gabriele il savio, di Gabriele il bravo, di Gabriele padre di Giovannino. Ai quali mando ringraziamenti e saluti.»
(Pascoli, lettera a Briganti, Barga 27 marzo 1907, in Lettere agli amici lucchesi, p. 359).

«Caro Alfredo, partiamo domani mercoldí 3, e passeremo da Lucca verso il tocco pomeridiano. Porteremo i libri di Gabrielino. [...] Avvisa il gentile Brigantino. Vorrei parlargli.»
(Pascoli, cartolina a Caselli, [Bologna 2 luglio 1907], in Lettere ad Alfredo Caselli, p. 767).

«Nel caso, dunque, probabile che quest'altro anno io non sia piú professore a Bologna, in te, oso credere, l'entusiasmo per Bologna diminuirebbe... L'essere poi invece, per buona parte dell'anno, a Castelvecchio, e di quando in quando qualche settimana a Lucca per studi in biblioteca, [...] ti farebbe, sin d'ora, apparire piú bella la libreria a Lucca con succ. a Massa, o viceversa...»
(Pascoli, lettera a Caselli, [Bologna 11 marzo 1909], ivi, p. 824).

Pasolini (1941)

«Sono, ora, preso nel vortice di una nuova occupazione, l'esercitazione d'italiano: le Rime del Tasso dopo S. Anna: la bibliografia è immensa, sono ormai in totale quattro ore di lavoro in biblioteca, solo per annotare e guardare che libri vi siano intorno a questo argomento.  È questo il classico lavoro universitario, fatto per puro senso di retorica e di erudizione, da cui aborro e che stroncherò, con atto di coraggio, sul viso stesso al prof. Calcaterra, quando pronuncerò la mia relazione. Cosa può importare a me, che idolatro Cézanne, che sento forte Ungaretti, che coltivo Freud, di quelle migliaia di versi ingialliti ed afoni di un Tasso minore?»

(Pier Paolo Pasolini, lettera a Franco Farolfi, [Bologna inverno 1941], vol. 1, p. 28)

Pasolini (1952)

«Caro Nico,
molto bene per l'inchiesta: uscirà nel primo numero. Per la tua tesi: le letterature dialettali che hanno origine nel '300 sono la friulana, la genovese, l'umbra, la siciliana, la veneziana. Ma nel '300 c'è tutta una poesia «macheronica» interessantissima. Per avere un’idea delle dialettali va in biblioteca e dà un'occhiata alla Treccani; per la «macheronica» leggi sul numero di aprile del 1951 lo studio di Contini Preliminari sulla lingua del Petrarca (che è meraviglioso). La tua tesi si potrebbe intitolare per es. «Testi della poesia dialettale genovese (o umbra, ecc.) delle origini», e consistere in un'edizione critica dei testi con note filologiche e letterarie.* Tieni presente l'antologia del Sapegno uscita in questi mesi, e come orientamento generale studia la poesia realistica del '300, sulle orme di L. Russo (che per es. ha pubblicato presso Laterza le poesie dei notai perugini del XIV sec. –  che a noi, dati i loro oggetti, interessano moltissimo, fra l'altro... –). Intanto continua a fare ciambelle, col buco o no. E manda pure a Betocchi, perché no?, il libro di Elio.
Un affettuoso abbraccio                                                        Pier Paolo

* Potrebbe essere la base di una futura antologia per Guanda da farsi insieme noi due.»

(Pier Paolo Pasolini, lettera a Nico Naldini, [Roma dicembre 1952], vol. 1, p. 510)

Pasolini (1953-1954)

«Caro Ciceri,
t'incalzo con uno stillicidio di favori, perdonami. Sto impazzendo col mio lavoro (sai che fra l'altro la Nazionale di Roma è crollante, oltre che disordinata: sí che adesso per due settimane è del tutto chiusa). Avevo chiesto alla [Novella Aurora] Cantarutti (come sai) di farmi avere in prestito un libro di suo possesso (il Chiurlo) e uno della biblioteca di Udine (Ive A., Canti popolari istriani, Roma 1877): mi è arrivato proprio ieri il solo Chiurlo. Ora tu dovresti andare in biblioteca [a Udine], ritirare per tuo conto il volume dell'Ive e spedirmelo subito. Entro tre o quattro giorni al massimo lo riavresti. Puoi farlo? Ti chiedo di nuovo scusa, e ti stringo con tutto l'affetto la mano»

(Pier Paolo Pasolini, lettera a Luigi Ciceri, Roma, 25 settembre 1953, vol. 1, p. 601).

«Caro Leonetti,
qui si parrà la tua nobilitate. Oggi ho avuto in biblioteca il colpo di grazia: per quindici giorni la Nazionale [di Roma] è chiusa a tutti gli effetti.
Io devo consegnare l'Italia Sett. a Guanda il 10 ottobre: sono perciò alla disperazione. Mi aggrappo a te, non potresti richiedere per te, o fingere che richieda Roversi, i libri di cui ti ho dato l'elenco, e mandarmeli privatamente [da Bologna]? Hanno fatto questo per me già degli impiegati alla biblioteca di Udine (la Cantarutti, ch'è mia amica) e di Venezia (lo Sguerzi, che conosco attraverso mio cugino): perché tu non lo potresti fare? Bada che in pochissimi giorni avresti i libri intatti, con la massima puntualità e esattezza. Sono veramente angosciato di gettare sulla nostra rinascente amicizia questa maledetta ombra: sono certo però che la «rinascente amicizia» resisterà. Mi sei stato simpaticissimo: tu e tutta la tua famigliola. Una miglior riuscita sentimentale non potevi avere.
[...] Ah, dimenticavo: mandami i dati (stavo per dire bibliografici) di quel tuo meraviglioso sapone per barba.»

(Pier Paolo Pasolini, lettera a Francesco Leonetti, [Roma] 25 settembre 1953, vol. 1, p. 602).

«Carissimo Leonetti,
è stata proprio la disperazione di una decina di giorni fa a farmi scrivere quella lettera, di cui poi mi sono cosí atrocemente pentito, soprattutto per il ricatto, che potevo davvero risparmiare. Comunque tu esci trionfante: con tutta la «nobilitate» piú che parsa, esplosa. Lo dico scherzosamente, ma non scherzo. Accetto in pieno la tua lezione sulla pazienza da esercitarsi sopra le biblioteche: stavolta è stato un attacco frontale, garibaldino. La prossima volta sarò Fabio Massimo. Intanto non soffrire: i libri sono giunti e in parte utilizzati, fra pochi giorni faranno ritorno a Bologna, e la loro avventura sarà felicemente terminata».

(Pier Paolo Pasolini, lettera a Francesco Leonetti, Roma 5 ottobre 1953, vol. 1, p. 609).

«Caro Leonetti,
un rapidissimo biglietto, tra gli ingranaggi della mia giornata in cui vivo coi soli nervi: ti spedisco finalmente il pacco, dopo il previsto. Tengo ancora per due o tre giorni il Visconti...»

(Pier Paolo Pasolini, lettera a Francesco Leonetti, Roma 29 ottobre 1953, vol. 1, p. 612).

«Caro Contini,
le Sue lettere hanno sempre un potere magico: inoculato di gioia, è una settimana che non mi accorgo del vecchio travaglio ferroviario e scolastico: Ciampino è a due passi, i miei scolari dei geni, i pischelli suburbani dei fiori. Si è placato perfino il rancore per le crepe della Nazionale, da cui il mio lavoro – orgia e orgasmo, sulla poesia popolare per una nuova antologia guandiana – è inceppato...»

(Pier Paolo Pasolini, lettera a Gianfranco Contini, Roma 22 novembre 1953, vol. 1, p. 616).

«Caro Sereni,
ti mando finalmente «il canto popolare»: ho cosí tardato un po' perché volevo lasciar depositare le ultime correzioni e vedere se funzionavano, ma soprattutto perché dovevo citare alcuni versi popolari, piemontesi e siciliani, da libri che si trovano solo alla Nazionale, e la Nazionale era chiusa: adesso poi che è aperta quei libri sono in prestito...»

(Pier Paolo Pasolini, lettera a Vittorio Sereni, Roma 2 gennaio 1954, vol. 1, p. 627).

Pasolini (1960 circa)

«Ho letto Cecchi e Montale nel '38 (a sedici anni) e subito dopo il Sentimento del tempo e il Sole a picco; poi ho messo tutto insieme la «Voce», la «Ronda» e «Solaria», riempiendo con la mania dell'adolescenza più disagiata che si possa immaginare interi quaderni di elenchi di autori «contemporanei» da leggere. Ma il ciclo di letture più completo di quel periodo di escluso, nella viziosa biblioteca dei portici del Pavaglione, fu quello sull'impressionismo francese, con la guida di Soffici, che del resto, in Rete mediterranea, fu il primo a indicarmi l'Allegria. Sui banchi lisci e nemici della biblioteca, in ore di metafisica emicrania, passarono sotto i miei occhi in disordine i numeri e le edizioni della «Voce»; la più estrema modernità fu per me la disperazione anti-borghese dei Boine e anche dei Papini.»

(Pier Paolo Pasolini, appunto dattiloscritto per Passione e ideologia (1960), poi non incluso nel volume. Dai Saggi sulla letteratura e sull'arte, tomo secondo, p. 2920-2921)