L&L si propone di raccogliere e mettere a disposizione testimonianze di ogni genere relative all'utilizzazione di biblioteche di
qualsiasi tipo, contenute in scritti autobiografici, diari, memorie, interviste, carteggi, ecc., ma senza escludere testi narrativi o creativi (romanzi, poesie), per restituire la dimensione soggettiva ed esperienziale, sia positiva sia negativa, dell'uso delle biblioteche.
Sono comprese, quando è utile, anche fonti un po' diverse come articoli di giornale, inchieste, materiali promozionali, ecc.
Alle testimonianze si affianca una scelta di documentazione iconografica (utilizzabile anche a scopo didattico), relativa alle biblioteche considerate, ai loro locali e alle loro attrezzature, indispensabile per la piena comprensione delle testimonianze stesse.
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Perri (1960)
«Il mio libro più felice e quello che mi è più caro, perchè nato nella contingenza più drammatica della mia vita, è senza dubbio Emigranti. Vi dirò come lo scrissi.
La mattina del 17 settembre del 1926 uscivo dalla Direzione delle Poste di Milano, dopo avere riscosso l'ultimo mio stipendio d'ispettore. [...] Il governo mi aveva messo in pensione d'autorità ai sensi della legge n. 2300, del 24 dicembre 1925 prima del periodo prescritto, sotto l'accusa di nutrire sentimenti contrari al fascismo e di professare idee in senso repubblicano (autentico!). Uscii su la piazzetta davanti alla banca d'Italia come uno che si trovi improvvisamente davanti al famoso bosco dantesco «che da nessun sentiero era segnato». Quarant'anni, quattro bambini, davanti a me l'oscuro avvenire e un governo onnipotente e nemico. Nelle medesime condizioni e nello stesso giorno un giovane procuratore del re si chiuse in casa e si tirò un colpo di rivoltella; io decisi di scrivere un romanzo da presentare a un concorso entro tre mesi. Sembrava una pazzia: io la tentai e mi misi all'opera.
Al primo di ottobre, nella sala riservata della biblioteca universitaria di Pavia, sul primo foglio di una risma di carta vergatina per macchina scrissi: Emigranti, capitolo primo. La sera del 30 dicembre, mentre squillava la campanella di chiusura della biblioteca, io scrivevo le ultime parole del penultimo capitolo: Viva Maria!
Rientrai in casa più nero della mia giacca.
– Non hai finito? – mi chiese mia moglie, angosciata.
– Non ho finito, ma debbo finire. Non mi disturbate! . . . - E mi sedetti alla scrivania.
[...]
La sera del 17 dicembre 1927 (quanti diciassette fausti e infausti) [...], al braccio di Virgilio Brocchi entrai nel salone della Casa Ed. Mondadori per essere presentato all'editore e al senatore Borletti. Così da burocrate diventai scrittore.»
(Francesco Perri, testimonianza per Ritratti su misura, p. 329)
Pertini (1969-1971)
«Ella ha parlato anche della biblioteca [della Camera]. Noti che la nostra è, fra le biblioteche parlamentari, una delle più fornite. Abbiamo circa 800 mila volumi e ci avviciniamo al milione.
Sennonché tutti sanno quale sia il dramma della nostra biblioteca, onorevole Niccolai. È da qualche anno che ci stiamo preoccupando di trasferirla in altri locali, non soltanto al fine di migliorare il servizio per i deputati, ma anche perché il peso dei libri all’ultimo piano di un antico palazzo è fonte di gravi preoccupazioni per la sua stabilità.
Della stessa preoccupazione si è fatta carico la Presidenza della Camera anche nell’altra legislatura. Devo dare atto al mio predecessore di quanto egli se ne sia preoccupato. Forse si dimentica troppo presto quello che hanno fatto i Presidenti precedenti, e in modo particolare si dimentica l’opera onesta, paziente, diligente del Presidente Brunetto Bucciarelli Ducci. (Applausi).
Io ricordo che il Presidente Bucciarelli Ducci si è sempre preoccupato della biblioteca e aveva l’intento di trasferirla in altra sede. Abbiamo fatto un concorso, ma è andata male. Gli architetti che hanno concorso ci hanno presentato dei progetti che non sono risultati idonei anche perché non è facile edificare sull’area di cui ha parlato il questore De Meo. Ora, comunque, stiamo cercando di esaminare le possibilità di acquistare un palazzo qui vicino e mi auguro che questo edificio si renda disponibile, perché potremmo trasferirvi la biblioteca e offrire maggiori servizi ai deputati.».
(Sandro Pertini, Discorsi parlamentari, seduta del 23 luglio 1969, p. 200-206: 202).
«È indispensabile, poi, costruire un nuovo palazzo per la biblioteca, la quale nella situazione attuale non è più funzionale a causa della mancanza di spazio. Molti libri, infatti, non trovando più posto in essa, sono stati trasferiti nel sotterraneo, e non possono essere rapidamente consultati. Inoltre il problema è urgente anche per non compromettere la statica del vecchio palazzo Montecitorio e non mettere a repentaglio la sicurezza di noi tutti.»
(ivi, seduta del 22 luglio 1971, p. 236-238: 237. Soltanto nel 1979, con delibera dell’Ufficio di Presidenza del 15 marzo, fu stabilito il trasferimento della biblioteca in via del Seminario, nel complesso dell’ex convento dei domenicani di Santa Maria sopra Minerva, già in uso al Ministero delle poste e telecomunicazioni).
Petrocchi (1981)
«L'acuta e vivissima personalità di [don Giuseppe] De Luca andava conosciuta, peraltro, soprattutto su un piano di ritratto d'uomo. Altri potrebbe ricordarlo nella redazione dei giornali, negli studi dei pittori; piace a me rammentarlo nella sala dei manoscritti della Biblioteca Vaticana, nel luogo dove aveva studiato per quasi quarant'anni: non alto, nervoso, coi capelli ancora nerissimi, due occhi aguzzi, passava quasi di corsa tra i banchi della Biblioteca, la berretta in capo, la mantella svolazzante, sollevando una folata di vento; e poi chino sui codici: quante cose sapeva, e come la vastissima erudizione diveniva umana, nelle sue parole e negli scritti, quasi un personaggio vivente.»
(Giorgio Petrocchi, Don Giuseppe, in Segnali e messaggi, p. 147-150: 147-148).
«Del resto le amicizie difficili sono sovente le più utili, poiché nella quiete dopo la tempesta del «maledetto toscano» trovavi fluire paciosamente il comune interesse, anzi culto di Dante, e l'elargizione dell'animus di [Bruno] Nardi diveniva illimitata, deputata più al dono che allo scambio delle proprie acquisizioni, disponibile sempre e comunque, paziente ascoltatore dei tuoi guai di filologo e d'erudito in cerca d'un bandolo, fluente narratore dei propri lavori e scoperte in un modo estremamente singolare, non solo, come ha ricordato Gregory, presupponendo un interlocutore al suo stesso livello, ma pur anco quando t'aggrediva sulle scale della Vaticana, e tu restavi incapace di raccapezzarti nel ricordare a che punto del discorso era arrivato nell'incontro precedente, ché egli imperterrito riprendeva la sua storia erudita come si fosse fermato soltanto un momento per accendere il sigaro o scrollarsi la cenere dal gilè, e non fosse invece trascorso magari un mese dall'incontro precedente.»
(Giorgio Petrocchi, Ser Brunetto, ivi, p. 113-120: 114).
Petrocchi (1982)
«La grandiosa crociera del Collegio Romano, mi dicono con certezza, non è più. Spoglia dei suoi antichi libri, accecata nelle dorate costole degli infolio cinquecenteschi, la crociera di quella che era stata la biblioteca dei Gesuiti e, dal 1870 [!], la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, giace scheletro lugubre nel centro della città, nell'ònfalo delle raccolte librarie di Roma. Saturno divora i suoi figli: uno dei suoi tesori, e poche forse una sola (ch'io sappia), le voci che si sono levate a rammaricarsi della spoliazione. Che bisogno c'era? Quei libri potevano essere consultati sul posto, oppure un giorno per l'altro nel grande edificio di Castro Pretorio. [...]
La crociera serbava intatta il mistero d'un immenso padiglione sacrale dove era raro si potesse penetrare e mai sostare, silenziosi, quasi spauriti da quel lungo alto filare ricolmo di libri. La luce pioveva catacombale dai finestroni, eppur sufficiente a giuocare d'ombra e di penombra tra i palchetti. Togliere un libro dallo scaffale, scorrere qualche pagina, riporlo, dava il sentimento proibito di violare un tesoro a pochi noto, come se gli schedari non ne potessero tramandare l'identità, e dal tempo dei padri Gesuiti alcun'anima viva non fosse penetrata in quelle volte ecclesiali, da una remota età in cui la crociera del Collegio Romano era una silenziosa officina di studiosi adusati a quegli arcani penetrali.
Eppure il misterico adito era di pochi. Mentre è di tanti la memoria delle sale di consultazione. Sulle scalette che conducevano ai tavoli, dinanzi alle lampade verdi, o sul ballatoio che girava tutt'intomo alla sala A, nel lungo percorso della B, nel rettangolo più rumoroso della C, si è consumata una gran parte della nostra giovinezza, si sono compiuti indimenticabili incontri. Una giovinetta era sommersa dietro la pila dei libri di Bacchelli, e svariava lo sguardo verso la finestra, in giro per gli scaffali, ravviandosi i capelli, pensosa (forse pensosa del destino dei personaggi del Mulino del Po?). Si tratteneva pochi minuti Trompeo, quanto era necessario per rintracciare una citazione da un libro che, pur possedendone tanti, in casa non aveva: sorridente, soave «lettore vagabondo» dal volto affilato, il «cranio buzzurro» (come egli stesso l'appellava) dai capelli tra bianchi e biondocenere, il bastone col pomo d'argento sul quale s'appoggiava anche da fermo, con un po' di civetteria. Anche Antonio Baldini si fermava poco, prima di recarsi lì di fronte, nell'ufficio della Nuova Antologia. Era già mattino avanzato quando arrivava Angelo Monteverdi, col viso cotto dal sole e la splendente chioma argentea; un brusìo delle fanciulle accompagnava il suo passaggio. Stazionava un intero pomeriggio Bruno Nardi (al mattino di scuola al Tasso) e riprendeva la conversazione dallo stesso punto in cui l'aveva lasciata in sospeso un mese prima.
Ma erano gl'incontri dei coetanei che, in definitiva, contavano di più: guardinghi negli anni Quaranta in quel via vai di persone, ma non tanto da lasciare da canto i timori, le speranze (siano ricordati soltanto quelli che non sono più: Giaime Pintor, Niccolò Gallo, Ruggero Jacobbi, Carlo Salinari, il fratello Giambattista). Proprio all'uscita della Nazionale, in un negozio di radio che era all'angolo di via del Caravita, sentimmo la notizia dell'invasione tedesca in Belgio e in Olanda. Non ci restò che rientrare sgomenti nella Nazionale, e fermarci nel cortile dell'Emeroteca, donde si scorgevano le alte mura dell'Osservatorio Astronomico di padre Secchi, e un manto di edera cadeva a strapiombo sulla robusta fiancata secentesca. La fontana del cortile crosciava nel silenzio che s'era fatto improvvisamente tra noi, quel tardo mattino del 10 maggio 1940. La nostra giovinezza era morsa dalla certezza d'un evento violentissimo che ci avrebbe travolti, scompaginati per l'Europa e l'Africa (uno di noi, colui al quale era stabilita dal fato la fine più atroce, Ferdinando Di Maio, sarà gettato vivo dai tedeschi nel mare di Cefalonia, cucito in un sacco; Ferdinando, come ti entusiasmavi ai versi delle Occasioni! E tu Astolfoni, saresti finito nei ghiacci dell'ansa del Don). [...]
Addio, dunque, crociera; addio, sale A, B, C. Non ho cuore di venire a visitarvi, oramai ridotte a deposito di carte d'ufficio. Eppure ancora qualche metro in cui raccogliermi, per ricordare gli anni di biblioteca, mi resta. Non al Collegio Romano, ma nella biblioteca degli Agostiniani, sarebbe a dire l'Angelica. Proprio sul primo dei due ballatoi del grande vaso barocco, una piccola porta che dovrebb'essere nascosta da pitture di dorsi di libri, apre in una stanza silenziosissima. Poiché i pesanti volumi d'incisioni e i tomi di teologia e storia ecclesiastica non erano richiesti da alcun lettore, i fattorini non v'entravano quasi mai, se non nella stagione dello spolvero. I colloquianti della stanza erano le massicce travature del Piranesi, le immagini d'amor sacro e profano di Marcantonio Raimondi, i tratti impetuosi del Dürer.
All'improvviso il silenzio era spezzato dal frastuono delle campane di Sant'Agostino. L'Angelus della chiesa quattrocentesca aveva per secoli interrotto il lavoro dell'eremitano. Quel poco che si vedeva dalla finestra, una fuga di tetti e di rialzi di lesene, al di sopra della volta apparteneva ad un tempo immobile, ad uno scenario disabitato.»
(Giorgio Petrocchi, Nel mistero del padiglione: tra i libri del Collegio Romano, «Il tempo», 39, n. 83 (3 apr. 1982), p. 3).
Petroni (1960)
«A 13 anni abbandonai la scuola per lavorare nel negozio di mio padre. Poco più tardi, realizzavo una segreta passione cominciando a dipingere: mi alzavo all'alba per trovarne il tempo.
Verso i 20 anni come pittore ero una promessa; in segreto scrivevo poesie. Rosai, Carrà, Carena conoscevano la mia attività di pittore; partecipai ad alcune mostre e mi furono acquistati alcuni quadri. Cézanne, Manet, Courbet, e Chardin furono i miei primi modelli ideali. Volli conoscere la cultura da cui provenivano, imparai il francese e lessi tutto quanto era possibile trovare nella mia città. Mi sembrò poi un controsenso saper di più delle arti e della letteratura francese che non di quella italiana, perciò per alcuni anni passai ogni ora libera in biblioteca.»
(Guglielmo Petroni, testimonianza per Ritratti su misura, p. 330-331)
Petroni (1984)
«A questo punto occorreva impossessarsi delle parole necessarie per adeguarsi agli oscuri sovvertimenti che le nuove immagini [della pittura moderna] avevano provocato nel mio povero spazio spirituale; ma non era poi tanto semplice, anche perché i libri che Beppe [Ardinghi] mi presentava ogni sera, il più delle volte erano scritti in francese. Fu per cercare di imparare i misteri di quella lingua che cominciai a frequentare la Biblioteca Statale [di Lucca].»
(Guglielmo Petroni, Il nome delle parole, p. 50).
«I momenti che riuscivo a scappare da bottega li trascorrevo alla biblioteca dove ormai sapevo trovare tutto ciò che via via mi occorreva. Molti libri italiani riuscivo a leggerli in negozio durante le lunghe ore d'attesa dei clienti; quelli francesi, che ormai misteriosamente riuscivo a decifrare, li trovavo soltanto in biblioteca.
Il volterriano Zadig, eppoi Jean Jacques: il Discours sur l'origine de l'inegalité, Emile, le Rêveries du Promeneur solitaire, La nouvelle Héloïse; infine Paul e Virginie dell'ineffabile abate, e Chénier, e Lamartine, De Vigny, furono i primi incontri letterari che suscitarono anche segreti entusiasmi ideologici. Al mio Leopardi, dopo tutto, in gran parte doveva confacersi questa mia scorribanda sotto il suo incontrastato magistero.»
(ivi, p. 53).
«Al tempo di questa mia seconda avventura militare avevo superato i venti anni; continuavo ad alzarmi presto per dipingere, dividevo uno studio col mio grande amico e maestro Beppe, scrivevo poesie, consumavo pagine di libri che si chiamavano ininterrottamente gli uni con gli altri, trascorrendo molte ore nella sala di lettura della Biblioteca Statale.»
(ivi, p. 62).
Petrucci (1995)
«È da anni, ormai, che nelle università nordamericane si combatte con accanimento la guerra del "canone letterario", di quel finora fondamentale elenco di grandi scrittori e di grandi opere su cui poggia la struttura portante della cultura occidentale, da Omero ad oggi. [...]
Ciò che, in verità, mi interessa e mi incuriosisce, in questa guerra del canone letterario, è il fatto che nessuno sembra accorgersi che esso, almeno nella sua strutturazione tradizionale, formatasi in Europa nel corso di più secoli, e arricchitasi, per naturali addizioni, negli Stati Uniti di fatto non esiste più da tempo, anche se resiste nella formalità di molti insegnamenti. Per rendersene conto basta percorrere i piani e i corridoi delle immense biblioteche universitarie americane, già ad ogni occasione lodate dai nostri più illustri pellegrini (come Umberto Eco) ed unanimemente considerate il non plus ultra della tecnica biblioteconomica. Com'è noto queste biblioteche (che in genere possiedono tutto il pubblicato dell'ultimo secolo, o almeno danno ad intenderlo) sono ordinate per settori disciplinari, insomma, come si diceva un tempo, per materie, e sono di libero accesso; per cui lo studioso, o lo studente, può entrarvi, percorrerle, scegliere il settore dove studiare e prendere con le sue mani tutti i libri che desidera, per leggerli lì sul posto o portarseli via, giovandosi di un indiscriminato diritto di prestito. Per il fatto di essere appunto ordinata per materie, ognuna di queste biblioteche costituisce di per sé una ideale mappa del sapere scritto; e la collocazione dei libri, la loro giustapposizione, la loro contiguità o separazione costituiscono in esse il frutto di scelte precise, prefigurano precisi orientamenti culturali e li impongono a chi le percorre e vi studia, con la forza indiscutibile e fisica della presenza, della successione, dell'ordine: il canone è in sé e per sé un "ordine dei libri" (Roger Chartier).
Ebbene in queste biblioteche il canone tradizionale non esiste, né è possibile ricostruirlo, spostandosi lentamente o freneticamente da un settore all'altro. La mia personale esperienza è stata un vero e proprio incubo. Ignaro di informatica, dopo essermi reso conto che il catalogo cartaceo (ancora in parte in funzione) è falso, perché le collocazioni sono nel frattempo quasi tutte cambiate e nessuno si è preso la briga di avvertirlo, ho cominciato a percorrere i lunghissimi corridoi della grande biblioteca a mia disposizione con crescente angoscia. Cosa cercavo? I miei libri, la mia mappa, i repertori, i testi, le opere relativi alla cultura scritta della tradizione occidentale e rinascimentale, la teubneriana e Les Belles Lettres per i classici greci e latini, la Patrologia latina del Migne e i Monumenta Germaniae historica, le lettere di Erasmo e la collana "Studi e testi", le Fonti per la storia d'Italia e l’Histoire de l'édition française, i Codices latini antiquiores e i classici Ricciardi della letteratura italiana, ecc. A poco a poco, con inenarrabili fatiche, ho cominciato a trovare qua e là i frammenti di un colossale naufragio e a ricomporlo in una personale mappa manoscritta, che tengo nascosta a tutti, perché ne ho vergogna. La Patrologia latina l'ho trovata (per puro caso) nella grandiosa reference room del piano terra, dispersa in un'immensa colossale quantità di repertori bibliografici; le collezioni dei classici sono dislocate per autore, qua e là; l’Enciclopedia dantesca non è nel settore della letteratura italiana, ma fra le enciclopedie nella reference room, accanto al Larousse e al Dizionario enciclopedico della Treccani; in uno strano settore di storia generale campeggiano l'uno accanto all'altro Genie du Christianisme di Chateaubriand e Sea Power dell'ammiraglio Mahan: due capolavori, ma qual è il collegamento? Ho rinunciato a chiederlo. Particolarmente doloroso mi è risultato trovare il settore della storia romana antica come inizio del settore di storia italiana; non so dove sia la storia greca antica, perché ho rinunciato a cercarla. Godo di qualche gioia quando trovo (per caso, peregrinando con aria attonita fra gli scaffali, con la mia borsetta di tela stretta sul petto) un libro che mi interessa, e che afferro con bramosia; leggo di tutto, mai quello che ho cercato e che non trovo quasi mai. Ho ancora qualche sobbalzo quando trovo l'Archivio paleografico italiano (enorme, costosissimo, raro) in libera consultazione, mentre devo chiedere volume per volume e aspettare un giorno per avere le Chartae latinae antiquiores. Oltre a tutto queste biblioteche non hanno odore; i libri non sanno di nulla; rimpiango le vecchie biblioteche di Roma, di Parigi, di Firenze, di Wolfenbùttel, ove ogni sala ha un suo odore caratteristico, fatto di legno, vecchi libri, vecchie pelli, inchiostri e un po' di antichissima sporcizia; e dove l'ordine dei libri è quello solido e tradizionale, per cui a occhi chiusi posso percorrere alcuni metri e trovare il libro che cerco; a condizione, però, che ci sia ancora!
Il fatto è che i professori che si rispettino, al di qua e al di là dell'oceano, non frequentano più le loro biblioteche; e la tecnologia biblioteconomica ha già per suo conto, inconsapevolmente e (credo) con qualche nascosta allegria, come un bambino pazzo, distrutto il nostro giocattolone, che è inutile tentare di ricostruire.
Chi dirà mai agli studenti di "Comparative literature" che Chateaubriand e Mahan non hanno alcuna ragione di stare l'uno accanto all'altro? E poi, chissà, quei due, a forza di stare accanto, hanno imparato a conoscersi reciprocamente; e così, misteriosamente, per via di fisica confricazione, viene configurandosi un nuovo canone, un nuovo e ancora non decifrabile "ordine dei libri".»
(Armando Petrucci, Cronache americane, p. 67-68).
Petrucci (2002)
«Proviamo a percorrere idealmente un “itinerario di scrittura” in una città storica contemporanea: Roma, ad esempio, scendendo dal treno alla Stazione Termini per recarci a piedi sino a piazza San Pietro. Già all’interno della stazione ci troviamo circondati da scritte esposte, da orari, da avvisi, da cartelli, ma anche da giornali, da riviste, da libri offerti all’acquisto. Fuori ci si parano dinanzi i due imponenti complessi del Museo Nazionale Romano; sulla destra, in piazza Indipendenza, la direzione e redazione de «la Repubblica», il secondo quotidiano nazionale; in fondo può scorgersi la mole della Biblioteca Nazionale Centrale, secondo grande deposito librario italiano; più avanti la basilica di Santa Maria degli Angeli offre un vero e proprio panorama di iscrizioni esposte all’esterno e soprattutto all’interno, in una vertiginosa stratificazione cronologica, consueta in una “città scritta” come quella che stiamo percorrendo. Si scende per via Nazionale, la via “moderna” e commerciale, che espone ad ogni passo richiami pubblicitari, fino alla chiesa di San Vitale, sprofondata sulla destra della strada – e a Roma ogni chiesa è un deposito di scritture monumentali –; poco più avanti il Palazzo delle Esposizioni offre alla vista, all’esterno e all’interno, scritte esposte dei generi più vari. Prima di giungere a piazza Venezia, che si intravede sullo sfondo, uno sguardo a sinistra ci permette di scorgere, sul finire di via Milano, l’accesso all’Istituto centrale per la patologia del libro, con annesse raccolte museali ed una propria biblioteca specializzata. Ma l’intera strada, dall’inizio alla fine, negli imponenti palazzi umbertini che la delimitano sui due lati, è piena di istituzioni pubbliche e private, di studi professionali, di uffici, ognuno dei quali è stipato di archivi e produce quotidianamente scrittura, sia su supporto cartaceo che informatico. A piazza Venezia svetta sulla sinistra la colonna Traiana eretta nel 113 d.C. e divenuta, dal Rinascimento in poi, modello grafico di ogni rinascita classicistica; di fronte il museo di Palazzo Venezia e la Biblioteca dell’Istituto nazionale di archeologia e di storia dell’arte con imponenti raccolte librarie; sotto il Vittoriano l’antichissima iscrizione dell’edile Caio Poplicio Bibulo (I sec. d.C.). All’inizio dell’adiacente via delle Botteghe Oscure si trova la storica libreria Rinascita; in fondo, sulla sinistra, la sede dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, con propria biblioteca e fervida attività editoriale; a un passo il Foro Argentina, con monumenti e iscrizioni di età classica; lì accanto il museo e la biblioteca di storia teatrale del Burcardo; ancora libri anche in piazza Argentina, nella quieta e ricca Biblioteca Besso. Più avanti il corso Vittorio Emanuele, seconda arteria stradale “moderna” della città, ci conduce ad altri straordinari depositi di memorie scritte: sulla destra, in corso Rinascimento, l’Archivio di Stato, uno dei maggiori d’Italia, e, poco oltre, la bellissima e ricca Biblioteca Angelica. Ancora più avanti, accanto alla Chiesa Nuova, nel palazzo dei Filippini, la Biblioteca Vallicelliana, l’Archivio Capitolino del Comune di Roma e l’Istituto storico italiano per il medioevo, con propria, specialistica biblioteca e lì accanto la biblioteca meridionalistica “Giustino Fortunato”; e finalmente, passato il Tevere, dopo aver percorso via della Conciliazione fra una serie di ricche librerie, la Città del Vaticano, con il suo incomparabile tesoro di memoria scritta: la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’Archivio Segreto Vaticano, gli uffici stessi della Chiesa Cattolica e la Tipografia Vaticana.
Roma è una città plurimillenaria che, nelle diverse epoche della sua ininterrotta vita urbana, ha prodotto e conservato immense quantità di testimonianze scritte.»
(Armando Petrucci, Prima lezione di paleografia, p. 3-5).
Pintor (1910)
«Carissimo Gentile,
Mi viene richiesta dalla Casanatense la restituzione di Muellner, Briefe u. Rede[n] ital. Umanisten. Io purtroppo in fatto di libri a prestito ho sempre una gran confusione in testa: un po' per colpa mia, un po' perché quel servizio diventa sempre più esteso, qui in Biblioteca [del Senato]. Mi pare di ricordare d'avere preso per te, quel libro, nel novembre scorso. Ma qui non ne trovo traccia. Se lo avessi tu, mi faresti gran piacere mandandomelo per "espresso". E mi toglieresti da un pensiero.»
(Fortunato Pintor, cartolina a Giovanni Gentile, Roma 5 giugno 1910, p. 242)
Pintor (1937-1940)
«Carissimi,
ho ripreso stamani le mie gite alla biblioteca universitaria [Alessandrina] ma ho lasciato per oggi S. Tommaso e ho preso le due prime annate della «Voce». Lo zio [Fortunato Pintor] dice che continuando cosí farò un bellissimo confronto tra S. Tommaso e Papini e mi esorta a darmi a studi piú propriamente giuridici. Io naturalmente lo lascio cantare. Appena finito il lavoro di filosofia del diritto comincerò un corso regolare di letteratura francese.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 7 gennaio 1937, in Doppio diario, p. 20).
«Con tutto questo, i libri di storia di Volpe e quelli di filosofia di Croce, sono ben lontano dall'essere un martire del lavoro.
Sono anzi il vero e ortodosso edonista il quale, come insegnava il famoso Cireneo, non prende i suoi beni alla giornata ma affronta dei sacrifici per ottenere un bene maggiore. Cosí quelli che ora si divertono nei cortili dell'università mentre io sto in biblioteca avranno poi da servire a una vita faticosa di cui io sarò invece il padrone.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 30 gennaio 1937, in Doppio diario, p. 23).
«Ho ripreso il solito sistema di vita di cui è simbolo la biblioteca universitaria. Devo avere un aspetto molto triste quando leggo Corneille, in pesanti volumi del secolo scorso, «arricchiti» del modernissimo commento di Voltaire. Mi consolo ogni tanto con qualche lettura piú amena. Ho cominciato La famiglia dispersa; mi pare un notevole romanzo e, anche se non avesse dei grandi pregi artistici, sarebbe interessante la rappresentazione di un mondo cosí lontano e per il quale ho molta simpatia. Tutte quelle «onorevoli» persone sono figure simpaticissime. È indubbia del resto la superiore civiltà di un popolo che chiama onorevole anche il brigante di strada e la donna pubblica in confronto agli occidentali che riservano quell'appellativo ai soli deputati. (Va bene che i deputati sono per definizione uomini pubblici e comprendono non pochi briganti).»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 9 aprile 1937, in Doppio diario, p. 26-27).
«Quell'inverno di lavori accaniti e di [ ] scoperte non conobbi ragazze. La mattina mi chiudevo nella biblioteca dell'università e guardavo attraverso le grandi vetrate le ragazze che passeggiavano in giardino e quella folla di giovani per cui provavo un senso di vaga inimicizia. Mi tenevo separato e [ ] abbandonandomi al piacere dei progetti ambiziosi».
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 27-28. Gli spazi in bianco sono lasciati dall'autore).
«Carissimi,
ho finito sabato, ingloriosamente, il mio primo anno di giurista. [...] Fiacchi battimani nelle aule ormai troppo calde e retoriche frasi di quelli che si dicono maestri di scienza. Impiegati anche piú sonnolenti in biblioteca, studentesse bruttissime vestite con abiti civettuoli, circolari sempre più cariche di gente oltraggiosa e sudata.
Lunedí comincieranno gli esami. Siamo ottocento, purtroppo, e gli esaminatori sono pochi, deboli e vecchi; resisteranno alla marea?»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 31 maggio 1937, in Doppio diario, p. 30).
«Carissimi,
le mie giornate hanno improvvisamente cambiato aspetto: risuonano ora di armi e di appelli militari [...].
Ho accettato volentieri questa fatica che mi sottrae per dieci giorni al grigio orario di biblioteca e che serve da preludio alla vera vita militare.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 24 gennaio 1938, in Doppio diario, p. 35-36).
«Ai primi di dicembre [1939] tornai a Roma per riprendere la mia vita universitaria nella sua forma piú piena. La chiamo universitaria per una coincidenza di tempi, non perché la scuola avesse una parte importante nell'ordine dei miei impegni. L'università era semmai il luogo di convegno per alcune ore del giorno; fra la biblioteca e i giardini si trovavano tutte le persone che desideravo vedere e senza ascoltare mai una lezione, passai intere mattinate a discorrere e a studiare in quelle aule.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 67).
«Carissimi,
è inutile che vi racconti che i tedeschi sono a Sedan e che Churchill designerà domani i nuovi ministri. [...] C'è perfino il senato in seduta e le ultime velleità di studio si rompono contro questo ostacolo della biblioteca chiusa; passo quasi tutta la mattina all'università a conferire con amici e a combattere con gli ultimi fastidi scolastici (tasse, firme).»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 14-15 maggio 1940, in Doppio diario, p. 71).
Pintor (1939-1941)
«Bene i lavori miei. Ora andrò abbastanza spesso all'Istituto di Studi Germanici e forse farò qualcosa per la loro rivista. Si trovano libri, giornali e uomini egualmente utili.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Roma 28 aprile 1939, in Doppio diario, p. 60).
«15 ottobre [1941], Roma
Pioggia torrenziale tutto il giorno. Ho accompagnato mia madre per certi affari, poi all'istituto [di studi germanici] di Villa Sciarra. C'erano tutti i germanisti di Roma. Parlato soprattutto con [?] e con Cantimori.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 153).
«20 ottobre Roma [1941]
Al centro di Studi Americ. dove è bibliotecaria Giuliana Spaini sempre molto bella e cordiale. Poi a Villa Sciarra; non ho trovato Gabetti.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 155).
Pintor (1941)
«23 settembre, Torino [1941]
Stamani sono stato in biblioteca e ho fatto qualche commissione.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 147).
«6 ottobre. Torino [1941]
La mattina in ufficio. Scritto lettere e un articolo su Tecchi. Dopo pranzo sono andato a leggere Grillparzer in biblioteca e poi in albergo.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 151. Quest'annotazione e la precedente si riferiscono probabilmente alla Biblioteca nazionale).
«17 novembre [1941], Torino
[...]
Nelle prime ore del pomeriggio lavorato all'istituto giuridico, poi visto [Aldo] Bertini che è tornato da Modena.
Chiuso il pomeriggio da Einaudi sfogliando riviste e chiaccherando piacevolmente.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 159).
«19 novembre, Torino [1941]
[...]
Stamani sono tornato per poco tempo all'istituto giuridico. Tutto il pomeriggio in ufficio dove ho scritto molte lettere e ho visto i soliti amici.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 160).
«22 novembre, Torino [1941]
All'istituto lavorato parecchio su Kelsen. Dopo pranzo sono andato a Venaria a trovare Gabriele Baldini, sergente.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 160).
«Del resto io dedico molto tempo alla mia attività di studio. Ho ripreso il lavoro giuridico e contro ogni vostra previsione, mi occupo in questo momento del problema della sovranità.»
(Giaime Pintor, lettera alla famiglia, Torino 22 novembre 1941, in Doppio diario, p. 161).
«I dicembre, Torino [1941]
La mattina lavorato all'Istituto, poi visto [Leone] Ginzburg che mi vuole convincere a non pubblicare Rilke.»
(Giaime Pintor, diario, in Doppio diario, p. 164).
Pintor-Gentile (1904)
«Mio carissimo Gentile,
Altri capitoli delle Confessioni, col titolo di Confessioni, non ci sono, nelle annate 1858-1859, e neppure in quelle 1860-1861 della Rivista contemporanea. Ma c’è qualche altra cosa che ti può interessare. Nel fasc. sett. 1858 (vol. 111 dell’annata), a pp. 337-354 è uno scritto di L. Ferri, Intorno alla filosofia esposta nelle Confessioni del Mamiani e alle dottrine platoniche. [...]
Domani mi spingerò più avanti: ma se non ti riscrivo vorrà dire che il risultato è stato negativo.»
(Fortunato Pintor, lettera a Giovanni Gentile, [Roma] 4 luglio [1904], p. 160-161)
«Mio carissimo Pintor,
Hai cercato anche troppo; basta, basta; e manda alla malora questo gran seccatore del Mamiani, che non merita davvero tante fatiche, quante ne hai durate tu per amor mio. Luigi Ferrari m’aveva fatto nascere il sospetto, perché afferma che la 1a ed. delle Confessioni uscì nella R. Cont. [Rivista contemporanea] dal 1856 al 1859; e voleva accennare forse al séguito polemico che ebbero i primi capitoli. Scusami, o pigliatela, se credi col Ferri. Io non ti posso ringraziare per ora, perché non ho finito.
Potresti tu riscontrarmi il cod. vaticano 3359 contenente l’autografo del De ignorantia del Petrarca? Io non sono stato mai alla bibl. Vaticana e non so se ci siano difficoltà da superare per vedere i codici. Se non ce ne fossero, tu mi dovresti ricopiare dal f. 28 il passo che comincia “Platonem prorsum illis et incognitum...” e finisce dopo poche righe: “...honestisque principiis obstitisset, ut solita est” – badando bene se non ci sia nulla nell’ultimo periodo di questo brano tra precipue e Barlaam. M’interesserebbe avere questa comunicazione, possibilmente, fra una settimana. Ma puoi tu farmi questo favore? Il passo è riferito appunto secondo l’autografo dal De Nolhac (Pétrarque et l’humanisme, 1892, p. 324); ma devo essere proprio sicuro che il De Nolhac, che tenne innanzi l’ediz. scorrettissima di Basilea 1581 non abbia tolto tra il precipue e Barlaam p.e. un apud (che a me importerebbe molto) e che trovo nella 1a ediz. del De ignorantia di Venezia 1501.
È annunziata d’imminente pubblicazione un’ediz. di questo autografo a cura di L.M. [Luigi Mario] Capelli; ma questo non credo che possa farti incontrare difficoltà nella Vaticana.
Non ti meravigliare di queste mie ricerche. Sai che scrivo la storia della filos. ital. pel Vallardi, e qui mi occupo anche del Petrarca. E il passo che ti chiedo del De ignor. è importantissimo per determinare la conoscenza che il P. [Petrarca] ebbe di Platone»
(Giovanni Gentile, lettera a Fortunato Pintor, Napoli 6 luglio 1904, p. 163-164)
«Mio Caro Gentile, La Vaticana è chiusa, come ogni anno, dal giugno all’ottobre: ed è clausura pretesca: di difficile violazione, quindi, per chi... non sia prete! [...] Ieri ho mandato in Vatic. un messo – l’amico [Ferdinando] Neri – che è amico del [Marco] Vattasso – uno degli scrittori della Biblioteca: ma disgraziatamente il Vattasso è in licenza. Ora ho scritto al [Giovanni] Mercati, che conobbi una volta per mezzo del p. [Giuseppe] Boffito, ed aspetto la tua risposta. Perché è un altro mondo, quello di là dal Tevere; e non basta, per arrivarci, prendere il tram di S. Pietro! Più diritta è la via di Propaganda Fide, e più diritta ancora quella di Padre Martin e dei gesuiti... Ma sono, codeste, le vie degli eletti!
Concedimi dunque una proroga, che speriamo rechi frutto.»
(Fortunato Pintor, cartolina a Giovanni Gentile, [Roma, 18 luglio 1904], p. 166-167)
«Mio impareggiabile Pintor, – Siccome del mio articolo terrò presso di me le bozze fin verso il 10 agosto, se a te o ad uno degli amici tuoi riuscisse di dare una capatina nella Vaticana, fino a quel giorno sarei in tempo per poter aggiungere allo scritto la nota occorrente nel caso che la collazione mi dimostrasse inesatto il testo di De Nolach [sic]. Dunque, voglio sperare che pel mezzo del Mercati ti riesca di vedere quel ms.»
(Giovanni Gentile, cartolina a Fortunato Pintor, [Napoli 20 luglio 1904], p. 168)
«Mio carissimo Gentile,
T’accludo la collazione o trascrizione del passo: fatta non di mia mano, come avrei desiderato. Ero riuscito ad avere accesso alla Biblioteca, in via straordinarissima, per mezzo del gentile e dotto p. Boffito; e avevo anzi un appuntamento con lui, che mi avrebbe presentato al padre [Franz] Ehrle, per una delle scorse mattine. Ma mi sopravvenne un po’ di febbre, che mi ha reso invalido, durante gli ultimi giorni che ho passato a Roma. E allora il nostro buon [Luigi] Ferrari è corso lui, in Vaticana, per giustificare la mia assenza; e per sostituirsi a me nella trascrizione. Ma non ce n’è stato bisogno: perché il p. Boffito ha voluto far da sé: anche perché sapeva che il passo serviva a te, per cui ha grande ammirazione. – A lui dunque, se vorrai, potrai mandare una carta da vista (a Roma, Collegio dei Barnabiti. Via Tata Giovanni (22, mi pare): ma già l’ho ringraziato io)»
(Fortunato Pintor, biglietto a Giovanni Gentile, La Consuma (Pontassieve) 3 agosto [1904], p. 169)
«Mio caro Pintor,
[...] Il De Nohlac mi ha dato ragione in tutto, dichiarandosi mortificato per quell'apud.»
(Giovanni Gentile, cartolina a Fortunato Pintor, [Napoli 14 ottobre 1904], p. 174)
Pintor-Gentile (1905)
«Mio Caro Gentile,
Ai miei ritardi sei ormai abituato: non ti chiedo perciò neppure scusa!
Nella nazionale V.E. [Biblioteca nazionale di Roma] non v’è nessuna edizione originale dei Dialoghi del Bruno. Ve n’ha invece delle opere latine; e vi sono pur nelle stampe originali – nella miscellanea Valente – le due orazioni “in exequiis meis Brunsuicensium”, e “in Acad. Witeberg”.»
(Fortunato Pintor, cartolina a Giovanni Gentile, [Roma] 22 [luglio 1905], p. 192)
«Mio caro Pintor,
È inutile; come vedi, mi faccio sempre più un seccatore. Il [Francesco] Fiorentino deve aver trovato in una delle pubbliche Biblioteche italiane il Dialogo italiano di G. Bruno De la causa, principio et uno ediz. di Venezia [Londra] 1584. Credevo che l’avesse vista nella Miscellanea Valente, perché d’un opuscolo latino dava appunto questa indicazione. Io avrei proprio bisogno di ripescare quel dialogo. Come facciamo? Tu hai amici in tutte le principali biblioteche: potresti scrivere che ne facciano un’accurata ricerca? Bisognerebbe cominciare dalla Universitaria di Pisa, dove insegnava il Fiorentino quando scrisse di aver tra mano il detto dialogo. Del resto, qualunque stampa originale di altro dei dialoghi del Bruno mi gioverebbe lo stesso, servendomi pel riscontro di certe particolarità della sua grafia. Puoi farmi questo favore? Capisco che è troppo il fastidio che ti do; ma solo tu mi puoi fare questa ricerca in modo che non mi restino scrupoli.»
(Giovanni Gentile, lettera a Fortunato Pintor, Napoli 29 luglio 1905, p. 193)
«Mio carissimo Gentile,
Avevo cercato inutilmente, in tutte le biblioteche fiorentine, quando ci sono stato al principio della licenza in agosto. Poi ho avuto da Pisa la risposta negativa che ti acchiudo. Aspettavo ora, la risposta di Venezia [probabilmente Biblioteca Marciana]: e temendola per negativa, pensavo di pregarti ad aspettare il mio ritorno a Roma, donde avrei potuto mandare una circolare d’ufficio, a tutte le biblioteche; ed avere in breve tempo, una risposta precisa da tutte: ciò che non si ottiene in questa stagione, scrivendo personalmente ai bibliotecari. Ma tornando, ora, a Firenze, ho dovuto confessare a me stesso che la ricerca, la prima volta, non era stata fatta da me con quegli avvedimenti che parrebbero doverosi, in un ex-impiegato della Nazionale [di Firenze]. Avevo dimenticato la collezione Guicciardini, tutta, come sai, di opere “proibite”! Qui ho trovato subito una numerosa serie di opere del Bruno: e tra le altre, proprio il De la causa principio et uno, nell’edizione del 1584.
Ma si tratta della collezione Guicciardini, cioè di una raccolta il cui uso è intralciato da una serie di severe disposizioni testamentarie che non solo ne vietano il prestito, ma prescrivono una speciale presentazione anche per la semplice consultazione. Se dunque t’occorresse aver fra mano il dialogo, è inutile pensare alla Guicciardini: e si farà la circolare (mi ero fatto mandare, dal [Luigi] Ferrari, anche la carta timbrata: ma poi mi è parso non corretto, spedirla mentre sono in permesso). Ma se ti bastasse averne un saggio (mi pare che mi scrivessi che ti occorre fissare certe particolarità di grafia) potrei io stesso farne un estratto, giuste le norme che tu vorrai darmi. Ma bisognerebbe che io sapessi qualcosa entro la prossima settimana: dovendo tornare il 20 a Roma.»
(Fortunato Pintor, lettera a Giovanni Gentile, Firenze 10 settembre [1905], p. 195-196)
«Mio carissimo Gentile,
Trascrissi il giorno avanti di partir da Firenze, lo scorso settembre, alcune pagine del Bruno: e poi non m’è riuscito di mandartele, tanto poco son padrone del mio tempo! [...]
Il brano trascritto non basterà, m’imagino, al tuo scopo. Né ho dismesso l’idea di fare una richiesta a tutte le biblioteche. Si stanno stampando le apposite circolari di cui la Biblioteca [del Senato] era sprovvista.»
(Fortunato Pintor, lettera a Giovanni Gentile, [Roma ottobre 1905], p. 197-199)
Piovene (1957a)
«Ravenna è tra le nostre città in cui le tradizioni di cultura sopravvivono con più tenacia. Vi fa capo un teatro romagnolo, con tre compagnie dialettali, che girano nei paesi intorno, e attirano grande pubblico. È gloria di Ravenna la Biblioteca Classense, famosa per incunaboli e manoscritti. Anni fa, ricordo di avervi visitato una raccolta, credo unica, di xilografie primitive, italiane e tedesche. Mi accompagnava il bibliotecario d'allora, Sante Muratori, che illustrava in se stesso il tipo dello studioso ed erudito ravennate. A lui è succeduto Manara Valgimigli, uno dei nostri massimi grecisti e umanisti, finissimo scrittore, e la maggiore personalità culturale di Ravenna.
Manara Valgimigli è uno degli studiosi che le discipline umanistiche e la familiarità dei classici conducono a opinioni non già conservatrici, bensì radicali in politica: fenomeno abbastanza frequente nell'Italia di oggi. Ottantenne, seduto a tavolino, in uno studio che assomiglia a una cella, cistercense, in questa biblioteca che fu sede appunto di monaci cistercensi. Quasi non v'è passaggio di colore dal camice al grande viso tondo dal viso al cranio vasto senza capelli. Il viso e il cranio fanno insieme una specie di palla di gomma chiara, tinta appena di rosa. Tutto bianco, e un'immensa calma; ecco un uomo che sembra preordinato per il ritratto di un impressionista francese. Quel bianco monacale è però soltanto visivo. Appena Valgimigli parla, sprizzano da lui l'esuberanza, la cordialità ospitale, l'ostinazione, il gusto della diatriba e l'atavico anticlericalismo propri dei romagnoli. Abbandonando le cartelle, ch'egli sta ricoprendo della sua linda e minuta scrittura di uomo di studio, riversa nel mio seno la propria indignazione contro un giornalista, resosi reo di tradimento: ha scritto che Carducci, il maestro di Valgimigli, fu convertito in punto di morte dalla contessa Pasolini. Mi dimostra che non è così: "Prima di tutto non è vero; e poi, a questi chiari di luna, prima di scrivere una riga bisogna chiedere a se stessi: farebbe piacere alla Democrazia cristiana? Se fa piacere, non si scrive." Tutta la Romagna è qui, e zampilla anche dal fondo di una biblioteca cistercense. Dopo questa sfuriata, Valgimigli rientra negli abiti monacali e mi confessa che, da buon romagnolo, è devoto a san Romualdo.»
(Guido Piovene, Viaggio in Italia, pp. 299-300. La prima edizione fu pubblicata da Mondadori nel 1957)
